Io e altri animali

Se si guarda negli occhi di un animale, tutti i sistemi filosofici del mondo crollano (Luigi Pirandello)

Ho iniziato a pensare a questa pagina quando alla fine del post Gatti e cinema: una lunga storia d’amore avrei voluto scrivere una dedica a Camillo. Ho pensato però che c’era troppo di personale e il troppo personale è spesso privo di interesse per gli altri. Ho deciso così di conservare il suo ricordo solo per me. Col passare degli anni questa pagina si è formata nella mia mente e nel mio computer, evolvendosi ma restando sempre in una sorta di stand-by. In principio a far muovere le cose è stato il niente, quello che si materializza solo dopo una certa età e realizzi che momenti interi di vita potrebbero andarsene se non eserciti il ricordo. È da leggere con ironia, nessuna mestizia, prima o poi capita che uno ti chieda  “ma ti ricordi…” e tu non ti ricordi un accidente. Mi sarebbe spiaciuto perdere questi momenti.  Poi il moto a pubblicazione, superando l’ostacolo “ma non è troppo personale?”. Il fatto è che noi siamo le cose che abbiamo visto, fatto, provato, amato. Gli animali fanno parte della mia vita da sempre, quindi loro sono una parte di ciò che sono, senza di loro sarei stata diversa, sicuramente più povera. Appena ho imparato a scrivere ho scritto di loro, e sono qui ancora a scriverne. Li ho amati e li amo per ciò che sono, senza mai pretendere che fossero come li volevo io. Ho fatto del mio meglio per non renderli simili a me perché li ho amati proprio perché diversi da me. Se ne ho tratto delle caratteristiche umane è perché sono umana e non riesco a vedere oltre.

Spiegazione spiccia del crollo dei sistemi

Se un essere umano rovescia la pattumiera o tutte le sante sere ti fa trovare il vialetto pieno di terra che ha buttato fuori dal giardino è un cretino e ne viene fuori una rissa epocale. Se lo fa un gatto o un cane, be’, dello scemo glielo dai anche, poi loro guardano dal disastro a te e viceversa con la faccia di uno che dice: mah… non so se sono stato io, che cosa te lo fa credere?
Il cane: se dici che sono stato io, mi dispiace immensamente, scusa, mille volte scusa… Sono stato io… e allora non me lo ricordo, soffro di amnesiaaaa uhdio-uhdio. Che c’è per cena?
Il gatto: guarda, vorrei anche stare a discutere con te di questo problema che hai di intolleranza verso la buccia delle zucchine spiaccicata sul pavimento ma ho un impegno. Torno per cena.

Un essere umano che si fa sempre i fatti suoi è definito un menefreghista ed egoista. Un essere umano che fa sempre ciò che gli ordina un altro essere umano è un vile e/o un ruffiano a seconda delle situazioni. In entrambi i casi, l’essere umano ne esce una schifezza. Ora, se ribaltiamo le due cose sui gatti e sui cani, entrambe le specie ne escono vincenti e amiamo in loro queste caratteristiche. Ed ecco perché non entro nelle diatribe di chi preferisce i cani o i gatti: le argomentazioni portate a favore dell’uno o dell’altro animale sono produzioni della mente umana. Perché semplicemente ci sfugge di vista che siamo un’eterna preferenza, sono poche le cose che riusciamo ad amare contemporaneamente e con la stessa intensità, il problema è nostro, non loro. Posto che a uno a cui piace un animale non può odiarne un altro, ci si sente naturalmente attratti più verso un cane o verso un gatto. Io da sempre preferisco i cani, perché non lo so, è un problema mio, non dei gatti. E infatti sono entrati a decine e li ho amati tutti.

Si parte dal lontano

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3-8-1972. L’inizio di tutto forse è in questa foto. Mio padre, io e i gatti selvatici della collina di Laigueglia. Probabilmente è stato questo il momento in cui ho incominciato a capire la bellezza della natura, non ricordo molto se non che i gatti mi rendevano felice. E ho imparato ad avere pazienza, aspettare che siano loro a permetterti di entrare in qualche modo nella loro vita. Questi gatti appartenevano solo all’entroterra ligure. Niente scatolette, niente ciotola con l’acqua, nessuna figura umana che ti fa i versi da pirla quando torna a casa. Quando un gatto vive così, l’unica cosa che gli può stare bene è che tu gli butti lì qualcosa da mangiare e poi te ne vada. Non cercare di grattarlo dietro l’orecchio, non pretendere che se lo lasci fare come ricompensa per avergli dato da mangiare. Non conosce né te personalmente né la razza a cui appartieni ma ha sicuramente scritto nel dna che a quelli come te è meglio non accordare fiducia. Un pezzetto di cibo per volta e abbiamo iniziato il rito dell’avvicinamento fisico graduale. Finché i gatti selvatici di collina non sono più stati tanto selvatici. Sono entrati in quella dinamica per cui un animale capisce che un essere umano, non si sa bene per quale motivo, agisce a scadenze fisse. C’è un orario per tutto. A quell’ora di sera si scende dalla collina e si va a mangiare. E magari poi arrivano anche a pensare che, in fondo «quell’altro loro strano rito, quello di volermi accarezzare il pelo, non è poi così disprezzabile».

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La fattoria

Mi sa che ogni famiglia ha la sua storia fissa, quella che te la raccontano perché pensano che eri troppo piccolo per ricordare. I decenni passano, si cambia tutti ma lei non cambia mai, sempre buona per essere tirata fuori di quando in quando. La mia è quella che quando si andava in campagna mio padre mi portava in stalla e lasciava che tutti gli animali ci leccassero, si strusciassero addosso, che facessero la nostra conoscenza insomma. Uscivamo imbrattati e felici. Ho così imparato che anche le mucche, che la maggior parte di noi ritiene da vive piuttosto insipienti, in realtà riconoscono le persone e si affezionano a loro. Questo è stato l’imprinting dei miei primi anni, quello che è venuto dopo ne è la logica conseguenza.
Quando uno di città frequenta la campagna, essa cessa di essere un idealizzato e idilliaco quadretto bucolico per assumere il suo vero volto, che è comprensivo anche del letame. Conoscere il letame in tutti i suoi aspetti è ciò che ti tiene ancorato alla realtà, evitandoti quelle misere figure da cittadino radical chic che va cercando il biologico nei supermercati NaturaSì. Le carote biologiche nascono su cumuli di terra simili a tombe di giganti, fumanti e marroni, il radical chic resterebbe perplesso. La campagna è un luogo di fatica estrema ed è bene che un vero contadino non incontri mai i creativi che hanno fatto quell’imbarazzante pubblicità del minestrone con il signore giulivo che semina ettari di terreno con un cestino.
Insomma, crescere in un cortile ti fa conoscere tutti gli animali, non solo i cani educati, i gatti obesi da salotto e i polli a quarti già puliti.
Farò quindi un breve excursus su questo bestiario che ha popolato la mia infanzia.

I bovini

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Io accarezzavo il muso alle mucche, quando passavo dalla stalla loro si giravano a guardarmi. Quella con cui mi attardavo di più era strabica. Gli occhi erano sporgenti come quelli di un ippopotamo e le pupille totalmente convergenti all’interno. Lo facevo perché nella mia logica di bambina pensavo che le rincrescesse essere così straordinariamente brutta e che di conseguenza meritasse più affetto delle altre.
I tori no, con questi non ho mai voluto tentare approcci, pensare che prima o poi si sarebbero mostrati amichevoli o che altro. I tori mi hanno sempre terrorizzato. Sono animali irragionevoli e furiosamente aggressivi, credo che nemmeno san Francesco abbia mai provato ad avere una qualunque interazione con loro.

I volatili

Che poi in realtà non volano. Le galline sono veramente stupide ma non sono cattive. I galli non splendono di intelligenza ma sono belli e colorati, soprattutto quando fanno i “galli”. Le anatre sono buffe, graziose e irascibili come Paperino. I tacchini sono tra gli animali più cattivi che io abbia mai conosciuto, addirittura paragonabili ai tori. Quando si arrabbiano subiscono una trasformazione: la testa e il collo diventano vermigli, quasi raddoppiano le loro dimensioni ed emettono dei bruttissimi suoni (pare che scientificamente si dica gloglottare). E che ci si creda o no, hanno le loro antipatie. Nel senso che generalmente non sopportano nessuno ma può capitare che sopportino ancor meno qualcuno in particolare. I tacchini sono dei sociopatici. Altri animali iracondi sono le oche, nemmeno con loro ci voglio aver niente a che fare.

I suini

I suini amano farsi grattare la schiena. Non ho mai mangiato un salame proveniente da un  maiale al quale ho grattato la schiena.

“Animali da affezione”

La gatta grigia, l’Eva Kant dei felini

Non credo di aver mai più conosciuto un animale dal carattere più sfaccettato e complesso di questa gatta. Anche lei di campagna, all’inizio mostrò tutta la riottosità tipica dei felini. Qualunque altra persona l’avrebbe lasciata perdere. Io no. Non avendo un animale mio, andavo mendicando l’attenzione di quelli degli altri. A volte mi viene il dubbio che alcuni di loro mi si siano concessi più per sfibramento che per volontà. Questa gatta grigia passò dall’ignorarmi platealmente all’entrare in contatto con me solo tramite le sue unghie. Ad ogni sessione di avvicinamento ne uscivo come un gladiatore. Dopo un po’ iniziò a soppesare l’ipotesi che probabilmente non ero uno di quegli aggeggi ruvidi che si chiamano tiragraffi, così incominciò la fase del: ok adesso puoi accarezzarmi, adesso no. Come per la maggior parte dei gatti, il problema è che non c’era avviso tra la fine di una fase e l’inizio dell’altra. Dopo avermi quasi cavato un occhio, decise che potevo entrare a far parte del suo mondo. Anche se in realtà io credo di sapere cosa la convinse di me: la mia omertà. Io ero collusa in tutte le sue nefandezze. Perché tutti i gatti rubano le cose da mangiare ma questa aveva un ardire che andava al di là di ogni logica. Non ricordo se ci fu un crescendo o se gli episodi si mischiarono. Ma probabilmente la nostra connivenza cominciò con le salamelle al sugo. Io stavo sul divano, lei entrò dalla finestra, saltò sulla cucina a gas dove stavano cuocendo, io la guardai, lei mi guardò, sicura che sarei intervenuta. Io sentivo che non l’avrebbe fatto, il fuoco era acceso. Lei lo fece: infilò un’unghia nel padellino. Girò verso di me il suo sguardo verde intenso. Ci guardammo e passò tra di noi un pensiero telepatico e complice. La zampa scattò, fuori un pezzo di salamella. Scotta, ma neanche troppo. Mangia e si gira a guardarmi. Io sono immobile, sorrido e basta, come a dirle: cavoli, ma sei veramente una forza della natura. Lei continua le manovre, immersione, scuotimento zampa, immersione, scatto, fuori la salamella dalla padella, dentro la bocca. Un passo umano interrompe l’associazione a delinquere. Faccio la scena, lei altrettanto: io urlo no, no, no, lei scappa fintamente spaventata dalla finestra. Come l’escalation di un ladro che passa dal borseggiare sull’autobus al colpo pulito alla gioielleria Bulgari, il bottino si è di volta in volta arricchito fino ad arrivare a rubare un pollo congelato di circa un chilo, tirandolo giù dalla tavola e trascinandolo fuori dalla finestra, e un enorme pezzo di grana.
La gatta non arrivò solo a farsi accarezzare o a giocare un po’, o a farsi dare da mangiare. La gatta arrivò a fidarsi a tal punto di me da fare ciò che nessun gatto di cortile farebbe mai: condividere con me la nascita della sua prole. Una volta fu lei a venirmi a chiamare, a portarmi miagolando sul fienile e mostrarmi i suoi gattini ben nascosti dentro la paglia. Ma un’altra volta riuscì persino a superare se stessa. Mi chiamò nel momento del parto, io non volevo vederlo, lei partorì davanti alla porta di casa.
Tutti rimasero senza parole mentre mi aiutavano a mettere i gattini in un posto più sicuro. E anch’io, a distanza di tanti anni, quando ci ripenso non riesco a darmi una spiegazione. Posso solo dire che se tutti avessero vissuto un’esperienza simile da piccoli non esisterebbero persone che sterzano per investire un gatto o che gli sparano o che lo avvelenano.

Il gatto maschio che si credeva una mamma

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La gatta grigia morì per una gravidanza in un’età in cui non avrebbe più dovuto averne. Lasciò dei figli grandi e anche quelli piccoli, naturalmente. Ora, non ricordo se questo fatto avvenne tra un fratello grande e i piccoli o se tra grandi e piccoli ci sia stato un salto temporale e di conseguenza non fossero nemmeno fratelli. Però il fatto è avvenuto e sembra anche questo uno dei quei misteri che la natura ci regala. Forse un monito: non è che siete sempre voi i migliori, o semplicemente un segnale che l’evoluzione è sempre in corso e all’interno della stessa specie c’è un individuo che non si allinea e devia verso un comportamento più complesso. C’era questo gatto maschio, bello, affettuoso e sempre alla ricerca della compagnia dell’essere umano. Se un cane ti segue ovunque, lo dai per scontato, se lo fa un gatto resti perplesso. E poi il cane sa come si fa, il gatto invece ti cammina tra le gambe. Insomma, il gatto fa un po’ la figura del tonto. Ma tonto non lo era proprio per niente, aveva un surplus di affettività, da dare e da ricevere, ecco. E così lo fece: adottò il gattino, non come padre ma come madre. Se il gattino miagolava, lui si sdraiava e lo lasciava succhiare. Le battute degli adulti si sprecavano, insieme alle domande irrisolte: come fa un maschio a sapere che si fa così ad allattare? Come fa il gattino a trovare soddisfazione alla sua fame? Erano solo due anime solitarie che non rientravano nella logica della biologia.

Presto, il buono il brutto(bello) il cattivo tutti insieme

Presto è coevo e appartenente allo stesso luogo della gatta grigia e posso considerarlo un’altra mia conquista. Era un cane lupo e ovviamente ne rimasi attratta fin dal primo sguardo. Presto era un duro, un cane da guardia, più per volontà altrui che sua, come nella maggior parte dei casi. Mi avevano proibito di avvicinarmi. Passammo un buon numero di ore a guardarci, lui prima diffidente (c…o vuole questa?), poi curioso, io adorante, finché fummo sicuri di essere innocui l’uno per l’altra e ci fu l’incontro ravvicinato del terzo tipo. Non mostrò mai nei miei confronti il benché minimo segno di aggressività. Fu uno dei miei tanti cani “presi a prestito”.

Dick 1, Dick 2, Pamir: i cani del quartiere
Dick 1 era il cane di una pasticceria, un setter. Di solito stazionava davanti al suo negozio ma il più delle volte se ne andava a zonzo. Amichevole con tutti, divideva equamente le sue giornate tra sonnellini, brioche e passeggiate di ricognizione. Ogni tanto era richiamato all’ordine dai padroni indaffarati in negozio e doveva prendersi cura della bambina nel passeggino: se piangeva, era compito suo risolvere la questione. Dick 1 arrivò a un livello tale di astuzia da elaborare una strategia di mantenimento del suo stato di cane con padrone ma libero. Il nuovo vigile di zona capì che, nonostante il suo ciondolare di via in via, non era un randagio, ma il difficile era sapere di chi fosse. Il cane avvertì in qualche modo che non poteva condurre l’uomo in divisa dai suoi padroni. Così buggerò il vigile per un bel po’: Dick cammina, vigile segue, Dick passa davanti alla pasticceria, Dick tira dritto e ricomincia il giro, col vigile appresso.
Dick 2 era il cane di un garage a pagamento, una razza da caccia che comunque non era mai andato a caccia. Ora sul marciapiede, ora a tenere compagnia all’umano all’interno, ma mai negli orari della scuola media vicina: come se la campanella suonasse anche per lui, si era assunto il compito di salutarci sia all’entrata sia all’uscita da scuola. Dick amava i ragazzini e noi amavamo lui.
Pamir era il cane di Ferruccio, un signore che si spostava sempre in bicicletta. Non era di razza, era un botolotto bianco e rosso. Pamir accompagnava il suo padrone fino a un certo punto della strada e lo andava a riprendere la sera. Sulla via del ritorno si fermava in macelleria dall’amico Stefano, che era amico anche di Dick 1. Se Stefano diceva: mi spiace, oggi non ho niente da darti, Pamir riprendeva il suo cammino. Poteva starci che si vedesse Pamir senza Ferruccio ma se Ferruccio era senza Pamir scattava immediato l’interessamento.
Sono cani che appartenevano a una Milano che non c’è più ed erano un po’ il corrispettivo canino dei personaggi di Enzo Jannacci, la Veronica di via Canonica, il palo della banda dell’Ortica o il Drago del bar del Giambellino di Gaber.

Il cocker nero con disturbo bipolare
Questo è stato l’unico cane che mi abbia fatto finire al pronto soccorso. Era di un elettrauto e passava le sue giornate sul marciapiede di fronte all’officina. Ovviamente era un suo diritto farlo, ciò nondimeno questo lo esponeva a una serie reiterata di complimenti e di versetti di compiacimento da parte dei pedoni. Non altrettanto amichevoli i ciclisti, che dovevano schivarlo o erano costretti a scartamenti all’ultimo secondo quando decideva che era giunto il momento di alzarsi. Questa esposizione mediatica, contrariamente ai due Dick di cui sopra, non l’aveva reso un cane sempre ben disposto verso gli altri. Lui aveva delle giornate sì ma anche no. E io imparai a mie spese che non puoi correre d’impeto verso un cane dalla parte del muso e abbracciarlo come se non lo vedessi da vent’anni. Il fatto che due ore prima si fosse reso disponibile a soddisfare i tuoi desideri, non significava che potevi esternargli i tuoi moti d’affetto anche dopo. Cocker mi affettò il dito pollice. Ciò che però mi insinuò un’angoscia profonda fu l’idea che potessero ucciderlo per colpa mia. Ricordo una scena straziante, non per il sangue che colava dal dito, ma per quanto implorai tra le lacrime mia madre di non dire niente a quelli del pronto soccorso. Trascorsi un paio di notti con l’incubo del mio “amico” cocker trascinato in canile e in seguito giustiziato nella camera a gas e a nulla valevano le rassicurazioni. Mi tranquillizzai solo quando lo rividi, stavolta senza abbracciarlo, sano, salvo e con la solita faccia bellicosa. Sarebbe stato uno dei pochi Carnevale, la mia festa preferita, senza febbre o altre magagne infantili: me lo feci con una vistosa fasciatura.

Caffè, cogito ergo sum? Non ne sono tanto sicura

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Ci sono pelosi che fanno vacillare la superba certezza umana di essere l’unica forma vivente ad avere il dono della razionalità. Caffè era uno di questi, perché lui stesso era superbo: di una bellezza superba, di un incedere superbo e di una sfrontatezza superba. Era un gatto nero, da qui il poco originale Caffè. Anche questo era un animale “preso in prestito”. Lui riconosceva il rumore della macchina, anche dopo mesi, anche se era chiuso in casa, e arrivava di corsa, saltando steccati e miagolando come un matto. Caffè prendeva residenza considerando la nostra casa la sua dimora di vacanze, senza però mutare abitudini, come quelli che quando partono per le ferie si portano dietro mezza casa perché non riescono a concepire di cambiare prospettiva anche solo per una settimana. Così c’erano le vacanze invernali, coi ritmi invernali: dormire e mangiare. L’unica sua attività era cambiare il luogo in cui ronfare: sfrattava le statuine del presepe per andare a dormire nella capanna, fuori dalla capanna su sul divano, giù dal divano su sulla sedia a dondolo. Esercizi estenuanti intervallati dal tiro alle palline dell’albero di Natale. Era un gatto che amava gli addobbi di Natale. E mangiare, preferibilmente tonno con pane ammorbidito nel suo olio d’oliva. Non è che proprio glielo volevi dare tu, era lui che decideva, pena una martellante attività di striduli miagolii, che quello era il pasto che voleva. E poi c’era l’estate.. eh, l’estate… che magnifica stagione di assopimenti diurni al fresco e di notti di follia. Caffè se ne andava a far la vita verso le otto di sera e tornava all’alba e faceva quello che facciamo tutti dopo una notte brava: cercare il primo bar che apre per cappuccino e brioche. Niente brioche per lui: latte e pane, o meglio, pane con carne o pesce. Ma se noi non troviamo il bar aperto, stiamo lì e aspettiamo. Lui no, si metteva a fare un gran baccano ad ogni finestra, finché trovava quella giusta e allora infilava la zampa sotto la tapparella e sbatteva, sbatteva finché un essere umano iracondo, stanco di prenderlo a male parole, si alzava per aprirgli e servirgli la colazione. Non so quante albe ho fatto con il tanfo di pesce nelle narici, quante volte sono tornata a letto imprecando mentre quest’apoteosi di prepotenza felina, lucentezza di manto e lucidità di mente, conquistava a sua volta un luogo per riposare dalle sue mattane notturne. La prepotenza è l’arma dell’umano che difetta di intelligenza, per Caffè era l’esatto contrario.

Minou: guarita dalla claustrofobia, caduta nell’agorafobia
Se esistesse un Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali per i gatti, Minou ci sarebbe stata dentro in almeno un paio di capitoli. Era una gatta che amava la compagnia degli umani ma non sopportava la porta chiusa. Se capitava che qualcuno la chiudesse, dava di matto come un claustrofobico in un ascensore rotto. Minou non sopportava le chiusure neanche di notte, quando lei stava fuori. Ricordo i risvegli notturni con terrore, le armi rudimentali tipo manici di scopa finché non scoprimmo che non erano tentativi di intrusione ma era lei che saltava sulla maniglia e l’abbassava, producendo quel rumore tipico di uno che cerca di aprire una porta chiusa a chiave. La scoprimmo lì, con l’intero corpo in equilibrio precario sulla maniglia.
D’estate problemi non ce n’erano ma il discorso cambiava in inverno: non si può stare con la porta aperta a meno 3. Così le ponemmo un aut aut: o fuori o dentro. Il calore materiale e “spirituale” del focolare domestico e la sua prediletta sedia a dondolo ebbero la meglio. Minou guarì dalla claustrofobia ma cadde in una forma di agorafobia: l’unico modo per metterla fuori almeno dieci minuti era prenderla di peso e farla uscire.

Twist, il criceto numero 1
Twist fu il mio primo criceto. Me lo regalò la mia insegnante delle elementari (o delle medie? Ecco il momento di cui parlavo prima, quello che avevi dato per scontato di sapere se ne è andato via e non c’è modo che torni) che aveva inconsapevolmente commesso il più grande errore che si possa fare in fatto di criceti: mettere insieme un maschio e una femmina. Che fossero prolifici come tutti i roditori lo sapevo, ma solo recentemente ho saputo quanto prolifici: la gestazione dura solo una ventina di giorni, quindi una criceta può avere fino a venti gravidanze all’anno…
Era color miele e fece la conoscenza della famiglia mordendoci tutti. Non lo fece per cattiveria. I criceti sono carini, simpatici e affettuosi, siete voi che sbagliate se pensate che sappiano distinguere una carota dal vostro dito, quindi lasciate perdere di andare lì alla gabbia a fargli ciao ciao. Dopo sì, dopo che vi hanno trapassato il dito la prima volta, non lo fanno più. Twist vagava per casa, rosicchiava, bucava, si infilava nei posti più impensati. Quando pensavamo che non l’avremmo mai più trovato, lui saltava fuori da qualche angolo nascosto. Hanno un corpo estremamente flessibile. E con la ruota si è fatto il Tour de France. Ci passava delle ore, anche di notte. Capitava di svegliarsi e sentire questo trutrum continuo. Un giorno mio cugino scoprì la sua inclinazione per la meccanica: gli fermava la ruota infilando qualcosa tra i raggi, lui scendeva e girava dietro per vedere dove fosse il guasto, controllando da ogni parte. Poi risaliva e riprendeva a girare per constatare i risultati del suo lavoro da tuta blu. Twist mangiava tutto ciò che mangiano di norma i criceti ma quando si andava al mare il suo cibo preferito erano le alghe verdi.

Argo, il cane delle grandi marche
Io e la mia amica fummo ospitate ad Andora da un amico. Ci presentò la sua famiglia e Argo: «È un cane buonissimo, non preoccupatevi». Una frase che tutti i padroni di certe razze si sentono in dovere di pronunciare. Perché Argo era un dobermann, non tanto in forma come vogliono i canoni della razza (lo stomaco dovrebbe rientrare, lui invece ce l’aveva al contrario) ma pur sempre un dobermann. Ci avevano riservato una mansarda tutta per noi, eravamo al mare “a ufo”, avevamo 18 anni e quindi stavamo in quello stato di grazia in cui sembra che nulla ti possa fermare. Nulla tranne un dobermann. E così ecco il nostro primo rientro notturno: Argo, inaspettatamente, è piazzato dentro la mansarda, appena oltre la porta. Ci guardiamo: be’, ha detto che non fa niente… sì, ma questa è pur sempre casa sua, ci ha visto solo una volta stamattina, la tranquilla epa ne mitiga l’aspetto aggressivo ma è un dobermann. Scorrono immagini: razza selezionata dai nazisti, razza di attacco e difesa, e io che avevo visto anche quell’orribile film La pattuglia dei dobermann al servizio della legge. È che i dobermann, come i rottweiler, hanno un difetto: contrariamente agli altri cani non lasciano trasparire le intenzioni. Non ci resta che aspettare il ritorno dei padroni. Loro mezzi addormentati dal lavoro al ristorante, noi sulle scale, al di sopra delle nostre teste Argo che di andarsene dalla mansarda non ci pensa proprio. Ma no, vi avevamo detto che è un cane buono, è che per un po’ ha dormito con me in mansarda.
Io li capisco i padroni di questi cani, non vorrebbero che i pregiudizi ricadessero anche sui loro “cuccioloni”. Il giorno dopo a colazione troviamo Argo educatamente seduto a mangiare biscotti. Io e la mia amica ci guardiamo: ecco il punto debole su cui fare leva. Prendiamo nota di che genere siano, krumiri. Andiamo subito al supermercato e compriamo un saccone di questi frollini a buon mercato. La sera ce li prepariamo in posizione strategica per il rientro. Argo è lì, monta più o meno di guardia, e che problema c’è? Quando due umani armati di biscotti incontrano un cane armato “solo” di denti, quello coi denti è un cane conquistato. Falso: Argo non mostra il minimo interesse verso i nostri biscotti, sembra addirittura quasi indignato. Glielo raccontiamo ai padroni di casa, quelli ci guardano senza scomporsi: ma no, Argo non mangia tutti i krumiri, solo quelli della Bistefani. Grandi marche e sottoprodotti a parte, noi e Argo diventammo amici.

Il lupo della stazione Centrale
Era un gigantesco pastore tedesco proprietario col suo padrone di una delle bancarelle della stazione. Non ricordo se vendesse libri o borse, il padrone. Lui stava lungo e tirato in cima alle scale della metropolitana e se ne fregava beatamente della massa forsennata e vermiforme che si agitava in salita o in discesa. Se lo vedevi in tempo lo schivavi, se avevi la valigia a rotelle la sollevavi per non passargliela sopra, se non lo vedevi lo saltavi via, se non lo vedevi e avevi la valigia andavi a sbattere contro gli altri. Credo di averlo visto solo una volta sollevare di un quarto la testa per vedere che aria tirava. Sembrava come la poesia di Kipling: Se riesci a mantenere la calma mentre tutti intorno a te si agitano, tua è la Terra e tutto ciò che vi è in essa.
Ma se lo vedevi sotto la bancarella allora aveva deciso di montare il turno di lavoro: fare la guardia, e non ce n’era più per nessuno.

Ghibli, abbandonato perché mangiava troppo?

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Ghibli era il cane di mio cugino Emanuele e famiglia. Un simpaticissimo botolino intelligente, bello e affettuoso. Ma estremamente irascibile su alcuni punti: vietato avvicinarsi a meno di un metro dalla sua brandina; vietato avvicinarsi a meno di cinque metri dalla sua brandina quando stava rosicchiando l’osso. Ghibli non guardava in faccia nessuno in questi casi: i suoi padroni adulti, quelli piccoli e naturalmente me. Un potente ringhio e una paurosa sensazione di fiato caldo sulla caviglia ti avvertiva che avevi oltrepassato la zona sicura. Ghibli era un cagnolino di taglia piccola con un’eccessiva autostima e nessuna consapevolezza delle sue dimensioni. Se un cane non gli piaceva, che fosse un rottweiler, un boxer o qualche altro colosso non aveva importanza: doveva attaccare turilla e lo faceva con un tale tasso di aggressività che l’altro batteva in ritirata. Non abbiamo mai avuto il coraggio di dirglielo: Ghibli, non hai spaventato il mostro è che lui ti compatisce e ha preferito lasciar perdere per non aprirti in due. Io stessa l’ho visto provocare un husky gigante (non è una aggettivo, è la razza che prevede questa distinzione e Ghibli non si sarebbe accontentato di meno).
Ghibli è stato trovato in una giornata di vento (potevano chiamarlo Scirocco visto che era agosto, ma ogni amico umano sceglie il nome d’istinto), in mezzo a una strada di campagna delle Marche. Ghiblino aveva un’altra particolarità: una fame compulsiva. Avrebbe mangiato in continuazione e di tutto, carne, verdura, frutta, cereali, non aveva importanza. Non mangiava la banana perché gli si attaccava ai denti. Così una volta, in pausa pranzo, ci siamo ritrovati a contemplarlo chiedendoci quanto spazio di questo corpicino fosse occupato dallo stomaco. Ed è stato lì che, per la prima volta, dopo aver passato gli anni a dare i peggio epiteti a chi abbandona i cani, ci si è aperta una nuova ipotesi: e se l’avessero abbandonato perché mangiava troppo? Metti che fosse una coppia di pensionati minimi che hanno dovuto alzare bandiera bianca…

Igor über alles

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Un essere umano che ha un animale viene definito padrone. È una convenzione umana come molte altre, il bisogno di dare un nome a ogni cosa. In realtà sono più loro i nostri padroni o più semplicemente nessuno possiede nessuno, come nei rapporti tra persone; si sta insieme, ecco. Ma chiamiamoci padroni per convenzione. Spesso i padroni degli animali dicono: chi non ha avuto un cane/un gatto non può capire. Non c’è nessun sentimento negativo dietro questa frase, così stanno le cose: finché non hai un cane in casa non capirai. I sentimenti negativi forse ce li hanno gli altri che ti giudicano un po’ tocco. Faccio un esempio. Mi è capitato di sentire frasi del tipo: ti sbrighi che devo andare a lavorare? Dove vai, non vedi che c’è rosso (il semaforo)? Uno che non ha mai avuto un cane penserà che sei strano proprio, per me invece è del tutto normale sentire che una persona parla col cane. Il fatto è che un cane è capace di stare anche un’ora seduto ad ascoltarti e ti guarda come se tu fossi Einstein, per cui ti abitui a questa forma di interazione e non dai ordini ma spiegazioni. Naturalmente a loro non importa nulla, soprattutto se hai fretta. Comunque non sempre sono disposti ad ascoltarti per un’ora e non sempre ti guardano come se fossi Einstein, a volte li vedi che pensano che sei un deficiente ma riescono a mascherarlo bene. Peraltro spesso apprezzano molto che tu faccia il deficiente con loro, lo trovano divertente e tu ti senti libero, finalmente, di fare il buffone senza essere mal giudicato.
Credete che un cane non possa tenere il muso perché ce l’ha già di natura? Sì, be’, il muso gli resta sempre quello ma ti ignora platealmente, si mette a dormire girato dall’altra parte, si infila sotto un mobile o cambia stanza. Non sbatte la porta solo perché i cani detestano i rumori forti.
Il cane sente che tu stai arrivando minuti prima, il cane sa se sei in ritardo, se è in casa con qualcuno che guarda l’orologio per vedere se è il tuo orario di ritorno, lo guarderà anche lui. Non che sappia leggere le ore, almeno credo, ma lo fa.
C’è una cosa che fa ridere moltissimo i proprietari di cani e gatti: gli studi scientifici sul comportamento dell’animale domestico. Ogni tanto le strombazzano sui giornali, le scopertone, il padrone legge e commenta: Ma fammi capire, tu ti sei preso una laurea e hai speso soldi più o meno pubblici per dire ’ste ovvietà? Venivi da me che te le dicevo gratis.

Io ho avuto un cane. È molto difficile parlare di Igor (pronuncia Aigor, il nome veniva dal film Frankestein jr.) perché era il Mio cane, il mio primo e per ora unico cane. Ha condiviso con me un pezzo di strada di dodici anni. Igor era il suo nome ufficiale, quello che usavo per richiamare la sua attenzione e quello che ho iniziato a usare da quando non c’è più, come se il nome ufficiale segnasse una linea di demarcazione tra la presenza fisica e il ricordo. Finché è stato con me era anche Cem (contrazione di Ecce canem), Pino, Pinuccio, Pigorello, Branduccio e altri, tanto li capiva tutti. È difficile perché potrei scriverci un libro e invece devo farne una sintesi.
Come il più classico degli esordi narrativi di genitori orgogliosi, «non perché è mio figlio…», non perché era il mio cane ma era di un’intelligenza superiore. Mia zia era solita dire: mi fa paura. E giusto per chiarire, lui non faceva le cose perché era passato da qualche penoso addestramento con croccantini, non le faceva per compiacere il padrone, perché infatti le faceva solo se e quando ne aveva voglia.
Igor “ballava”, solo musica anni ’70/80 con una predilezione per Stayin’ alive dei Bee Gees. “Cantava”, cioè ululava, ok. I suoi cavalli di battaglia: Va’ pensiero di Verdi e A chi e Amo di Fausto Leali. Gli piacevano queste canzoni potenti in cui poteva esprimere tutta la sua estensione canina. Però sapeva anche canticchiare abbaiando in tono più sommesso, La via Gluck e Paese mio. E poi c’era il solo ascolto della radio: Hanno ucciso l’uomo ragno e Certe notti erano al primo posto nella sua playlist.

Igor era uno sportivo:001

nuotatore instancabile, centometrista da lancio della palla, intercettatore di palle da tennis andate a finire nei posti più nascosti, saltatore di balle di fieno. Palle da tennis: non ho mai capito perché ma le teneva di conto per un tot, poi in un giorno qualunque e senza motivo, si applicava con metodo a sbucciarle e indi a spaccarle a metà.

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Igor e i colori: si dice che i cani non vedono i colori, non come noi almeno. Può essere, ma resta il fatto che, comunque lo vedesse, detestava il giallo. Mi ha fatto pagare cara la mia scelta di comprargli un collare giallo, convinta che 1) tanto non vedesse la differenza; 2) è uno dei miei colori preferiti, quindi doveva piacere anche a lui. È passato dal mettere le orecchie a ombrello come segno di umiliazione al fare l’offeso: «Ti sembra che uno come me possa andare in giro con sto colore da cretino, che ne va della mia dignità da mezzo pastore tedesco? Anzi, ti ricordo che mi hanno definito lupo italiano», fino a scappare e nascondersi, finché non mi sono decisa a comprargli un collare marrone con le borchie. Ho capito di non aver fallito quando si è retto fiero dopo averlo indossato, senza prima risparmiarmi uno sguardo severo mentre lo tiravo fuori dal sacchetto.

Igor conosceva tutti i nomi dei suoi giocattoli: il pomodoro, la tartaruga, la ranocchia, la palla. Le tartarughe, quelle vere, erano la sua passione. Una sera restò, esattamente come me, assolutamente perplesso al cospetto di un rospo di dimensioni eccezionali. Era affascinato dai cavalli di Trenno, non che a me non piacessero, anzi, ma mi toccava restare lì insieme a lui a guardarli e quando faceva freddo non era il massimo della vita. Detestava il Commissario Rex, i miei apprezzamenti sulla bellezza e le capacità attoriali di questo cane lo disgustavano tanto da ritirarsi nell’altra stanza. Apriva le porte sia dall’interno che dall’esterno, capiva se le scarpe che stavo mettendo erano quelle della passeggiata con lui o no. C’erano momenti della giornata che sapeva che non erano i “suoi”, ma quelli forse sì o forse no erano una tragedia. Se uscivo senza di lui la parola d’ordine era: «Tu qui», e allora tornava sul suo lettino con la faccia di chi aveva sulle spalle tutta la tristezza del mondo. Igor non sopportava la prima uscita mattutina, specie d’inverno, e mi toccava attaccargli il guinzaglio e tirarlo giù dal divano. Era uguale a me, praticamente. L’edicolante mi conosceva e quasi ogni mattina mi diceva: madonna, che sonno che ha il suo cane! L’edicolante aveva Sheila, una femmina di lupo che non sopportava nessun cane, quindi Igor se ne stava a distanza di sicurezza.
Ma c’è una cosa che più di ogni altra me l’ha reso caro: il suo lato on the road. È stato il mio miglior compagno di viaggi esplorativi: campi, argini, torrenti, sentieri, parchi.
C’era anche un reciproco tacito scambio di protezione: se c’era qualche essere umano di dubbio aspetto mi si affiancava guardandolo in cagnesco, se c’era Axel il rottweiler mi stava dietro. Se c’era da difenderci dagli esponenti peggiori delle nostre rispettive specie, diventavamo una macchina da guerra.
Igor aveva il suo gruppo di amici e i suoi amori impossibili: Leda,

Leda

Ombra, Sissy, Sissy 2, Kim e altri ma ha passato la maggior parte del tempo col suo miglior amico/nemico Black

Blackie

Un cane ossessionato dai sassi, te li faceva cadere sui piedi, pesanti e tutti sbausciati perché gli avevano rovinato i denti. Black era stato abbandonato e forse è per questo che ha passato circa un anno a scappare, forse cercava di ritrovare i suoi vecchi padroni. Così succedeva spesso, la sera: Sergio, l’amico umano, vagante con un guinzaglio vuoto in mano, e partiva la task force per il ritrovamento.
Chi ha il cane sa che non ci sono stagioni, troppo freddo, troppo caldo, pigrizie, malattie: comunque vadano le cose, tu devi portarlo fuori. Così ci si organizzava, acqua e Autan d’estate, superabbigliamento d’inverno. Scarpe antiscivolo, antiacqua, antineve, gli ombrelli ne puoi cambiare anche due o tre a stagione, perché al cane non gliene frega niente se stai cercando di centrare lo spazio del cancello con l’ombrello aperto e nemmeno gli importa delle decine di guanti che hai impigliato nel guinzaglio. Non gli interessa neanche quando il dito ti è rimasto agganciato al moschettone e urli di dolore, al massimo si gira con la faccia che dice: c… hai da corrermi dietro così? Sergio, io e gli altri componenti eravamo quindi questa banda di saccagnati da sassi, bastoni strusciati sulle gambe, guinzagli impigliati nelle carni, mangiati vivi dalle zanzare, con guanti bucati, ombrelli storti e abbigliamento very casual, nel senso che ormai era casuale il suo tenersi insieme. Ma ci divertivamo e ce la contavamo su, noi e i nostri cani.
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Questa foto gliel’ho fatta in una delle nostre tante scorribande. Sergio ne ha una gigantografia in salotto, non so quanto tempo ha passato a guardarla dopo che anche Black se ne è andato (mi ricordo che mi citofonò, io scesi e lui aveva gli occhi pieni di lacrime) ma ogni volta che lo vedo me ne parla… «il Black e l’Igor insieme».

Chi ha vissuto con un cane potrà dire che è come perdere una persona. Non gliene vogliate: l’amore è diverso ma il concetto di assenza è il medesimo. Ci sono gesti, pensieri, fili logici che sono indissolubilmente legati alle persone che amiamo e che continuiamo a fare anche quando non ci sono più. Smettiamo solo dopo che più e più volte ritiriamo la mano da un oggetto, chiudiamo la bocca su una cosa che stavamo per dire perché capiamo che ormai è inutile. L’automatismo di prima diventa un altro automatismo. Con un cane è la stessa cosa. Io ho passato giorni, forse mesi ad aspettarmi un chiasso infernale ogni volta che mettevo l’orologio, mi sono anche trovata ad appoggiarmi al mobile come sostegno perché l’orologio era un segnale di uscita e Igor lo salutava abbaiando e saltandomi addosso. Un cane è questa cosa qui, che entra nei tuoi gesti, nel tuo tempo, nel tuo quotidiano e quando non c’è più senti il vuoto, l’assenza, un pezzo di vita che se n’è andato.

I pesci: Serafino 1, Serafino 2, Pisù e altri
Eh sì, altri ancora, perché purtroppo i pesci non hanno vita lunga. Il perché non ho più animali dopo averne avuti e amati tanti è uno solo: un cane non potrebbe più disporre delle sue quattro ore di moto al giorno come il mio impareggiabile Igor e tutti gli altri sarebbero animali da gabbia, gatti compresi, e io non sopporto di vedere gli animali ingabbiati. Così, se tante cose mi sono state rosicchiate, è perché criceti e coniglio vagavano per casa buona parte della giornata. E così è stato per Pisù. Era egoistico pensare di detenere fisicamente a mio uso e consumo un animale nato per stare in distese d’acqua. Ma d’altra parte neanche puoi mettere il guinzaglietto a un pesce rosso. La soluzione è una via di mezzo: fargli sgranchire le pinne almeno due volte a settimana nella vasca da bagno. C’è di che far inorridire chi compra i superattrezzati acquari, perché in realtà è pericoloso far subire a un pesce sbalzi di temperatura. Ma Pisù era una roccia e nella vasca da bagno si divertiva come un matto. A fargli la guardia restava Igor, muso chino verso il basso, orecchie dritte, sembrava uno che segue una partita di tennis, perplesso davanti a quel moto continuo. A volte si girava verso di me e mi abbaiava con rimprovero, come a dire: perché lo sottoponi a questa tortura? Era una questione di punti di vista, perché per lui la vasca da bagno era un’offesa indelebile.

Pilù e Gigio, come Tom e Jerry 
Pilù è stato il mio secondo criceto e in qualche modo l’inizio dell’uscita dal lutto per Igor. Per circa due anni non ho più guardato né accarezzato cani, ne ero incapace. Poi ho visto questa pallina di pelo grigio e bianco e ho agito d’impulso, sono entrata e l’ho comprato, con tutti gli annessi e connessi: gabbia, ruota, casetta, paglia. Pilù, contrariamente a Twist, non ha mai contemplato l’utilizzo della ruota. Anzi, quando la facevo girare mi guardava quasi come a dire: ti credi che sia un deficiente a passare le mie giornate a correre in tondo? Non so se esistono ancora criceti in natura, in quale parte del mondo, come vivono e solo di recente ho scoperto che sono originari del deserto della Siria. Ma osservando le loro particolarità e abitudini, posso affermare che: i criceti sono roditori provvisti di denti incisivi lunghi e affilati, di tasche mascellari e tendenzialmente notturni. Pilù non aveva bisogno di fare provviste ma lo faceva. Si riempiva le tasche fino a diventare mostruoso e così acconcio passava un certo numero di minuti a cercare di entrare nella sua casina. Provava e riprovava, mettendosi di traverso, schiacciandosi la faccia finché non riusciva a far passare quel muso gonfio e deforme. Un’operazione che svolgeva per due volte: provviste di cibo e quelle di carta o paglia per l’arredo della sua casina. Sì, perché se c’era una cosa che lo faceva montare su tutte le furie era disfargli l’arredamento per pulirla. Una mattina di intenso lavoro, insomma. Poi dormiva e di notte mangiava, così poteva capitare di svegliarsi nel cuore della notte e sentir lavorio di incisivi e zampette, come il piccolo Mumin che si sveglia nella stagione del letargo.
Pilù, tra le altre cose, mi segò di netto il filo della stampante. L’aria si intrise di odore acido di bachelite bruciata ma lui non si fece niente. Interpellai un mio cugino elettricista che mi spiegò (professionalmente, senza ridere) che se dai un taglio netto e contemporaneo a tutti i fili è facile che non ti succeda niente.
Ma c’è un episodio che più di ogni altro mi ha regalato un tale eccesso di ilarità che quando ci penso mi viene da ridere ancora oggi. Il co-protagonista con Pilù è Gigio, gatto grigio simil Certosino. Gigio non mi ha mai dato un granché di confidenza, gli faceva comodo mangiare, trovare un po’ di affetto ma ha sempre voluto mantenere una certa distanza. D’estate Gigio partiva di sera e andava sempre in una direzione: verso il centro del paese, camminava sul marciapiede senza guardarsi intorno e senza manifestare incertezza, come uno che sa dove deve andare, al bar a fare quattro chiacchiere con gli amici. Lui sapeva, a me invece è rimasta solo la curiosità. Gigio ha sempre attentato ai miei animali: quando arrivavo col pesce nella piccola vasca da trasporto e lo appoggiavo a terra per cercare le chiavi, lui si materializzava, girava torno torno il recipiente e poi iniziava a lavorare di zampa sul coperchio. Quando il pesce era al sicuro nella vasca più grande, lo scoprivo lì, seduto davanti al mobile a fissarlo con una miriade di strategie di caccia che trasparivano dai suoi occhi verdi. E poi arrivò Pilù, che per lui in confronto al pesce doveva essere come per noi il caviale russo. E una sera d’inverno con la coda dell’occhio colsi un’immagine da Nightmare. Gigio stava davanti alla porta di casa, trasfigurato, con gli occhi fissi e torvi, la bocca abbastanza aperta da lasciar vedere i denti che battevano regolari come se prefigurasse di gustarsi qualcosa. Il qualcosa era il mio Pilù/Jerry che correva libero in casa. E fu qui che la scena toccò i più alti livelli di comicità. Il criceto sembrava conscio di essere protetto da una porta a vetri antisfondamento e a quadrupla mandata e correva avanti e indietro nella stessa direzione, in palese provocazione. Gigio/Tom invece non capiva la dinamica dell’edificio: pensava che girare l’angolo nella direzione in cui correva Jerry glielo facesse trovare in dirittura di atterraggio nelle sue fauci. Non so quanto corsero questi animali, uno all’interno e l’altro all’esterno, il piccoletto determinato a far dar di matto il grosso, il grosso in preda a una crisi isterica.

Icio, il Dulbecco dei conigli

Icio
L’origine di Icio non è bella cosa da raccontare, perché va contro le mie convinzioni: usare gli animali nelle fiere. Ma così fu: lo vinsi a una fiera a Fontanellato, in provincia di Parma. Degli emiliani prese solo una certa ricercatezza gastronomica, che andrò a spiegare. Per il resto, non era affabile come loro e nemmeno dotato di ironia, anzi, tendeva a prendersi un po’ troppo sul serio. Era un coniglio nano. Rischiò di cessare di esistere ancor prima di avere un nome ufficiale: sulla strada del ritorno fece un balzo tale che quasi uscì dal finestrino mezzo aperto della macchina. Lo imputai a irruenza giovanile, in realtà era il prodromo di un brut caraterasch, come si dice a Milano.
Chi ha avuto l’infanzia segnata da Bugs Bunny cresce nella ferma convinzione che ai conigli piacciano le carote. E così fu la prima cosa che gli diedi. Per un po’ le mangiò, poi manifestò la sua intolleranza: non alimentare, ma una profonda intolleranza verso gli umani e la loro sfacciataggine nel collezionare dogmi. Prese stizzoso le carote, le buttò nell’angolo adibito a bagno e ce la fece sopra, finendo con un battito di zampe posteriori (quando i conigli hanno paura o sono arrabbiati, battono contemporaneamente le zampe dietro, quelle più lunghe, facendo un gran baccano. C’è da chiedersi come facciano a non farsi male…). Non fu l’unico suo gesto offensivo nei mie confronti: si lasciava accarezzare ma poi, ogni volta, procedeva a un’accurata toeletta, come se il mio odore gli facesse ribrezzo. Probabilmente anche i conigli rispondono alla legge di sopravvivenza di altri animali selvatici, come i cerbiatti, che abbandonano i cuccioli toccati da un uomo.
Ma tornando ai suoi gusti alimentari, archiviata l’idea di dargli carote, mi rivolsi unicamente al cibo per conigli confezionato, tranne che per qualche parte di fresco per cui recuperai nella memoria l’esperimento che ti fanno fare alle elementari: mettere le lenticchie o i fagioli sotto uno strato di cotone sempre bagnato. Dopo un po’ crescono delle piantine. E queste Icio le apprezzò. Ma col cibo confezionato iniziò la più assurda delle storie. Prima voleva solo una marca e poi no, questa non la mangio più e voglio l’altra, epperò dopo questa altra voglio tornare a quella di prima. Il fatto è che queste marche non erano reperibili nella stessa città e quando si era in un posto di solito lui voleva la confezione che vendevano in quell’altro.
Sembrerebbe impensabile che un coniglio, per di più nano, possa mettere in piedi tutti questi casini, ma così stavano le cose. E poi c’era il fatto che sì, insomma, io gli volevo bene, eh, per carità, ma bisogna anche essere onesti: Icio non brillava di intelligenza (cioè, uno che azzanna un cactus non è che è proprio una volpe, dirò però a sua discolpa che aveva imparato l’ordine “a casa” quando era l’ora di tornare in gabbietta). Anzi, visto che è stato l’ultimo di tutti i miei animali, posso dire che era anche il più stupidotto. E così lo chiamavo Dulbecco, e pensare che lui si girava anche!
Se per Igor il massimo della minaccia era «ti abbandono in tangenziale», per Icio era «ti metto al forno con le patate». Ma caratteraccio o non, dulbeccaggine o non, anche lui ha lasciato il suo segno. Non ho mai più mangiato carne di coniglio.

Il gatto Camillo, quando gli animali ci sono superiori

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Camillo non è il nome che gli ho dato io ma i suoi padroni. Io però non l’ho mai chiamato così, lo chiamavo gatto e basta o miscio. Però adesso lo chiamerò Camillo, per dargli una sua identità. Non posso fare una classifica dei gatti che ho conosciuto ma sotto un certo punto di vista lui è stato il più meraviglioso. Sempre ben disposto a carezze, affettuosità (le cercava, le ricambiava), a condividere lunghi ciondolamenti invernali sotto la coperta e quelli estivi sulla sdraio. Mai una reazione felina, mai una volta che si sia arrabbiato nemmeno quando eccedevo nel gioco. Gatto Camillo non era un appassionato di cibo per gatti e la sua cosa preferita in assoluto era la frittata (mi rendo conto che queste “memorie” si stanno trasformando in un Master Chef per animali…), semplice, con patate, spinaci, andava bene lo stesso, e naturalmente cipolle. Sentiva l’odore da lontano e arrivava miagolando all’impazzata. A volte partivo da Milano con un pezzo che gli avevo conservato in freezer e glielo riscaldavo sul calorifero. Miagolare fino allo sfinimento era una sua caratteristica. Camillo infatti era ciò che per noi è “fare lo scemo per non pagare le tasse”. Vederlo con questi occhi un poco socchiusi, l’atteggiamento di uno che non riesce ad arrivare esattamente al nocciolo del problema, induceva a ritenerlo abbastanza stupido. Ma Camillo stupido non lo era proprio. Aveva capito che se, nonostante le urla, lui continuava a miagolare con lo stesso tono, lo si accontentava pur di non sentirlo più, che se faceva la faccia da finto tonto forse avrebbero dato la colpa a qualcun altro per la pattumiera sparsa per terra. Persino i poveri uccellini erano tratti in inganno da un gatto acciambellato con la testa girata dall’altra parte, ma i poveri uccellini non vedevano il lavorio delle orecchie-radar e nemmeno gli occhi svegli sotto le palpebre semichiuse.
Camillo amava l’uomo e questa è stata la sua rovina. Prima è stato allontanato da un ospizio perché il suo desiderio di stare con gli anziani era eccessivo. Poi, questa sua incapacità di distinguere tra persone ed escrementi camuffati da esseri umani gli è stata fatale. Camillo è stato ucciso da una fucilata sparata da un essere talmente spregevole che è lecito chiedersi perché mai dovremmo ritenerci superiori.
Camillo mi ha fatto fare un sacco di risate e ha riempito il vuoto degli altri animali. Che tu possa essere diventato il gatto delle streghe, io e te sappiamo cosa voglio dire.

Rusty

Anche Rusty non c’è più e sono tante altre le cose cambiate da quando ho scritto questo capitolo. Ma voglio lasciarlo così come lo scrissi, solo ricordando anche lui con il suo nome e una foto.

Tutti questi animali non ci sono più ed è quindi per scaramanzia che non dico il nome dell’unico rimasto ad accordarmi il suo affetto. È un mastodontico pastore tedesco di straordinaria bellezza, molto simile al Rex dei primi telefilm austriaci. Sta a guardarmi per tutto il tempo che passo trafficando in giardino, piangendo e dando zampate al cancello per aprirlo. Sa del rito della pattumiera portata fuori e accompagnata sempre dai biscotti, anche perché se mi dimentico di associare le due cose me lo ricorda abbaiando o colpevolizzandomi con lunghi sguardi muti. Sa che i biscotti arriveranno comunque, anche quando non è giorno di pattumiera, così come il formaggio o altre cose a lui gradite. Le volte in cui i nostri cancelli si aprono in contemporanea è grande festa per entrambi: ci abbracciamo come due vecchi amici, giochiamo, stiamo insieme un po’. Non ha coscienza della sua stazza e ignora ciò che gli dico da sempre: falla dove vuoi ma non sull’erica (il mio piccolo monumento piantato in onore del Regno Unito e delle sue brughiere). A volte non facciamo proprio niente: lui non chiede, non abbaia, non guaisce, io non taglio erba, non pulisco, non giro col sacchetto dei biscotti. Ci guardiamo e basta.

E gli occhi, sì, son proprio gli occhi

Non sapremo mai cosa pensano mentre ci guardano ma io so delle volte in cui pensavo a pensieri non belli e guardavo altrove, senza vedere niente e quando mi giravo mi trovavo davanti questi occhi, nocciola chiaro, marrone scuro, verde smeraldo, che mi guardavano diversamente, quasi preoccupati.

Ho solo altri due esempi che fanno parte dei giorni recenti. Il traffico crescente, le crescenti schifezze umane hanno ridotto questi animali liberi ma non randagi. Chi li ha li protegge di più, ed è giusto che sia così. Non ci sarà più un Dick, un Pamir o il gatto che viene da te come in un villaggio turistico. C’è da chiedersi però se ci sarà ancora, un giorno, un bambino che una volta adulto scriverà di una moltitudine di animali che hanno popolato la sua vita.

Il cane compassionevole e quello asociale

Questi cani li ho visti per mesi guardandoli solo con gli occhi che non vedono. Sono riuscita a vederli veramente solo quando non sono passata via, così, distrattamente come facciamo sempre nelle strade che percorriamo solo per dovere. Ho visto in loro quelle inclinazioni che quasi tagliano di netto in due l’umanità.

Davanti all’Esselunga di Amendola c’è un chiosco di fiori. Uno dei titolari è un cagnetto, uno di quelli con baffi e barbetta a pelo duro. Vecchio e acciaccato. Accanto al chiosco, un ragazzo straniero presidia una bancarella di cianfrusaglie. In un giorno bigio di pioggia li vedo tutte e due seduti sul gradino del supermercato, il ragazzo imbacuccato appoggiato al muro, il cane appoggiato al ragazzo. Qualche giorno dopo, lo stesso gradino è occupato da un giovane ancora più derelitto, senza nemmeno la bancarella di conforto: il cane è con lui, ancora una volta ha lasciato il suo posto non comodissimo ma comunque abitato dai suoi amici umani per far compagnia ad altri, come se avesse capito che erano quelli ad averne più bisogno.

Il giardino con l’area per i cani è sempre popolato, più a certe ore che altre, ma è col sole che si riempie delle coppie a sei zampe. Se la contano su tutti, chi vociando chi abbaiando e ciascuna delle due razze ha i suoi esponenti più caciaroni. Ma il cagnetto con qualche gene di pinscher non sta mai con gli altri. Occupa l’unico tratto erboso libero e dà le spalle ai suoi simili e agli umani. Lo sguardo fisso in una direzione, dentro il cortile di una casa, forse la sua? Forse depresso, forse d’animo solitario, forse insofferente a quell’eccesso di vitalità che gli si svolge intorno.

I miei viaggi sono spesso stati una corsa dietro ad animali liberi. Mi riesce difficile spiegare che cosa rende un desiderio necessità. Credo lo possa capire chi ha desiderato la stessa cosa: vedere animali senza recinti e senza gabbie, dentro a ciò che appartiene loro. Forse perché inconsciamente vorremmo essere così anche noi. È molto difficile fotografare questi animali se non si è del mestiere, tutta la mia pazienza raramente è stata ripagata, ma in fondo non ho bisogno di una foto per ricordarmi l’emozione provata. Se penso a un posto, mi viene in mente anche il suo abitante che si è concesso un solo istante alla mia vista, quasi a volermi fare un regalo impalpabile ma indelebile. I miei album sono pieni di foto anche di animali più consueti, gatti, cani, mucche, pecore, cavalli, asini, volatili e quelli non tanto volatili assortiti. Li ho fotografati perché facevano parte del posto, facevano parte del viaggio, erano anche loro i protagonisti di quel momento.

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