Asl, una polveriera milanese

«Mi piace Milano perché se ti viene fame alle 3 di notte puoi mangiare». La sento una volta, alla seconda detta da persone e in contesti diversi ho già capito che è diventato un luogo comune. Ogni posto c’ha il suo. Quindi anche se uno alle 3 di notte trova solo un self-service h24 e si sbafa un tramezzino della Montedison, dirà che a Milano si mangia pure alle 3 di notte, perché è così che si deve dire. Io sono contenta se un turista può mangiare alle 3 di notte, ritenerla l’espressione del massimo splendore di una città già mi imbarazza un po’ di più. Credo comunque che ai residenti interessi poco, quello che invece li fa andare in bestia è pensare a questa patinatura di parole quando stanno vivendo i lati sotto, quelli nascosti, quelli quotidiani. La Asl ha un sito con l’elenco dei medici di base disponibili. Non è aggiornato, te lo dicono subito bontà loro. Scoprirò anche che qualche medico collocato in una zona appartiene in realtà a un’altra e che i lori numeri di telefono e gli orari non sempre sono corretti. Si vede che non è un servizio così fondamentale come l’ultimo pubblicato su Dolce&Gabbana. Quindi vado, ma il medico scelto dichiarato libero, libero non è. Tornerò dopo una ricerca più approfondita. Torno e mi si presenta una scena da tessera del pane in tempi di guerra, la coda parte da fuori, il nervosismo è palpabile, non capisco cosa succede. Solo risalendo la corrente vedo il cartello. Fino al 6 maggio si fanno un tot di numeri alla mattina e un tot al pomeriggio. Eh già, c’è la Pasqua, ci sono i ponti, personale dimezzato. Già di norma stanno aperti fino alle 14.30, o alle 15.30, questo è un altro dato vago. Avranno dirottato i tecnici informatici sulle prossime eventuali olimpiadi invernali. Perché i politici si stracciano le vesti se un supermercato chiude alla domenica ma ritengono normale che un pubblico ufficio faccia mezza giornata non l’ho mai capito. Devo gettare la spugna perché ho una cosa da fare: andare a lavorare. Faccio passare i ponti e torno, terza volta. La scena da tessera del pane è diventata da mercato nero. Ma cosa sta succedendo, insomma? penso. Azzardo: Quota 100 ha fatto scappare i medici in massa e in più per qualche insondabile motivo hanno deciso di cambiare per l’ennesima volta i codici di esenzione. Somma su somma ed ecco il risultato. Così eccoci, noi civilissimi ed eleganti milanesi in fila ordinata, solo un poco disturbati, solo un poco indignati, qualche mormorio sommesso. Finché non esce la malcapitata impiegata di turno con i numeretti. Deve essere quella che ha estratto il fiammifero più corto. I milanesi si scompongono e accerchiano la poveretta, quello dietro di me mi spinge e prova a passarmi avanti con la mano, ma non è giornata da low profile, parto all’attacco, allungo il mio arto per prima e riesco ad arraffare un più che dignitoso numero 337, stai attento a te che se ci provi ti do una gomitata nello stomaco che ti faccio ripresentare il panettone di Natale, penso.
Queste situazioni sono una polveriera. A uno straniero poco accorto viene da dire che in Italia non funziona niente, orpo, ma sarai pirla, credi che qualcuno possa mai darti ragione? Un coro di: e allora tornatene al tuo paese si alza compatto. Uno vuole riprendere la scena della folla col cellulare. La signora del fiammifero corto ha uno scatto ardito di protezione privacy nei confronti degli altri. L’ho già vista in azione l’altra volta, questa signora ha una fermezza, un coraggio e una capacità di mediazione da meritarsi la medaglia di cavaliere della Repubblica italiana. Una straniera con passeggino vuole entrare a tutti i costi perché «ha bambino». Credi che in questo momento possano vederti come una madre con neonato? Ma sei un mostro a tre teste con relativo alieno usurpatore. Riesco ad entrare col mio numero dove ci si può sedere. Mi guardo intorno, è tornata la calma, avere quel numero è stata la conquista del giorno. Guardo i pochi impiegati e mi chiedo con che animo si alzino dal letto. Penso alla temeraria fuori, costretta a calarsi nei panni di un poliziotto, e senza neanche lo scudo antisommossa. Situazioni indecorose e ingiuste nei confronti di tutti.
Sono le 3 del pomeriggio, non ho mangiato e non ho bevuto. Aspetterò le 3 di notte in questa Milano da bere e da mangiare.

Moderni ruderi

Passavo via così, un po’ veloce un po’ rabbuiata, perché il sacchettino di pile l’avevo ancora lì, perché dare alla gente la possibilità di buttare pile e lampadine nello stesso posto sembra un meccanismo che richiede troppa intelligenza. L’impulso di buttarle in qualche cestino c’è stato ma non l’ho ascoltato. L’ho colta quasi con la coda dell’occhio, soffocata tra le macchine parcheggiate e alberi maltenuti. Ho continuato a camminare ma i pensieri si sono messi in allerta, però più lenti dei miei passi. Volevo tornare indietro e immortalare l’immagine ma ormai metà della strada l’avevo già fatta. Però ci sono tornata, allunghi un po’ di qui, svicoli un po’ di là, e da A a B ci arrivi lo stesso anche senza la retta.
Sembrano un simbolo dei giorni nostri, questi due ruderi così appaiati. La cabina telefonica morta ormai da anni, che tanto anche nell’epoca del suo massimo splendore funzionava di rado. Uccisa dai cellulari. Una delle migliori invenzioni in assoluto. Ma quel che seguì uccise i giornali e quindi l’edicola e quindi chi lavorava nell’edicola. E anche una gran quantità di cervelli.
Caserme dismesse paiono aver segnato il destino di questa via, come se chi abita lì, girato l’angolo, si meritasse di essere dismesso anche lui, costretto a sopportare senza un senso una cabina telefonica dai vetri fracassati e i resti sporchi di un’edicola.
Magari tra qualche centinaia di anni arriverà un Indiana Jones, ritroverà queste cose e ci studierà sopra per gli anni a venire, come si fa adesso con le piramidi. L’evoluzione dell’umanità. Ecco perché le lasciamo lì, disse il Consiglio comunale. Ah, ecco.

La terra di mezzo di piazza Buonarroti

  1. Piazza Buonarroti a Milano è presidiata dalla statua di Giuseppe Verdi. Presidiata perché sta nel centro della rotonda e sembra sostituire i vigili che non ci sono mai, nemmeno quando il traffico dà di matto, nemmeno quando i semafori sono rotti per giorni. Sotto la piazza corre la metro. Tra l’aria sopra e gli inferi sotto c’è una specie di terra di mezzo, e infatti si chiama mezzanino. Però sopra sei uno dei tanti che si agita torno torno la piazza e sotto uno dei tanti che resta lì ad aspettare la metro, poi sali e chi si è visto si è visto. Nel mezzanino di Buonarroti invece hai una personalità perché qualcuno ti chiama per nome, non sei più uno nessuno centomila, sei tu. E quindi non è mezzanino ma terra di mezzo. Questa specie di miracolo urbano è dovuto a Valentina e Claudio, che vivono un moto perpetuo in un bar che ha le dimensioni di una striscia e da cui, per una sorta di altro miracolo, sono persino riusciti a ricavare uno spazio a T con tavolini. Non so se Valentina e Claudio sono nomi che si sono dati di propria iniziativa o se li ha decisi qualcun altro, perché loro sono cinesi, nati in Cina, ma so che loro si ricordano i nomi di tutti quelli che frequentano il loro bar. Quindi se vai lì abbastanza spesso, non ti diranno “ciao” ma “ciao Elena”, e di conseguenza tutti chiamano loro per nome. Non li ho mai visti essere scontrosi con qualcuno, non li ho mai visti senza sorriso, nemmeno quando gli vedi una comprensibile stanchezza negli occhi. Insomma, il sole pare arrivare anche in quella striscia interrata illuminata solo dalla luce al neon, anche quando la cocuzza del Maestro sopra è bagnata dalla pioggia o sfumata dalla nebbia. Quando riuscivo a mangiarmi il panino in loco e Claudio riusciva a prendersi tre-minuti-tre di pausa, ci scambiavamo impressioni di mondi diversi, ma così diversi da essere talvolta incomprensibili gli uni agli altri, perché certi punti di vista è come se non fossero solo idee ma fossero proprio scritti nel Dna. Da un po’ di tempo la coppia è affiancata da una ragazza, mi ha detto solo una volta come si chiama ma non lo ricordo, perché non è un nome italiano e perché mentre scrivo ho appena varcato di due anni il quasi-mezzo di cammin di nostra vita (essì, anche i parametri danteschi vanno aggiornati sulle odierne aspettativa di vita). Da dove viene l’ho scoperto solo ieri, io la collocavo in quell’immensa vastità di “una qualche zona dell’India”. E l’ho scoperto per vie traverse. Perché ieri al bar c’era una ragazza, il suo nome è Raffaella Zsua, e ha chiesto a questa giovane da dove venisse. Sri Lanka. Non sono riuscita a trattenermi dalla mia solita litania: che bello! È uno dei miei sogni. Raffaella dice: ah, che bello sì, il Sudest asiatico. Poi aggiunge di avere un blog – https://raffaellazsua.com/ – in cui narra storie di immigrazione e se la ragazza può raccontarle la sua. E anche la parola blog richiama la mia attenzione, mi faccio dare l’indirizzo, prendo al volo il mio panino e me ne vado, per dovere, non per volontà.
    L’immigrazione è un fatto complesso, che non puoi trattare come è stato fatto finora vedendo tutto il bianco o tutto il nero, ha bisogno di grandi sfumature che dovrebbero venire da chi ha le competenze per farlo. E infatti non sono qui per aggiungere pennellate ai bianchi o ai neri ma solo per condividere quello che mi è venuto in mente risalendo dalla terra di mezzo dopo che Raffaella ha detto: se va avanti così è meglio che ce ne andiamo tutti. C’è qualcosa di tremendamente sbagliato in quelle quattro persone straniere che incontro ogni giorno in meno di 400 metri a chiedere la carità ma c’è qualcosa di altrettanto tremendamente sbagliato nel lasciare una nave in mezzo al mare. E c’è qualcosa di sbagliato anche in me, che ho dato per scontato che Claudio e Valentina fossero italiani, perché si vestono, parlano, mangiano come me, Valentina persino mi ha detto che fatica ormai a scrivere in cinese, ma che soprattutto vivono lo Stato italiano come lo vivo io, prendendosi tutto il brutto e il bello. E ancor di più i loro bambini, nati in Italia. Ho dato per scontato quello che scontato non è, perché loro e i loro figli devono ogni tot dimostrare di essere italiani (diciamo così per bypassare i termini tecnici) a suon di documenti e, guarda un po’, a suon dei soldi che questi documenti costano. Per cui, Valentina e Claudio mi conoscono con il mio nome (più un altro centinaio di persone) ma al mio Stato che è anche il loro a dir poco da una quindicina di anni devono periodicamente rendere conto del loro. Uno Stato fatto da persone che sistematicamente interpretano la legge a proprio piacimento. Già, perché tra un sogno di viaggio e l’altro anche questo mi viene in mente. Un popolo per lo più di tendenza anarchica che si scopre esperto di diritto costituzionale solo in certi casi, tipo quelli di Mimmo Lucano o di Leoluca Orlando. Un sindaco può “interpretare” la legge sugli abusi edilizi, la corruzione, lo smaltimento di rifiuti ma se ci prova dal lato umano, allora tutti strenui difensori della norma.
    Giuseppe Verdi è particolarmente amato dai milanesi, anche da quelli che di classica se ne intendono poco, perché, credo, fin da piccoli ci raccontano due storie: come tutti si fossero alzati al Va’ pensiero in sfregio al dominio austriaco e come avessero ricoperto le strade di paglia perché gli zoccoli dei cavalli non disturbassero il Maestro nei suoi ultimi giorni di vita. Forgiano nel bambino l’orgoglio di avere mandato a fare… gli austriaci.
    In piazza Buonarroti, sopra c’è la statua del compositore più milanese della storia che milanese non era, sotto c’è un incontro di mondi.

 

Bagliori natalizi e qualche lampo di mestizia

Stillante di nebbia e stanchezza da rush finale lavorativo prima di un po’ di quiete di giorni festivi, mi lascio trasportare da un bus che tra frenate e accelerate si districa tra il caos isterico di chi pensa che il Natale imminente sia una sorta di terza guerra mondiale. Guardo fuori dal finestrino, un lavavetri vestito da Babbo Natale attende che la fila si fermi nuovamente. Mi chiedo se esiste Babbo Natale nel luogo da cui proviene, se ha imparato che in questi giorni ci si veste così nel corso di lunghi anni passati sotto i semafori o se invece l’ha appreso da poco, se qualcuno glielo ha detto, se si domanda chi sia Babbo Natale e se ha voglia di tornare nel suo paese senza pancioni vestiti di rosso. Con qualche altro sconquassamento il bus riesce ad attraversare l’incrocio, un’altra coda e un altro questuante, questa volta un giocoliere che impavido si esibisce davanti a una fila di macchine, schierate così mi paiono una spaventevole pole position. Non faccio in tempo a dimenticare questi strani connubi che la sera vedo qualcosa di ben più triste. Venditori di souvenir con cappello rosso davanti alla basilica di Betlemme.

È sconcertante ricevere degli auguri così brutti, se poi comprensivi di errore proprio in quello che ti augurano potresti anche metterti a piangere.

Se invece intendevi augurarmi di trovare un Goya in solaio, allora grazie grazie mille volte grazie.

Per fortuna la luce arriva, anche il cibo porta luce, che diamine, se poi ha il nome pseudoesotico di lifferia è ancora più intensa. Cito dal sito di Pizzikotto: Liffo dal dialetto reggiano è tutto ciò che è Goloso e Gustoso. Ok, benvenuti a Milano.

Ah Milano, la fortuna di trovarla vuota e di riconciliarsi con essa. E chi c’è in giro la sera della vigilia? Quelli senza famiglia, dice. Seee, Oliver Twist, rispondo. E giù a ridere, che in questa deliziosa assenza di rumore sembra quasi faccia eco. Ci piantiamo nel mezzo della via Marghera e ci prendiamo tutto il tempo per l’inquadratura di qua, la prova luce di là… e quando mai ti ricapita?

Euforia da vuoto e da foto ci trascina in centro. E la macchina dove la metti? Qui, e ci metto sopra il biglietto Guasta. Ma scherzi? No, non vorrai che ci perdiamo questo spettacolo? Certo che no. Via Dante,

via dei Mercanti,

piazza del Duomo, e quella coda è per la messa? Naturalmente, chi vuoi che stia in coda con sto freddo alle 11 di sera? E poi non sono giapponesi. Corso Vittorio Emanuele che deve sempre strafare, anche in pacchianeria talvolta.

San Babila, lì con lo smartphone puntato ad aspettare che l’albero ridiventi azzurro.

E sotto la Galleria. Una famiglia c’è e il maschio si rifiuta di fare la foto alle vetrine di Prada. La spunta la madre Alfa, spalleggiata dal resto della famiglia. Usciamo in piazza della Scala e un orrore si erge davanti ai nostri occhi. Un paio di monoliti neri con delle luci rosse piantati davanti a Palazzo Marino. Madonna quanto è brutto diciamo all’unisono, pure la famiglia che si è accodata. Eh, ma è proprio vero che se cambi prospettiva cambi anche idea.

A Natale ti fermi, tranne le mandibole si intende. Niente stupidaggini, niente pensieri, niente meditazioni. Ogni energia dedicata al rifornimento e allo smaltimento. Ah, ma a Santo Stefano torni libero. E Bohemian Rhapsody fu. Il film parte come un’autobiografia un poco piatta. Inizi a notare la lotta dell’attore con i denti finti che devono riprodurre i quattro incisivi di Freddie Mercury. Dopo un po’ questo dissidio dà anche fastidio a dire la verità, ma mai quanto i miei vicini anzianotti ma stupidotti come degli adolescenti. I gatti sono gli animali preferiti dai gay e dalle donne single, hai mai visto una donna single col cane? dice lui. L’uomo single ha il cane, la donna no. Mi verrebbe voglia di girarmi e dirgli: non la puoi vedere perché il cane va portato fuori e se sei da solo e lavori non puoi avere un cane, testa di uovo che non sei altro, e adesso chiudi quella ciabatta e guarda il film. Macchè, bisogna anche fare l’urletto perché Freddie Mercury bacia un uomo (era gay, vedi tu, chiudi la ciabatta), il commento perché l’attore non è alto come Freddie Mercury (vedi in giro tanti uomini col fisico di Freddie Mercury? Chiudi la ciabatta). Ma poi il film esplode, o meglio, è la musica a farlo esplodere, fino alla fine, e con tutte le balordaggini che ho dovuto sentire mi merito di mettermi a cantare inside my heart is breaking, my make-up may be flaking, but my smile still stays on-ooohhh-on… e se do fastidio a qualcuno spostatevi più in là.

Il tram 16 è pieno di allegre famiglie che vanno allo stadio, bambini che non stanno più nella pelle. San Siro scoppia di urla, gli scatto un paio di foto, pur così avvolto nella nebbia, per mandarle a Sabi. Dida: Visto che non sei qua… E forza Napoli! Sono interista per tradizione, ma per rompere l’ormai decennale trio di vincitrici Inter-Milan-Juventus tifo per qualunque altra squadra, figurati per quella di un amico. Sabi ha la coperta, un bicchiere di vino e la torta di Silvana, io rido sotto la mia di coperta, sto cercando di togliermi dalle ossa il gelo dell’attesa che qualcosa passasse per San Siro e, milanese, tifo per il Napoli. Ma questi siamo noi, che non c’entriamo con la furia insensata che si è scatenata in questa partita. Avrebbero dovuto riempire le birrerie di Milano, ne hanno riempito gli ospedali.

Il Natale fa anche rimbalzare le persone come palline in un flipper. Perugia- Savigliano-Torino Milano-Torino, Game over in piazza San Carlo il 28 dicembre.

Questa è la quarta o quinta volta che vengo a Torino, stavolta però il castello finto lo voglio vedere. È lui che l’ha chiamato castello finto, perché c’è andato in gita alle elementari e quindi è rimasto a quell’idea lì. Si arriva camminando lungo il Po del Parco del Valentino, appena velato da un’affascinante nebbiolina,

e tra un guizzare veloce di scoiattoli grigi che si concedono solo a chi ha qualcosa da dar loro in cambio.

Che il castello sia finto lo si vede a colpo d’occhio, tranne un muro che sembrerebbe avere un suo passato.

Ad ogni modo non è un castello e basta, è un borgo, e non si chiama castello finto bensì Borgo medievale. E anche se non così antica, ha comunque una sua storia da vantare: https://www.guidatorino.com/borgo-medievale-torino/

Nessuno può battere i torinesi sul cioccolato. Che siano tavolette, cioccolatini e che altre forme solide o che sia cioccolata in forma liquida. Un livello di densità perfetto, perfetto il grado di zuccherosità, solo quel tanto che basta a mitigare l’amaro del cacao, e il gusto, il retrogusto, gli annessi e connessi. Ma-gi-strale.
Bella gente, begli scoiattoli, belle vie. Bella zio, città in cui tornare.

Bella invidiosa, esibizione del 29 dicembre

Milano sotto e sopra

O sottosopra, vari punti di vista. La metropolitana è l’unica che può salvare Milano, se essa Milano  riesce a mantenersi salva nei decenni che occorrono a fare la metro. Ad esempio, rivedere Sant’Ambrogio senza cantieri e ancora in piedi sarebbe bello. In via De Amicis l’autobus si infila tra un ostacolo e l’altro. A piedi mi infilo in un cunicolo che funge da passaggio pedonale, all’imbrunire che ormai arriva così presto non capisco bene se il viottolo girerà su un altro simile o se finirò i miei giorni inghiottita da un buco. Al di sopra si staglia un gancio immenso, molto molto al di sopra delle pareti che circondano il cantiere. Se sbaglia a girare potrei fare la fine della pignatta nel gioco della pignatta in qualche sagra del salame contadino. Il gancio giace immobile e il cunicolo si apre in un normale, terreno passaggio. Fine del brivido horror & the city. Oh, che bei disegni, murales… o legnales, visto che stanno su paratie provvisorie. O compensales, suggerisce lo spiritoso che non vuol essere da meno nelle gag.

Qualche giorno più in là si va a visitare l’Archivio storico e il Sepolcreto Ca’ Granda, qualche chilometro più in là. Prima di andare sotto, girello sopra, nei Giardini della Guastalla, proprio lì di fronte. Gli alberi riescono a isolare il rumore del traffico ma non le sirene che feriscono orecchie e cuore dirette al Policlinico. Un pastore tedesco gioca con le castagne, sia mai che non rompa le scatole a un cane pretendendo che voglia fare amicizia con me, tanto più se è un lupo. Ester, vieni… sì, vabbe’, a Milano c’è il vezzo di dare ai cani i nomi delle persone. Fatti salutare. La signora la conduce verso di me e la fa sedere per farsi accarezzare a colpi di croccantini, giusto un’esibizione di perfetto addomesticamento canino. Se l’avessi saputo avrei lasciato perdere, detesto queste cose, la povera Ester perderà la sua personalità e diventerà una robottina obesa.

Dopo una sosta presso la nicchia con Maddalena assistita dagli angeli,

si torna al 32 di via Francesco Sforza, all’entrata de Il percorso dei segreti. Che incomincia dal Sepolcreto, sotto la cripta della chiesa della Beata Vergine Annunciata, dell’Ospedale Policlinico voluto dal duca Francesco Sforza. Come spiega la (brava) guida, la prima istituzione caritatevole laica della città, all’epoca non un ospedale ma un ricovero/rifugio per poveri. Sotto questi pavimenti, sono stati sepolti circa 150 mila persone decedute all’ospedale più tanti caduti delle Cinque Giornate di Milano. Le pareti recano infatti molte, sbiadite lapidi con nomi e citazioni, come questa del Petrarca.

Sembrerebbe un luogo della memoria fermo nel tempo, senza possibilità alcuna di riguardarci, se non per quei canonici cinque minuti in cui ti rendi conto di quanta sofferenza ci è stata risparmiata, prima di tornare a lagnarci come al solito dell’epoca odierna.

Ma qualche filo tirato qua e là da Chantal, la guida, crea delle connessioni. Qui vengono a fare ricerca quelli del Labanof per capire come fossero i milanesi del ’600, grossi bidoni con sabbia rosso mattone e una specie di pentolone di rame al centro che sembra quello per fare la polenta è un’installazione artistica. Lo scopo dell’artista, che prima o poi verrà a riprenderseli, era quello di far specchiare le persone all’interno con il risultato di essere circondati dalla volta azzurra del soffitto affrescato, o almeno quel che ne rimane, poco, solo che le scolaresche, e anche qualche adulto, hanno buttato la sabbia sul fondo dove c’era lo specchio, così non si vede più niente. Chantal si interrompe per qualche secondo per vedere se la cosa ha suscitato un qualche interesse. Silenzio tombale. Poi si scusa per delle luci a forma di uovo, avrete notato che non c’entrano molto con il contesto ma c’è stato un evento e non le hanno ancora portate via. Insomma, pare che qui tutti vengano a installare ma non a disinstallare. È il risvolto della medaglia, se vuoi vedere luoghi finora inaccessibili, devi metterli in mano ai privati, che a quel punto dovranno far cassa aprendoli anche ad altre attività, tipo cene, aperitivi ecc. E del restauro e conservazione se ne sta occupando appunto ArSe Milano.

Le pareti appaiono del tutto vuote, tranne che per quest’ombra rimasta di una serie di 97 danze macabre.

Si risale, di nuovo sotto sopra, e, attraversato un piccolo cortile,

si entra in un’enorme stanza che lascia senza fiato. Chi amerà le antiche carte avrà un’estasi profonda.

Carte, sì, perché di solito si amano i libri antichi e questi invece sono faldoni di documenti, ma l’emozione è identica. È la Sala del Capitolo dell’Archivio della Ca’ Granda. Anche questo luogo è accessibile a chi fa ricerche e si sta anche procedendo alla digitalizzazione. Chantal distribuisce caschetti di protezione come quelli che si usano nei cantieri, perché ogni tanto cadono pezzi di intonaco. Vorrei dispiacermene vivamente perché l’altissima volta è affrescata, ma riesco a farlo solo a metà perché troppo intenta a litigare col caschetto che non vuole star su, nemmeno dopo che ho trovato il modo di stringerlo. Inizio a pensare di essere microcefala, con quel che ciò comporta, perché al momento sembro l’unica ad avere seri problemi col sistema di protezione, però poi… è il momento delle foto e quasi tutti hanno “un assistente” che gli tiene il casco mentre scattano.

Il ritratto è di un farmacista.

Il Policlinico possiede una ricca pinacoteca di ritratti di benefattori, medici e così via realizzati dai più famosi pittori di varie epoche, purtroppo non visitabile per mancanza di fondi. Forse un giorno, in attesa di un moderno benefattore.