Fermati, scrittore, e parlami di te

fabrizio bolivar

Ho già scritto di Fabrizio Bolivar in un mio precedente post, parlando però soprattutto del suo libro Sei a zero. Ma appartenendo egli all’eroica schiera degli scrittori part-time, volevo sapere di più. E non è una cosa facile, perché se arrivi nei loro momenti creativi sei una fonte di disturbo (e se sono part-time, mica gli puoi portare via una part del time), quando ne escono poi non si ricordano più cosa gli avevi chiesto – davvero mi hai chiesto un’intervista? – ma sembrano contenti. Non devi aspettare molto però, perché poi spariscono di nuovo, presi dalle parole, persi in una nuova avventura.  E adesso è qui, a questo tavolo da bar virtuale. Una Coca, acqua o un bicchiere di Lambrusco mantovano… mah, tanto è tutto virtuale, appunto.

E dunque, Fabrizio, chi sei e come ti sei trovato a scrivere libri?
«Lavoro in un’azienda che eroga servizi sul territorio. A Mantova. Un lavoro da impiegato spesso impegnativo, ma troppo spesso noioso e poco stimolante. Il tempo che mi rimane lo dedico al tennis, ai libri e ai film. Ho iniziato a scrivere una quindicina d’anni fa. Quasi per gioco, forse per noia. Ero a casa dal lavoro per qualche giorno, confinato nel mio appartamento dall’influenza. I programmi tv erano inguardabili e i libri a mia disposizione non un granché. Così ho iniziato a scrivere un racconto. La settimana successiva l’ho inviato ad alcuni amici, i quali l’hanno trovato divertente. Quindi ne ho scritti altri, e poi altri ancora».

Da dove trai spunto per scrivere le tue storie?
«Le mie storie prendono spunto più che altro dalla realtà. Ricordi e aneddoti che spesso non hanno nulla a che fare con la mia esperienza personale, ma che mi sono stati riferiti da amici o conoscenti. Anche i giornali sono un’ottima fonte di notizie. Quando noto qualche articolo strano cerco di archiviarlo in memoria per poi magari utilizzarlo se ne capiterà l’occasione (dice di farlo anche Andrea Camilleri, ndr). Invece il carattere e l’aspetto fisico dei personaggi arriva dall’osservazione diretta delle persone che incontro nella vita di tutti i giorni. Dell’autore alla fine rimangono solo alcune riflessioni, generalmente veicolate dal protagonista del romanzo o del racconto».

Quali emozioni ti porta la scrittura?
«La scrittura mi diverte. Molto. Forse la cosa è facilitata dal fatto che in genere tendo a descrivere situazioni comiche. Anche se spesso hanno un retrogusto amaro. È il genere di umorismo che preferisco. Spesso mentre scrivo mi ritrovo a ridere da solo. E poi mi chiedo, ma quello che fa ridere me, farà ridere anche gli altri? Certo che farà ridere anche gli altri, mi rispondo senza troppa convinzione. Se poi la pagina che sto scrivendo mi viene davvero bene, esattamente come volevo io, beh in quel caso mi sento soddisfatto. Invece quando scrivo e cancello, riscrivo e ricancello, giro e rigiro la frase, e poi alla fine mi alzo dalla scrivania e vado a vedere la tv, ecco, in questo caso l’emozione che vivo potrebbe essere sintetizzata con il termine frustrazione. Anche se incazzatura rende meglio l’idea».

Nel tuo libro Sei a zero citi John Fante e nell’intervista che ho trovato nel web nomini il suo A Ovest di Roma, un libro in cui sono incappata per caso e che anch’io ho amato moltissimo. Negli autori che ami di più, trovi una fonte di ispirazione?
«Grande John Fante, il mio scrittore preferito. Ti consiglio Full of life, grandissimo libro. Di John Fante ho letto tutto, anche le lettere. Di certo gli autori che amo sono una fonte di ispirazione. In qualche modo sono condizionato dal loro modo di scrivere, forse anche inconsciamente. Il risultato però devo ammettere che non è a livello dell’originale, altrimenti sarei un fenomeno…».

Secondo te gli e-book sono la grande possibilità per tutti di realizzare il sogno di vedersi pubblicato o proprio per questo è la fine di un’editoria di qualità?
«Tutti oggi possono autopubblicarsi e trasformare i propri testi in e-book. Oppure farsi pubblicare a pagamento. A mio avviso però la realizzazione di questo genere di sogni è di scarso valore, proprio per il fatto di essere alla portata di tutti. Fare un salto di qualità è difficile, ed è l’ambizione di molti, e ovviamente anche la mia. Mi piacerebbe ci fosse meritocrazia nel mondo dell’editoria. Mi piacerebbe che tutti partissero alla pari, che tutti i concorsi fossero imparziali e che non esistessero canali preferenziali per i soliti raccomandati. Insomma, un’utopia. Secondo me comunque la buona editoria non morirà, peccato che per alcuni talenti sarà inaccessibile. Perché tra le migliaia e migliaia di proposte qualche vero talento senz’altro c’è. Ma senza nessuno che arrivi a leggerlo e a valutarlo seriamente quel talento finirà per continuare a scrivere solo per se stesso e per pochi amici. L’unica possibilità per tutti coloro che se lo meriterebbero ma che non hanno modo di farsi notare, è la solita vecchia botta di culo. Almeno quella speriamo non abbia canali preferenziali!».

Venendo alla tua città, il terremoto del 2012 ha gravemente danneggiato i palazzi storici di Mantova e tutti abbiamo guardato inorriditi le crepe di Palazzo Tè con la sua straordinaria Sala dei giganti. Non si era però fermato uno dei suoi eventi di maggior successo, il Festivaletteratura, che esiste dal 1997, e quest’anno Mantova sarà Capitale della cultura. Come si sta preparando?
«Riguardo il terremoto, a parte qualche impalcatura ancora presente e la cupola di un campanile in via di sistemazione, la città si è ripresa. A Mantova gli eventi culturali non mancano. È una città ricca di storia e iniziative. Prima fra tutte, appunto, il Festivaletteratura. Quest’anno di certo la città sarà ancora più viva. Il Comune si sta preparando e credo proprio non deluderà le aspettative».

Non solo Mantova città, però. Il 31 gennaio si è chiusa la X edizione del NebbiaGialla Suzzara Noir Festival, un’altra manifestazione culturale dedicata alla lettura e alla scrittura.
«Suzzara in giallo è un’iniziativa dello scrittore Paolo Roversi. L’ho conosciuto anni fa, e ho letto anche un paio dei suoi libri. Ma il festival non lo conosco».

Per ringraziarti di esserti fermato qui, vorrei augurarti (si possono fare gli auguri a uno scrittore?) di ritrovarti presto con un’altra tua creatura di carta. C’è già qualcosa che bolle in pentola?
«Gli auguri ad uno scrittore sono assolutamente d’obbligo, soprattutto per coloro che come me non sono per niente superstiziosi. Quindi grazie molte. Sto scrivendo un nuovo romanzo. Sarà un romanzo un po’ strano. A mio giudizio però l’idea di base è molto interessante. Posso solo aggiungere che mi devo documentare parecchio. Quindi è un progetto che richiederà molto tempo, del resto me lo posso permettere, visto che non ho nessun editore alle calcagna… Magari ce l’avessi… il romanzo sarebbe finito, rivisto e corretto per mercoledì prossimo!».

Bibliografia di Fabrizio Bolivar
Maledetta Vita, raccolta di racconti, 2004, Fara Editore di Rimini
480 caratteri spazi inclusi, raccolta di racconti brevi, 2006, Compagnia dei Librai di Genova
Autopubblicati con ilmiolibro
Ti lascio le pentole, romanzo, 2011
Vaccaboia che idea, raccolta di racconti, 2012
Microstorie, raccolta di racconti brevi, 2012
Sei a zero, romanzo, 2015

Tecniche del cinema à rebours

Dietro al cinema c’è il doppiaggio, prima del doppiaggio c’è la traduzione, e fra traduzione e doppiaggio cosa c’è? Come in un gioco di scatole cinesi troviamo un altro lavoro, altre persone, che in una stanza illuminata solo dalla luce fioca di uno schermo lavorano tra carta e pixel, ancora più nell’ombra dei doppiatori. Tagliano, allungano, cuciono, finché il nostro italiano non si adatta perfettamente ai ritmi dettati dalla lingua e dal genere del film. Si chiamano adattatori di copioni o dialoghisti, e uno di questi “uomini nell’ombra” si è fatto strada fino a qui. Marchitiello, il suo nome è Marco Marchitiello.

In cosa consiste il tuo lavoro?
«Nell’adattare il testo, il copione dei dialoghi di un film, telefilm, cartone animato precedentemente tradotti in italiano».

Perché è necessario l’adattamento?
«Perché ci sono delle differenze strutturali da lingua a lingua, quindi la sola traduzione del dialogo originale degli attori non è sufficiente. Ad esempio, l’inglese è spesso più conciso, con i suoi phrasal verbs crea molti problemi, così come, invece, ci sono lingue più prolisse della nostra nell’espressione di uno stesso concetto. C’è quindi la necessità di allungare o accorciare le frasi o le singole parole. Ma non è soltanto questo».

Come si interviene, in concreto, per risolvere questi problemi?
«Fondamentalmente bisogna trovare la piena coincidenza tra il copione originale, la traduzione e ciò che scorre sullo schermo: i tempi di entrata in campo di chi parla, le scene che iniziano fuori campo o di spalle, il movimento della bocca dell’attore. Ad esempio, una semplice congiunzione può talvolta far quadrare la lunghezza della frase. Poi c’è il complesso lavoro che riguarda le vocali e le sillabe: a seconda di come si pronunciano, aperte o chiuse, devono necessariamente corrispondere al movimento della bocca dell’attore in coincidenza di quel suono. C’è inoltre un discorso di ricerca che si basa sul tipo di linguaggio, se è, solo per fare alcuni esempi tra i tanti, gergale, teatrale, o attuale e su come rendere nel migliore dei modi frasi idiomatiche di altre lingue, sempre tenendo conto che si tratta di un prodotto cinematografico, per cui vengono usate espressioni che nella vita non useremmo mai (il classico: “ehi, amico” o “senti, dolcezza”, parlando con uno sconosciuto o con una donna e, perché no, con un amico che riteniamo “inferiore” o poco “maschio”). E, ulteriore lavoro, sempre nel rispetto dell’originale, per le scene di cui non è arrivato il dialogo e per cui, a volte, l’adattatore deve “inventare” senza stravolgere il senso originale».

Perché, può capitare che i dialoghi arrivino incompleti?
«Sì, alcuni copioni arrivano incompleti, spesso sono quelli di prodotti meno importanti, nel senso che l’immagine mostra l’attore che parla ma sul copione hanno omesso di scrivere la battuta, mancante anche nel copione originale. A volte sono semplici movimenti della bocca dell’attore che non sono liquidabili con un “verso” o “fiato”, perché muove proprio la bocca come se stesse dicendo qualcosa, tipo un “d’accordo”, un “infatti”. E lì, devi inventare, e i problemi arrivano quando queste “frasi sul muto” sono lunghe. Normalmente si ovvia con qualcosa di generico e che va bene per ogni occasione. Una sorta di vostro lorem ipsum».

Una volta svolto il lavoro di adattamento, qual è il passo successivo?
«I destinatari del mio lavoro sono i doppiatori, e dunque non ci si limita a lavorare sul testo ma si prende in considerazione ogni singola situazione che compare nel video: l’accavallamento di voci di più persone (o della stessa persona che ricorda qualcosa del passato e intanto commenta al presente) che parlano, tutto ciò che è espresso senza dialogo, le risate, il pianto, i sospiri. Così come indicazioni su quando inizia o termina la battuta, se fuori campo, di spalle, se c’è un “in campo” intervallato da un “fuori campo”, ciò che aiuta il doppiatore a considerare la possibilità di stare più tranquillo sul recitare la sua battuta. Per esempio, se sa che finisce fuori campo è libero di dire la battuta tenendo conto solo dell’aspetto emotivo della frase, perché per la lunghezza interviene il fonico che fa quadrare l’inizio della battuta, unica cosa importante in quanto la fine è, appunto, fuori campo. Questa serie di cose va indicata sul testo finale, destinato ai doppiatori, i quali, in sede di doppiaggio, hanno la possibilità di intervenire in maniera non radicale sul lavoro dell’adattatore; primo, perché a volte una frase “parlata” risulta meno fluida che scritta, secondo perché loro conoscono bene – meglio dell’adattatore, a volte anche per quello che il direttore di doppiaggio richiede – intenzioni e ruolo del personaggio e situazione in cui la battuta è detta, quindi sanno come meglio renderla».

Qual è la parte più difficile di questo mestiere?
«Trovare la parola “perfetta”. Spesso una parola mancante o ideale per quella frase e situazione non vuole venirti in mente, ti lambicchi il cervello… In questi casi è meglio lasciar perdere per un po’, andare avanti sul testo o addirittura uscire. Ma il lavoro a volte ti segue anche fuori casa, magari sei lì che cerchi di berti una birra in santa pace… la ricerca ti perseguita. C’è da dare di matto, perché a volte vivi la tua vita, una cena, un incontro, con una parte della testa fra le nuvole, appesa alla ricerca di quella parola! E poi arriva, all’improvviso, così corri a casa, anche di notte, con quella parola in mente, accendi il pc e le trovi il suo giusto posto, come in un puzzle dialettico, e te ne vai a letto contento».

Quali sono le qualità di un dialoghista?
«La buona conoscenza dell’italiano e un vasto bagaglio di termini sono fondamentali. Una cultura fatta di tanti libri e film può aiutare nell’uso appropriato di parole o intere frasi per ciascun tipo di genere cinematografico. E poi una vista acuta e reattività mentale».

E stando così, in mezzo agli attori, ti viene mai l’irrefrenabile impulso di recitare?
«Beh,  in realtà noi non vediamo nessun attore, non dal vivo almeno. Capita che quando dici che adatti i copioni di film ti rispondano “fico”, perché pensano che magari conosci la Bellucci o Robert De Niro. Poi quando gli spieghi di che si tratta, molti pensano che sei matto a fare una cosa come quella!  È un modo per rivalutare il proprio lavoro, qualunque esso sia (ride).
Detto questo, c’è, in quello che facciamo, una sorta di lavoro attoriale, perché devi imparare la frase da adattare, anche quando è già perfetta cosi com’è, e iniziare a recitarla nel momento in cui parte l’attore e seguirlo qualsiasi cosa accada, se scompare e riappare, se si intromette un altro a parlare… nel film, ma a volte capita anche nella stanza in cui stai lavorando. Ah, dimenticavo, tra le qualità di un dialoghista, c’è la memoria, cosa che aiuta nel risparmiare tempo e nella fedeltà alla lunghezza del testo, soprattutto quando la frase da recitare è di qualche riga. Questo ruolo, o pseudoruolo, di attore ti serve, per esempio, per evitare di mangiarti le parole e rischiare di trovare una frase corta e allungarla, senza renderti conto che sei tu che la stai accorciando declamandola a duemila».

Puoi dirci qualcuno dei copioni a cui hai lavorato?
«Il mio lavoro si è svolto in prevalenza su film o serie francesi e spagnole e ho avuto molte esperienze con manga e anime giapponesi».

Grazie, Marco, per averci portato dietro le quinte e averci svelato un altro pezzo del magico mondo del cinema.

Tassista, oèèè! Tasso! Tasso! Ma in Centrale non passano più?

leggo

Dario Rivarossa è quel dhr che compare qui in tanti commenti. E soprattutto è l’ispiratore del nome di questo blog: so che in qualche meandro del suo computer esiste una cartella che si chiama Metropolis, dove lui conserva le mie disavventure da Paperino di città. Pare che i miei scritti lo divertano… probabilmente come si diverte Gastone.
Dario è un piemontese espatriato a Perugia, io sto a Milano, così ci si vede poco.
Se la stazione Centrale di Milano avesse ancora le registrazioni di qualche anno fa, vedreste due soggetti che un paio di volte all’anno vagano alla ricerca di un luogo per sedersi, di solito lo trovano sulle ultime gelide sedie rimaste libere al piano di mezzo. Lui è quello alto con la barba. Io sono bassa la metà e non ho la barba. Poi sono arrivati i Frecciarossa e hanno tagliato fuori Milano dalle rotte Firenze-Torino. Quindi niente più chiacchiere in Centrale. Però ci sono le mail. Niente FB o Twitter o che altro, mail e basta. Un carteggio sul sacro e sul profano, sul mediamente alto e sul trivialmente basso.
Personalmente il Rivarossa è questa presenza qui. Ufficialmente Dario “dhr” Rivarossa è: traduttore dall’inglese e dal tedesco, copywriter, correttore bozze, conferenziere, illustratore. Ha scritto e illustrato il libro Dante era uno scrittore fantasy, in seguito tradotto e pubblicato negli Stati Uniti. È poi uscito il suo secondo libro, Nel labirinto del Cybertauro. On line lo troviamo con il suo blog il Tassista, dedicato alle opere di Torquato Tasso.
Personaggio complesso, catturare lui e i suoi mostri e trascinarli qui in Area 51 era ormai diventato inevitabile. E ragionar con lui di linguaggi terreni e alieni.

1/Letteratura

Che cosa ti ha spinto a dedicarti allo studio di Dante?
«La prima edizione della Divina Commedia – illustrata da Doré, ma SENZA note! – che mio padre mi regalò quando avevo circa 10 anni. Cominciai subito a studiarla da autodidatta».

Il tuo blog è quasi interamente dedicato a Torquato Tasso. Parlacene a ruota libera, come un tassista che smarca tutti nell’ora di punta…
«“Ho trovato il mio amòr” tardi, quasi per caso, per una serie di rimandi a catena: da Dante a Blake, da Blake a Milton, da Milton ad Ariosto, da Ariosto a Tasso. E ancora per felice combinazione sono capitate sottomano le sue opere cosiddette “secondarie”: Il re Torrismondo, Il mondo creato, Gerusalemme conquistata, che sono i suoi capolavori, opere sperimentali senza paralleli.
Del Mondo creato sto curando la nuova edizione americana, con il titolo Un(s)even, che verrà pubblicata dall’editore indipendente International Authors. Traduzione a sei mani con la docente universitaria Salwa Khoddam (di origini libanesi) e l’editore stesso, il prof. Carter Kaplan. Con 60 illustrazioni del Magico Trio, un team creato con Eva Nieri/Nivalis e Tiziana Grassi/Selkis».

2/Ironia
Dario usa spesso l’ironia, intesa come una leggerezza di stile che non scade mai né nello scontato né nel superficiale. Cito da Dante era un scrittore fantasy: «La storia del cristianesimo è un torneo a eliminazione diretta» (nota 18, pag. 38). Questo libro esplora un aspetto della Divina Commedia che esce dagli schemi canonici degli studi critici dell’opera. Per riuscire a battere una pista nuova su un lavoro sezionato ormai da secoli, è per forza necessaria una conoscenza approfondita del testo. Ergo, se pensate che sia un libro messo in piedi in qualche modo, vi sbagliate. È un saggio serio ma di facile lettura.

Che cos’è per te l’ironia, e che cosa può apportare a un testo?
«L’ironia è una maschera che rende abbastanza coraggiosi da guardare negli occhi la Realtà, questa figura bellissima e terrificante.
Sul piano “pratico”, permette di smontare gli stereotipi e scoprire interpretazioni alternative».

3/Fantascienza
Dario ha sviluppato una sorta di compulsività nei confronti di questo genere. Una passione che però non è rimasta solo un hobby, visto che ha tradotto molti romanzi fantascientifici (collana Urania Mondadori, solo per citarne un gruppo).

Qual è stato il momento in cui hai capito che forse un alieno ti aveva impiantato un chip? E da quel momento, che cosa ha significato per te la fantascienza?
«Ci saranno stati episodi scatenanti concreti, libri letti da ragazzino ecc., ma direi che la passione “per i mostri” era innata».

Una volta mi hai parlato di una “fantascienza caciarona” che, a tuo avviso,  si è fermata al 1968 col film Barbarella, per poi dare spazio a una più seria, più alla ricerca di significati profondi.
«Sì, ma intendendo l’opposto: da 2001 – Odissea nello spazio in poi, la SF ha cominciato a prendersi troppo sul serio e quindi a diventare meno profonda. Però è in atto un’inversione di tendenza, soprattutto grazie ai film Marvel».

Passato e futuro, il fantasy ha ucciso la fantascienza?
Una mia considerazione su un certo ritorno di musica anni ’80 nelle pubblicità porta a meditare su passato e futuro, una contrapposizione che troviamo tra fantasy (maghi, streghe e Medioevo) e fantascienza (il nuovo per mezzo della scienza). E se questo ritorno al passato non fosse un vezzo vintage ma autentica non-visione del futuro, come se il passato fosse un rifugio sicuro, l’unico posto in cui ancora possono accadere magie?

Secondo te il fantasy sta mettendo in difficoltà la fantascienza: per quale motivo?
«In Italia, perlomeno, il fantasy sta “spianando” la fantascienza. Confesso che mi sono convertito al fantasy anch’io, meglio ancora se con incursioni nella fantascienza, cfr. la Trilogia Spaziale di C. S. Lewis, o Tasso, appunto. Nel finale della Gerusalemme liberata, il paladino Rinaldo indossa la classica armatura fatata; nella Conquistata, il suo sostituto Riccardo indosserà l’armatura high-tech di Iron Man.
Non identificherei il fantasy con una “operazione nostalgia”. Semmai esprime il ri-emergere di energie che erano rimaste soffocate dopo il cosiddetto Illuminismo. Il fantasy ebbe il suo trionfo nel Rinascimento, un’epoca per molti versi molto più evoluta della nostra. E domani, chi lo sa, che sarà?, sarà quel che sarà».

4/Il fumetto
Dario mi invia una quantità industriale di disegni ma di qualità artigianale, perché i suoi mostri sono tutti diversi, nei colori e nelle forme. Di ispirazione teologica, dantesca o manga. Una volta, in risposta a un suo Goldrake, gli dissi che da piccola guardavo Heidi, se per favore non poteva per una volta disegnarmi una rassicurante capretta. Questo fu il risultato:

xElena_capretta

«Nego tutto! Era in atto un giro miliardario di falsi-Rivarossa! Ma ora per fortuna il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri ha messo la parola fine a questo ignobile commercio di croste truffaldine».

Come hai imparato a disegnare e che cosa provi quando disegni?
«“Come”? Beh, come tutti. Il problema non è tanto imparare ma “perché si disimpara”. Pensa a quanto era talentuoso il mio nipotino, che ora ha 15 anni e va verso il metro e 85, e ha quasi dimenticato la matita…
La sensazione che si prova è la più gloriosa di tutte: tornare ragazzino, ma con il valore aggiunto di farlo da adulto, e quindi con più esperienze da raccontare graficamente».

L’uomo disegna da che esiste e in tante epoche il disegno ha sostituito la parola scritta. Dai graffiti preistorici alle narrazioni bibliche agli smiles, che a volte è quasi d’obbligo aggiungere perché una breve conversazione scritta non sia fraintesa. È come se l’essere umano non potesse vivere senza disegno. Come vedi il futuro del fumetto?
«È una di quelle cose che ogni tanto l’esperto di turno dà per spacciate. Ed è vero che le vendite crollano anche in America, ma in compenso i film “tratti da” trionfano. C’è posto per tutto, nel mondo; esistono ancora i dischi in vinile».

Disegni di Dario “dhr” Rivarossa

5/La traduzione

Una buona traduzione non è mai pedissequa, perché deve adattarsi alla lingua di destinazione ma nello stesso tempo deve rispettare lo stile dell’autore. Come si trova questo equilibrio?
«Anche qui, si potrebbero sciorinare mille formule, ma per il 90% è istinto«.

Il traduttore prova mai l’insano desiderio di sostituirsi all’autore?
«Ah, oh, beh, ecco, hmm, veram…»

Two is megl’ che one

Joint-venture e divertissement tra esseri diversi.

Quando ho visto su un giornale la foto di Rambaldi con E.T gli ho fatto omaggio di quel fotomontaggio in apertura.

Una volta gli chiesi: «Mi disegni un cane?». Io so che lui ha paura dei cani, e infatti sembra il disegno di uno traumatizzato.

Cane

E poi ci fu la volta della marina: «Mi disegni una scogliera?»«Ok»
E joint-venture fu.
Racconto per un disegno

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Report di una magnifica serata

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Successo clamoroso per l’evento dell’11 marzo 2013 Alberto Sordi la voce del talento, organizzato nell’ambito della III Convention del Mondo dei Doppiatori di Antonio Genna.
L’intera sala sold out e parecchie persone in piedi, un gruppo di irriducibili che non hanno voluto perdersi i 75 minuti di Come un pisello nel baccello, realizzato con un montaggio certosino di pezzi rari, a volte rarissimi. E se il pubblico non è riuscito a trattenere espressioni di stupore per alcune sorprese inaspettate, come un Cary Grant che canta con la voce del nostro Albertone, non è stato da meno l’entusiasmo per le più note comiche di Stanlio e Ollio. Personaggi sempre irresistibili, che hanno fatto rimbombare il cinema di risate grosse e contagiose. Con un surplus di trasporto da parte di un signore nelle ultime file che si è esibito in un potente e gridato: “Stupìdo”. C’era una Milano ritrovata, quella che ama il cinema e la cultura, come ha sottolineato anche l’attore e doppiatore Raffaele Fallica durante il suo intervento.

Per scoprire il dietro le quinte e conoscere alcuni aspetti meno noti di Alberto Sordi, incontro gli autori del film Angelo Quagliotti, Lorenzo Bassi e Franco Longobardi.

Franco, puoi fare un breve resoconto della manifestazione?
«È stato un successo al di là di ogni più rosea previsione. Oltre 160 spettatori presenti, con molti altri, non prenotanti, che non abbiamo potuto accogliere per l’esaurimento dei posti a sedere. Il prestigio della struttura ospitante, il cinema Apollo, una delle storiche sale cinematografiche del centralissimo corso Vittorio Emanuele di Milano, e l’autorevole patrocinio dell’Agis Lombarda, hanno fornito un proscenio di assoluto rilievo al nostro film, ideato per una celebrazione fuori dal coro del decennale dalla scomparsa del grande attore».

Qual è stato il responso del pubblico alla scommessa della vostra proposta in omaggio al Sordi doppiatore e cantante?
ANGELO: «Il riscontro è stato entusiasmante. La sfida si presentava impegnativa e rischiosa. Abbiamo deciso di tralasciare i classici e comodi cliché del Sordi attore e regista, già ampiamente conosciuti dal pubblico e sui quali c’era ben poco da aggiungere. Per attuare questo ambizioso ed originale progetto abbiamo avviato un’approfondita ricerca storico-documentale che ci ha portato al recupero di tanti reperti filmati, da tempo dimenticati o smarriti, che hanno testimoniato la grandezza di Sordi anche con quei panni artistici».

Ma l’originalità della proposta si è fermata ai contenuti?
LORENZO: «No. Anche sulla confezione del film abbiamo deciso di percorrere scelte di forte personalizzazione. Abbiamo voluto evitare un’accademica e stantia elencazione di autonomi contributi filmati che rischiavano alla lunga di essere un po’ fini a se stessi. Abbiamo preferito puntare su un montaggio agile e serrato, sempre ovviamente condotti dal filo rosso della straordinaria voce di Sordi, ordinato secondo una vera e propria sceneggiatura di riferimento basata su di un ironico gioco di accostamenti suoni-immagini, con il gusto del paradosso e del grottesco».

Quali performance di Sordi avete mostrato al pubblico con Come un pisello nel baccello? E perché quel curioso titolo?
ANGELO: «Innanzitutto, il titolo è la citazione di una delle più felici battute de I figli del deserto, uno dei capolavori comici di Laurel e Hardy e vuole metaforicamente sottolineare come la prodigiosa voce di Sordi si trovi a proprio agio in qualsiasi dimensione artistica, esattamente come un pisello nel proprio guscio… ops, baccello. Il film è stato realizzato con inserti filmati tratti da più di 50 fonti, tra lungometraggi, comiche, interviste a Sordi e altri contributi ed è quindi impossibile nominarle tutte. Nel segnalarne alcune, mi piace citare lo stupefacente doppiaggio di Marcello Mastroianni, le avventure al leggio con Anna Magnani e Totò, il professionale doppiaggio di Ladri di biciclette, cult neorealista dal cast interamente formato da attori non professionisti, a riprova che con l’immagine si possono camuffare i limiti della recitazione, con la voce no. Poi le partecipazioni ai capolavori hollywoodiani come Casablanca, La vita è meravigliosa, Ombre malesi, Giungla d’asfalto, Gunga Din, Duello al sole, Fiume rosso; l’unico ruolo da doppiatore protagonista drammatico per Robert Mitchum, il curioso doppiaggio nel canto di Cary Grant, le preziose partecipazioni cinematografiche di Sordi come cantante nei primi anni di carriera e soprattutto il doppiaggio di Oliver Hardy in tante comiche ormai introvabili perché ridoppiate da tempo».

Avete conosciuto personalmente Alberto Sordi?
FRANCO: «Nel 1994 la First National, la nostra Associazione, fu incaricata di avviare contatti con istituti scolastici milanesi per attuare un progetto ideato personalmente da Sordi, con lo scopo di preparare i giovani alla lettura consapevole del messaggio cinematografico, attraverso varie iniziative culturali tra le quali la proiezione dell’ultimo film, a quell’epoca, di Sordi, Nestore l’ultima corsa. Per approntare le prime misure organizzative una delegazione della First National incontrò Sordi più volte. Furono l’occasione per noi, suoi grandi fan, di conoscere meglio e dal diretto protagonista i risvolti meno noti della sua straordinaria carriera. Stupito favorevolmente dalle nostre domande molto circostanziate, Sordi si prestò volentieri a rievocare il proprio passato d’artista. Le rivelazioni contenute nei quiz di “In … soliti ignoti”, pubblicate sul portale di Antonio Genna, il più cliccato in Italia sul mondo del doppiaggio, sono in parte il frutto di quegli esaltanti incontri. Il progetto con Sordi purtroppo non ebbe seguito per inconvenienti sorti fra gli sponsor e i produttori romani».

Sordi è arrivato al doppiaggio quando era già famoso come attore?
FRANCO: «Ti ringrazio della domanda perché posso chiarire un aspetto della sua carriera su cui c’è un po’ di confusione. Alcuni dicono che Alberto Sordi ha fatto il concorso per il doppiatore di Oliver Hardy nel 1936, altri dicono nel 1937. In realtà lo fece nel 1938. Fu lui stesso a confermarlo».

Da chi era stato indetto il concorso?
FRANCO: «Dalla Mgm. Dovevano trovare la nuova voce di Oliver Hardy».

Solo per Hardy/Ollio?
LORENZO: «Sì, perché per Stanlio era già stato scelto Mauro Zambuto, con il quale Sordi farà coppia fino al 1951. In precedenza c’era già stata un’altra coppia, tra il 1932 e il ’38: Carlo Cassola per Stanlio e Paolo Canali come Ollio. Cassola si stava già ritirando e Canali volevano sostituirlo perché non sapeva cantare. C’erano film in cui Oliver Hardy cantava e si voleva mantenere queste canzoni anche nel doppiaggio italiano. E allora si cercò una voce simile a quella di Paolo Canali, che in quegli anni doppiava anche Buster Keaton – questo lo sanno in pochi – ma che sapesse anche cantare. Sordi vinse il concorso soprattutto per le sue doti canore. Nel ’38 doppiò una prima comica e appena 18enne diventerà la voce di Ollio».

Iniziò quindi a doppiare da giovanissimo?
ANGELO: «Certo! Lui faceva credere di avere più di 20 anni, mentre ne aveva appena 18. Da bambino era una voce bianca, cantava nel coro della cappella Sistina. Raccontava con tanta soddisfazione che con questo coro fu chiamato in eventi importanti. Poi, verso gli 11-12 anni, improvvisamente gli si formò una voce da basso. Suo padre era un musicista, suonava il bassotuba e quindi da lui ha ereditato la passione per la musica. Cantava, gli piaceva esibirsi, per cui, faccia tosta, nel ’37 si presentò a Cinecittà, per fare la comparsa in Scipione l’Africano e in Il feroce Saladino. Il cinema esercitava un grande fascino su di lui. Gli piacevano Gary Cooper, i grandi eroi, non desiderava fare il comico. Poi gli capitò l’occasione di cantare per Oliver Hardy».

Mi pare che Stanlio ed Ollio in origine fossero doppiati da degli italo-americani. La Mgm volle quindi mantenere questo accento?
FRANCO: «No, questa è una leggenda. Nel 1930-31 si usava raramente il doppiaggio. Hal Roach girava in presa diretta. Di conseguenza Laurel e Hardy dovevano girare ripetutamente il film recitando in spagnolo, in francese, in tedesco eccetera. In italiano parlavano con un accento fortemente yankee. I film, con queste voci particolari, quando arrivavano in Italia risultavano involontariamente ridicoli.  Ma erano tutti così, non solo quelli con Stanlio e Ollio.  Ricordo un film del ’30 di Raoul Walsh con John Wayne al primo ruolo di protagonista, Il grande sentiero, in cui per la versione italiana fu scritturato un certo Franco Corsaro per il ruolo di protagonista».

Dunque, la carriera di Sordi inizia con Ollio.
FRANCO: «Sì. Vinto il concorso, ebbe modo subito di doppiare. Nel 1939 venne realizzato un collage di comiche, Le avventure di Stanlio e Ollio, naturalmente con la sua voce per Hardy. In una di queste comiche Ollio canta. Per accentuare l’italianità del prodotto si decise di fare una partitura tutta italiana. Si stravolse il testo e la melodia della canzone, tutto rifatto ex novo, tradendo totalmente l’originale, rispettando solo il labiale. Negli anni ’30 l’ideologia fascista voleva che tutto fosse tradotto in italiano. Si voleva inoltre favorire i compositori italiani. Ma Hal Roach non era affatto d’accordo nell’annullare le partiture originali, soprattutto quelle di Marvin Hatley, il suo compositore preferito e più importante,  quello che aveva creato “La canzone del cucu”, il biglietto da visita della coppia. La riscrittura musicale italiana avviene anche nel doppiaggio successivo, I diavoli volanti, il primo lungometraggio doppiato da Sordi. Qui si ha modo di gustare la famosa canzone Guardo gli asini che volano nel ciel, che nell’originale possiede una melodia totalmente diversa. Queste comiche e il lungometraggio furono addirittura bloccate. Nacque, come riferitoci anche dal maestro Virgilio Savona del Quartetto Cetra, la “famosa questione musicale”. Una disputa tra i sistemi distributivi americano ed italiano, per far valere, ciascuno, le proprie ragioni sui diritti d’autore e sui relativi introiti. Ci sarà una contrastata distribuzione italiana tra il ’39 e il ’40. Anche il film I diavoli volanti venne proposto nel 1940, poi ritirato, per ritornare nel ’41 per una serie di brevi proiezioni ma privato della canzone. Infine, riapparve completo nel ’42. Lo scoppio della guerra e l’interruzione dei rapporti commerciali fra i due Stati, consentirà ai compositori italiani di depositare le loro partiture in modo tale da tutelare i diritti d’autore senza ulteriori contenziosi. E tra l’altro queste partiture saranno utilizzate in molti film di Laurel e Hardy, fino alla metà degli anni ’50. I diavoli volanti e le comiche riappariranno nel dopoguerra, senza nessun problema».

Quando arriva il successo per Alberto Sordi?
ANGELO: «Nel ’53 con I vitelloni, ma già dal 1951 aveva intensificato i suoi impegni cinematografici. Infatti dal 1952 lascerà il doppiaggio».

Avete realizzato qualche restauro con il suo doppiaggio?
LORENZO: «Sì. Recentemente abbiamo restaurato due collage di comiche di Laurel e Hardy: Le avventure di Stanlio e Ollio e uno tra i più celebri fatti in Italia, Ronda di mezzanotte».

Teatro, cinema, scrittura: è cultura, non un hobby

Maurizio attore

Dovevo prendere uno di quei treni che io classifico come “diligenze”, un viaggio breve, per il quale non si impiegherebbe più di un’ora se non fosse che la tratta è da annoverarsi tra quelle “maledette”, percorsi strani in cui sembra che tutti gli intoppi del mondo si concentrino. Quindi quel distributore di libretti nella metropolitana di Cadorna mi era parso l’unica cosa bella che potesse capitarmi perché, ne ero certa, da lì a poco mi sarei trovata chiusa in un vagone fermo in mezzo alla campagna, per i soliti imperscrutabili motivi.
La gente si serviva di quegli opuscoli gratuiti con la stessa voracità con la quale abborda un buffet di matrimonio: quando si dice che i libri sono il cibo della mente…

I mini-libri erano le opere dei vincitori del concorso Subway-Letteratura. Fu così che ebbi modo di leggere Craniata terribile, di Maurizio Patella. Un racconto bellissimo, per lo stile e il contenuto, da cui emerge il senso profondo del legame tra uomo e cane. Sono passati alcuni anni da allora, era il 2009, ma non ho dimenticato quel breve romanzo, probabilmente perché appartiene a quel genere di storie che vengono elaborate a livello personale. Cento persone possono dire che un libro è bello, ma per qualcuno sarà più di questo. Ho deciso di rintracciare via web Maurizio Patella, scoprendo così che le sue esperienze nel campo della cultura vanno ben oltre Craniata terribile. È attore di teatro, si è diplomato presso la Civica scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, ha recitato in numerose rappresentazioni, ha interpretato il ruolo di protagonista in Orgia di Pier Paolo Pasolini (votato come Miglior attore ai referendum per i Premi Ubu). È attore di cinema: Come se fosse amore di Roberto Burchielli (2001), Alice e la tempesta di Silvio Soldini (2003), attore protagonista in All’amore assente di Andrea Adriatico (2007). Sul web, per conto dell’editore Perdisa di Bologna, cura la rubrica di teatroOcchio di bue”, il nome in gergo del grande fascio di luce che illumina gli attori sul palcoscenico. La frase che apre il blog «Tutto quello che vi siete persi rinunciando al vostro sogno nel cassetto.» mi dà lo spunto per la prima domanda.

Hai avuto ruoli e riconoscimenti importanti a teatro, sei arrivato anche al cinema, eppure da questa tua frase e da altre affermazioni in rubrica sembra che pensare di vivere di teatro o, più in generale, di cultura, vuol dire troppo spesso chiudere i propri sogni in un cassetto. È così?
«Esiste sempre una forte discrepanza tra desideri e realtà. È inevitabile. A una certa età, non puoi che immaginare il mondo che ti aspetta. Dopo, eccolo, che ti ruggisce in faccia. Purtoppo in Italia c’è l’idea che fare cultura, in ogni sua forma, sia un hobby piuttosto che un lavoro. Invece, è un lavoro. E come tale andrebbe non solo percepito, ma sostenuto. Chiudere i propri sogni nel cassetto significa oggi accettare la realtà: finanziamenti zero. Lavoro, pochissimo. Paghe minime. Tempi di pagamento eterni. Fare cultura diventa un hobby nel momento in cui chi la fa non viene pagato».

In Tv danno il promo di una fiction su RaiUno, gli attori recitano talmente male che mi sento quasi in imbarazzo per loro. Vado a teatro, siamo così pochi che potremmo fare merenda insieme, eppure gli attori sono veramente bravi. E ancora, c’è gente “nascosta” nel web che scrive molto meglio di nomi editorialmente forti. Si può dire sbrigativamente che il grande pubblico predilige la scarsa qualità o c’è qualche altro meccanismo che non permette ai talenti di emergere?
«La cultura, a mio avviso, ha seguito le orme del consumismo. È diventata cultura di massa. Si è voluto lucrare trasformandola in una fabbrica di prodotti come spazzolini, cellulari, barattoli. L’editoria predilige nomi forti, qualitativamente mediocri, perché il grande pubblico – com’è oggi – apprezza prodotti di consumo che ricalchino ciò che già conosce, ovvero stereotipi televisivi, finzione più finta, trame scontate. Il grande pubblico è un pubblico passivo, rimbecillito dagli schermi e ingoia tutto; l’importante è restare comodi sul proprio divano. Comodi e tranquilli. Ma per leggere un libro davvero bello, o per vedere uno spettacolo, un film che abbiano arte in sé non si può rimanere comodi e tranquilli. La cultura, quella vera, vuole smuoverti le viscere. Vuole farti battere il cuore, vuole farti pensare, immaginare. Per questo la cultura, quella vera, non vende: non vende perché non viene promossa. E non viene promossa perché esiste una strategia educativa di rincoglionimento globale idonea a svuotarci il portafogli. Consumismo, si chiama».

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Sei di Genova, hai studiato a Milano e per lavoro avrai certamente viaggiato molto. Quali sono le città che danno più spazio alle varie espressioni artistiche?
«Al momento non saprei cosa rispondere. Ho vissuto a Genova, Milano, Bologna e Roma. Forse Milano è la città che in Italia mi ha offerto di più. Immensamente meno di Londra, Berlino, Parigi».

Non ho mai avuto velleità recitative, eppure ho un “sogno”: spalancare con un calcio la porta, pistola alla mano, e urlare “Fbi”. Tu sei già riuscito a recitare tutti i ruoli che più ti affascinavano o hai anche tu un tuo “Fbi”?
«Ho anch’io un mio “Fbi”. S’intitola Notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès. È un monologo che ho amato molto. Notte, pioggia. Un magrebino francese, ubriaco, appena scampato a un raid punitivo xenofobo. Una tettoia sotto alla quale ripararsi. Un ragazzino sconosciuto, silenzioso, vicino a lui. Tutti e due al riparo dalla pioggia, e del tempo da passare. Inizia così. Consiglio».

Penso che Shakespeare sia uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Tennessee Williams dipinge un’America così disperante che riesce ad infrangere in poche ore il grande mito americano. E sono solo due esempi. Cosa si prova ad interpretare testi tanto potenti?
«Shakespeare è il sogno di ogni attore. Per niente facile da recitare. Prova a dire “Essere o non essere” senza sembrare un pirla! Ma che sfida, che emozione. E la sfida vera è capire fino in fondo quello che dice Shakespeare. Tennessee Williams è certamente un grande autore. Ma molto americano. Molto anni ’40 e ’50. Si riferisce a un mondo che mi emoziona meno».

Recitando si entra in un’altra dimensione. Quando scendi dal palco dopo tanta concentrazione, tensione e immedesimazione, mi sembra di immaginare che tu possa ritrovarti in una specie di zona-cuscinetto tra finzione e realtà. Come vivi questi momenti?
«Una volta era così. Un po’ di confusione, già. E devo ammettere che mi gongolavo di questa confusione. Mi sembrava un indizio di bravura. Più confuso, più bravo. Molto Stanislavskij, UAU! E invece è esattamente il contrario. Se hai fatto un buon lavoro, hai il pieno controllo di te, delle tue emozioni, delle reazioni del pubblico. Da ciò desumo che spesso ho recitato da schifo. Me la cantavo e me la suonavo da solo. Pensa, ho ammorbato tanti poveracci in cerca di svago. Infatti, mi pareva di udire alcune detonazioni di pistola. Mi dispiace, scusatemi, davvero, non l’ho fatto apposta. Oggi, confusione o no, scendo dal palcoscenico e zompetto felice in direzione del bar più vicino. Recitare, tutte quelle battute, mi secca la gola. Anzi, se venite a vedermi e vi ammorbo: aspettatemi a fine spettacolo. Offro io, giuro».

Molti dei racconti vincitori di Subway-Letteratura sono prefati da autori affermati e il tuo Craniata terribile è stato certamente letto da un gran numero di persone. Sono cose che ti hanno favorito nella carriera letteraria?
«Mi hanno contattato un paio di editor di case editrici abbastanza importanti, domandandomi se avevo un romanzo nel cassetto. Qualcosa tipo: Mia sorella è una foca monaca di Frascella. Ebbene, il romanzo non ce l’avevo, allora l’ho scritto e gliel’ho inviato. Una fatica tremenda. Ma il mio romanzo – il mio primo romanzo! – con “foca monaca” non aveva niente a che vedere. Fine della storia. “Il resto è silenzio”, dice Amleto. Poi muore. Vabbè, ci sono rimasto male, ma più che altro per i modi spicci. Poi del primo romanzo, che dire? Boh, magari era robetta, chissà. Comunque sia imparerò a scrivere meglio, tutto qui».

Cioè, fammi capire, sono stati gli editori a chiederti un certo tipo di contenuti e stile?
«Non direttamente. Ma avrebbero gradito, sì. Ci si trova quindi davanti a un bivio: o scrivere quello che si sente, o tentare di essere un clone. È anche vero che molti scrittori sono dei cloni senza saperlo».