1/Dai graffiti degli uomini a quelli del cielo

Due anni di latitanza da Genova sono troppi. Genova chiama, io parto.
Le navi scaricano gente per un giorno o per sempre, si vede dalle valigie che hanno o non hanno. I treni sputano fuori orde di smartphonati già col navigatore acceso. Da su in cima Cristoforo Colombo guarda giù: eh, ciao mappe e caravelle. Più turisti del solito e io mi ingelosisco. La prendo come ho fatto quasi sempre: io vado, tanto non mi perdo, neanche dove lei vive di vita vera.

Quartiere Certosa, la strada dei graffiti, il navigatore l’ho già messo via perché quando attacca con “vai verso nord” mi innervosisce, ti sembra che abbia in mano una bussola? È evidente che con quello della statua ho in comune solo il cognome. C’è un ragazzotto che dall’aspetto sembra titolato a sapere dove sono i graffiti. “C##zo ne so”. Non ce l’ha con me, è la chiusura di un discorso più ampio e cordiale, fatto mentre il cane lo strattonava, lui dietro al cane, io dietro a entrambi, ma il risultato è che lui non lo sa. Chiedo a una tabaccaia che sulla soglia fa pubblicità non occulta ai suoi prodotti: non lo so, ah, aspetta, vai di là. La questione è uguale per tutte le città: c’è sempre un pirla di turista che non si accontenta del Duomo, nossignore, lui deve venirti a chiedere di cose che tu residente ignori. Comunque poi li trovo, compreso quello di Paolo Villaggio. Non sono proprio tutti un granché ma a me le pareti colorate nelle città piacciono sempre.

E questi invece mi piacciono davvero molto.

Mi siedo in piazza a guardarli e a lasciarmi imbelinare dai belin vociati.
Il pomeriggio è solo mare. Uno è calcolato apposta per vedere il sole tramontare dalla passeggiata di Nervi. Resto appoggiata alla ringhiera finché non sparisce, canticchiando Vasco Rossi: «Seduto a guardare mentre il sole va giù ascoltando qualcosa che non sai neanche tu… Incantato a seguire quei riflessi che il sole non lascia morire. E ascolti le immagini dentro di te…».

Fino all’ultimo colore

«Sai che ognuno c’ha il suo mare dentro al cuore, sì…».

Il tramonto a guardare il sole che va giù, le ore di sole alto a guardare gli scogli sperando che il mare si agiti, a inalare il profumo di piante che non so cosa sono ma che a Nervi sono sempre lì, abbarbicate e respiranti, ogni loro respiro un effluvio.

Mi siedo, lo guardo, e capisco quello che avevo già capito, che i mari sono belli ma il mar Ligure è il mio mare.

2/Mare, cibo, umani

Questa volta è toccato a Pegli vedere il triste figuro appena arrivato che col cuore in subbuglio e le braghe arrotolate saggia la temperatura dell’acqua e la consistenza del terreno, quanta sabbia, quanti sassi. Il giorno dopo sono già più organizzata. E purtroppo anche i miei pensieri si sono organizzati in uno schema più razionale. Perché sì, poter entrare almeno fino alle ginocchia nel mare e prendere il sole è bello. Il problema è che entri nel mare per cercare sollievo dal caldo, ma è ottobre e quindi no, non è normale. Non sono normali le sere a Genova senza il golf. Non è normale, conferma la signora del bar.

Deve esserci stata una mareggiata, grovigli di rami dilavati giacciono sulla spiaggia. Rami contorti che trattengono chili di plastica. Che cosa ti abbiamo fatto? Vorrei poterli liberare e chiedere scusa, ma mentre li guardo mi sembra che dicano: chiedete scusa a voi stessi, perché noi saremo sempre qui, voi, mah…
Mi colpisce un blister come mi avevano colpito delle pile abbandonate in montagna. Cose piccole che stanno in tasca, e mi è impossibile capire perché qualcuno della mia stessa specie abbia un cervello pieno di buchi.

Ma ciao! Resto perplessa: ma non mi dire che mi hai riconosciuto dopo due anni! Ma certo! Piazzetta San Carlo, ristorante dei cinesi che fanno da mangiare esattamente come i liguri perché, ci aveva tenuto a dirlo con l’orata: mio marito ha imparato in un ristorante genovese. Vado lì perché mi piace tutto, le alici marinate, le trofie al pesto, le cozze e i frequentatori che come un fritto sono un misto di lingue e stili. E poi non voglio più rischiare di dover ripiegare sull’Old Wild West.

Arrivano due. Lui sta parlando dei milioni di anni del mesozoico, lei risponde: quindi noi con i nostri 2 mila anni siamo una scorengia (sic). Ah, ok, penso, quindi Gesù è morto per qualcuno che ancora non esisteva e solo dopo suo padre gli ha fatto un parterre di idioti. Se poi scopriamo che le sue parole non sono state esattamente Mio Dio, perché mi hai abbandonato? dovremo accettare la verità.

Pensavo che i terrapiattisti fossero dei semianalfabeti che si erano creati la loro zona di conforto fisica e virtuale: chiusi in casa a chattare solo con chi la pensa come loro e alimentandosi vicendevolmente di segnali e simboli. Ogni numero letto alla rovescia o sommato e moltiplicato per X un orgasmo. E invece ecco lì accanto a me, a mangiare cibo vero, a parlare in buon italiano e a sciorinare dati con una sicurezza da Piero Angela, un essere umano con un cranio in mezzo alle orecchie. Vuole convincere quella dei 2 mila anni che la terra è piatta. Su tutte riporto due prove inconfutabili: il logo dell’Onu, eh, come mai, sul logo la terra è disegnata piatta? E poi come te lo spieghi che non c’è neanche una foto con lo smartphone della terra rotonda ma solo quelle della Nasa? Cerco di distrarmi dal disagio guardandomi intorno, ma al tavolo di fronte c’è uno straniero imbranato che sta facendo scempio degli spaghetti ai frutti di mare: taglia tutto col coltello, spaghetti, gamberetti, finanche le cozze e non ha capito a cosa serve il piatto vuoto che gli hanno messo davanti, e così il suo piatto è un pastone di cibo e scarti triturati. Dal disagio al disgusto. Non ce la posso fare. Alzo lo sguardo ai palazzi secenteschi e alla Madonnina che pietosa ci guarda. Come abbiamo fatto a finire così? chiedo, generalmente, alle vestigia degli antichi padri.

3/Cesare Pavese aveva ragione

«Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.»

«Posso saltare? Lo fanno anche gli altri bambini, posso saltare?» La risposta è un grugnito perché la mamma sta ritoccando le foto che deve assolutamente rendere pubbliche mentre suo figlio sta rischiando di rompersi una gamba. Sento che quel bambino ha già qualcosa di rotto perché una madre, un padre che non ti guardano, non ti rispondono, e proprio mentre tu stai misurando te stesso, ti fa sentire solo, di valere meno di un telefono.

Inverti i fattori, il risultato non cambia. Giù sulla scogliera un pastore tedesco di incantevole bellezza cammina sui sassi, ogni tanto li sposta qui e là, li fa saltare in aria e poi guarda il padrone. Ma quello gli volta le spalle, sta col muso appiccicato allo smartphone. Un bambino solo, un cane solo, esseri vivi e veri in uno spazio vivo e due cretini persi in un mondo artificiale.

Sulla rotta di Ulisse

I pensieri schizzano come palline in un flipper toccando ora questa ora quella meta: Irlanda, Marsiglia, Lisbona. Troppo cara, troppo calda, troppo questo o quello. Le partenze sono intelligenti solo quando niente dentro ti trattiene. Il flipper fa Game over su Gaeta, anche perché c’è la possibilità di rivedere vecchi e vecchissimi amici. Riguardarsi in faccia dopo anni non ha prezzo. E così Gaeta sia, là dove approdò anche Ulisse.

L’impatto non è positivo. La spiaggia più bella di Gaeta, Serapo, è totalmente occupata da spiagge private. Impedire a una milanese anche solo di appoggiare lo zaino per entrare nel mare che sogna da un anno può finire che quella ti impartisce una lezione sul diritto del mare, oppure che cammini nell’acqua con le braghe tirate su imprecando come un camallo. Ma provvidenzialmente arriva la notizia di una spiaggia libera. Se vuoi prendi l’attrezzatura, se no te ne stai lì libero. E quindi se andate a Serapo, andate al Cicas, perché il mare è e deve restare di tutti.

Il giorno dopo è dedicato a capire come fare ad andare dove si deve andare. Con sconcerto scopriamo che le paline dell’autobus esistono ma non recano né la destinazione né gli orari. Quelli della Cotral almeno, perché le fermate dell’altra compagnia non hanno neanche le paline. Il sito Cotral dice di inserire il numero della fermata per sapere quando arriva il bus ma la fermata non ha numero. Allora inserisci la via dove sei o una limitrofa, e ti dice che è inesistente. Il camallo ricomincia a inanellare insulti sempre più complessi. Poi però ci si riesce, soprattutto grazie ai conducenti a cui tocca fare anche da servizio informazioni, che però sono gentili, quelli di Milano si sarebbero già attrezzati con una carabina.

Il secondo giorno il caldo è scemato, il mare si è infuriato, l’animo si è chetato. Mi sono fatta una ragione delle paline mute, mi hanno lanciato spaghetti con le vongole, mi hanno dato una spiaggia libera a due passi da casa e tutto appare più limpido, come il golfo di Gaeta dopo che la calura è stata spazzata via.

Per la gita in barca alla Grotta del Turco, Montagna spaccata (la chiesa “incastrata” tra la fenditura è intitolata a San Filippo Neri) e Pozzo del diavolo siamo alla mercé del volere di Poseidone, che ci farà attendere fin quasi agli ultimi giorni. Due ore di bellezza, si vede anche Ischia e, nelle giornate particolarmente limpide, il Vesuvio.

Intanto si prendono schiaffoni dal mare (forse è per questo che hanno una pasta che si chiama schiaffoni), si va a Formia, a Gaeta medievale, e proprio qui si viene invitate a cena, che ti conquisti solo dopo un’infinita sequenza di scale, che girano a destra e a manca tra vecchie mura che si aprono sul panorama del mare o su chiese ed edifici, alcuni rimessi a nuovo, altri con il fascino del fatiscente.

«Posso abbracciarvi?». Una frase che una volta neanche pronunciavi e che ora porta fuori il segno che ci ha lasciato dentro la pandemia. «Quanti anni sono che non ci vediamo?» «Quattro anni a settembre». Ed eccoli lì, Carlo e Giuliana, che li posso abbracciare veramente.
Andiamo nel delizioso borgo di Sperlonga, alla villa di Tiberio,

poi su fino a Itri, passando davanti al monte a cui mi ero già affezionata dal treno Roma-Formia perché così brullo mi ha mosso a tenerezza, e giù a Formia e ritorno.

Ritrovo in Giuliana la solita grazia e in Carlo la solita capacità di trasmettere allegria, che raggiunge l’apice quando si fissa su un obiettivo, tipo la ricerca di espadrillas e panama. Non tutte le cose possono stare dentro a pochi caratteri, la gioia di questa giornata è una di quelle.

Nascosta, tanto che se non te lo dicono non la vedi, c’è via Indipendenza, 1,5 chilometri di negozietti e viuzze in cui si apre una piazzetta, intitolata alla scrittrice Goliarda Sapienza e dedicata alla poesia.

La proprietaria di un bar ci legge con pathos alcune poesie scritte da un novantenne gaetano, ci racconta di qualche personaggio sopra le righe che popola il suo locale, che il giovedì diventa un caffè letterario. Tra tanta poesia non manca qualche burlonata.

Lasciare il mare è sempre una ferita, quante cicatrici dobbiamo avere dentro noi non costieri. E Roma sembra un po’ averlo capito, con le sue strade grandi, tutta quella storia che spunta ovunque, persino al limitare della ferrovia, là dove le altre città raramente si presentano con il vestito della festa, i suoi pini che «la vita non li spezza». E anche con la sua crostata di marmellata di visciole che non sapevo cosa fossero.

Solo un paio d’ore di fermo, San Giovanni in Laterano, una battuta coi poliziotti del metal detector: metta, metta la borsa, o ha una bomba? No no, non ho bombe.
Ma quella sono io! Quando leggo senza occhiali da vicino, quando penso: ma che ha scritto questo?, quando faccio una domanda a risposta multipla e mi rispondono ok. Io e san Matteo siamo entrati in sintonia.

«Qui non arriva la musica»

A questo punto avrebbe dovuto esserci il video con le foto e la musica inedita. Per ora niente colonna sonora, quindi niente video, ma arriverà, se slow hand non mi arronza arriverà. In attesa dei giri di basso, giro cantando «Se questa è l’ultima canzone e poi la luna esploderà, sarò lì a dirti che sbagli, ti sbagli e lo sai, qui non arriva la musicaaaa…».

Settembre, è tempo di aspettare

Il blog languisce come se non fossi andata in vacanza. Ci sono andata, a luglio, in un posto dove è stato anche Ulisse. È uno che ha cincischiato un bel po’ prima di risolversi a tornare a casa e può essere che mi abbia lasciato qualcosa di sé in questo senso. Il racconto del viaggio l’ho scritto quasi subito, poi però mi sono messa a cincischiare con le foto, poi mi è venuto in mente di fare un video, nonostante la mancanza dell’ineguagliabile MovieMaker. Poi ho voluto la musica per il video, però quella gratis non mi piaceva, per cui mi è venuto sto delirio di averne una inedita.
Chiamo John Taylor dei Duran Duran: mi faresti un pezzo col basso? Ue’, come no? Ue’ è una tipica espressione di Birmingham. Ma si sa come son fatte le star… Quindi come Penelope aspetto. Non tesso fili ma foto e pensieri e tradisco un po’ il caro Argo con una storia di gatti.

Milano e i cambiamenti climatici

Mentre sono via si abbatte su Milano un disastro. Ci dobbiamo abituare, dicono gli esperti a noi di questa città raramente colpita da fenomeni estremi. Come si faccia ad abituarsi non lo so. Al ritorno vado al mio parco: alberi immensi giacciono morti, abbattuti dalle radici. Alcuni di loro sono quelli che tanto amo vedere in autunno quando esibiscono i loro bei gialli. Mi aggiro in bici tra questa desolazione pensando che il valore di un albero sta soprattutto negli anni che ci mette a diventare grande e bello, e ombroso e forte.

Strada sbarrata, alla Humphrey Bogart, sono costretta a ripercorrere l’intero parco.

Qualche giorno dopo passerò dall’altra parte, mi viene da appoggiare una mano su questo povero legno.


Milano e i cambiamenti umani

Si può fare un hotel di lusso in quella che era una chiesa? Evidentemente sì.

Agosto, è tempo di Bassa Padana

Lei è il cane del bar della stazione dei pullman di Cremona. Elemosina qualunque tipo di cibo da qualunque avventore. Mi sono affezionata a un cane che vedo una volta ogni tanto? Ovviamente sì.

Anche quest’anno mi toccano un paio di accompagni alle terme

Salsomaggiore Terme. Dopo circa sessanta chilometri di piata pianura, omida calura, piopi caredi, moschi sinseli, si vedono delle alture e in lontananza gli Appennini. Alture che però niente possono fare contro il caldo. La prima volta faccio un giro nel giardino

ma quasi subito mi affloscio su una panchina. L’unica cosa di me che si muove è il sopracciglio di rimprovero contro una città di terme senza neanche una fontanella. La seconda volta va meglio. Il celodurismo dei padani si esplica nell’adattarsi a trascinarsi dietro le due propaggini molli al posto delle gambe perché visto che sudi anche se stai fermo, tanto vale provarci.

Come ad Acqui Terme, come a Recoaro, anche qui si trovano i segni di un passato di fasti. E intendo proprio fasti. In particolare in questa cittadina, Salso, ti sembra di veder camminare damine con i loro ombrellini e distinti signori con la tuba, come fantasmi intrappolati in grand hotel e stabilimenti termali ormai decadenti o in disuso. Sbatto gli occhi e i fantasmi della mia fantasia vengono sostituiti da quelli ben più reali: perché, qual è il motivo? Quanti posti di lavoro sono andati persi?

Il bellissimo edificio delle Terme Lorenzo Berzieri (chiuse)

A volte le cose sono così stranamente brutte che diventano belle. Scultura di finti alberi alle Terme di Tabiano.


In mezzo alla piata pianura, ancora in provincia di Parma, c’è Diolo, frazione di Soragna, con il minuscolo Museo Giovannino Guareschi.

Lì accanto c’è un ristorante così bello, che sa tanto di uno di quei posti dove ti strafoghi di Emilia, da non poter resistere. Davanti alla porta il braccio mi scatta in fuori come un imperioso segno di alt: hanno vinto più di una volta la stella Michelin, chissà quanto ci fanno pagare. In questa estate che è stata la peggiore nella vessazione del turista i conti bisogna farli. Invece no, le stelle Michelin non li ha resi grifagni. È uno dei ristoranti più accoglienti che abbia visto, senza inutili ridondanze, caldo legno e zero acciaio. La ridondanza sta nel tramonto sul retro

e sul davanti, con le ombre calate sul piccolo museo e sulla locanda.

E nel cibo ovviamente. A Piacenza ti mandano in visibilio con pisarei e fasò, qui, all’Osteria Ardenga, con pisarei all’amatriciana di culatello, per tacer degli antipasti.

Testa di gatto

Il gatto dei miei vicini, non tollerando la presenza del cane, ormai da anni si era trasferito nel mio giardino. Quest’anno ha deciso di trasferirsi nel giardino a fianco. Perché l’abbia fatto non si sa. Un giorno viene alla mia porta. Che c’è? Sei tornato? Il giorno dopo ancora, sta lì e mi fissa. Capisco: quella dove si è trasferito di recente non c’è per cui è rimasto senza cibo. Lo dico alla sua padrona, che comunque è quella che continua a mantenerlo a crocchette. Fosse una persona, gli diresti che è un opportunista e gli sbatteresti la porta in faccia. Invece è un animale, e così il sacco di crocchette puzzolenti gira un’altra volta appresso al gatto che ama i traslochi.
Poi c’è lui, che non ha nessuno, non si fa amare da nessuno, non vuole farsi toccare da nessuno, che si mimetizza con il grigio delle pietre.

E io mi ci sono affezionata perché è bello, e tanto solo, ne sono quasi certa, per colpa di qualche animale a due gambe. Gli do qualcosa di mio, il latte alla mattina, ogni tanto entra in casa e si fa un giretto, io sto immobile per non spaventarlo. Un giorno sento cric-croc, si è seduto su un sacchetto di carta che avevo lasciato sulla sedia. È la prima volta che si mette in una posizione poco adatta alla fuga immediata, è un atto di fiducia nei miei confronti che arriva dopo anni.
Il giorno dopo entra l’opportunista e annusa dove si era seduto il solitario. In giardino sta vicino alla ciotola che uso per lui, stanno molto tempo insieme lì, sul confine immaginario tracciato dalla ciotola, si mette a bere il latte che non ha mai bevuto prima. Io mi metto spesso a osservarli, la cosa che faccio da tutta la vita. Il traslocatore si fa accarezzare da tutti ma non ama nessuno, il solitario ha solo me, ma il primo in qualche modo è geloso, ha paura di perdere il suo posto.

Le cose vive fan fare dei viaggi

Il fiore che dopo tanto caldo pare sorridere alla pioggia.

Le lumache che sembrano aver saputo che oggi si è corso il GP di Monza.


Tramonti e ritorno (nessuna di queste foto è stata ritoccata, il cielo non ha bisogno di caricature)

In campagna non ci vivrei neanche incollata al muro, ma tornare a Milano mi fa capire in quale stato di nevrosi continua siamo immersi. Finché ci stai dentro non te ne accorgi, o meglio, ti adatti, ma uscirne e rientrarne diventa sempre più pesante. I semafori sembrano rossi per un tempo eterno, le macchine sembrano portarti via tutto lo spazio fisico e il rumore, dopo tanto silenzio, che non cessa mai.