Fermati, scrittore, e parlami di te

fabrizio bolivar

Ho già scritto di Fabrizio Bolivar in un mio precedente post, parlando però soprattutto del suo libro Sei a zero. Ma appartenendo egli all’eroica schiera degli scrittori part-time, volevo sapere di più. E non è una cosa facile, perché se arrivi nei loro momenti creativi sei una fonte di disturbo (e se sono part-time, mica gli puoi portare via una part del time), quando ne escono poi non si ricordano più cosa gli avevi chiesto – davvero mi hai chiesto un’intervista? – ma sembrano contenti. Non devi aspettare molto però, perché poi spariscono di nuovo, presi dalle parole, persi in una nuova avventura.  E adesso è qui, a questo tavolo da bar virtuale. Una Coca, acqua o un bicchiere di Lambrusco mantovano… mah, tanto è tutto virtuale, appunto.

E dunque, Fabrizio, chi sei e come ti sei trovato a scrivere libri?
«Lavoro in un’azienda che eroga servizi sul territorio. A Mantova. Un lavoro da impiegato spesso impegnativo, ma troppo spesso noioso e poco stimolante. Il tempo che mi rimane lo dedico al tennis, ai libri e ai film. Ho iniziato a scrivere una quindicina d’anni fa. Quasi per gioco, forse per noia. Ero a casa dal lavoro per qualche giorno, confinato nel mio appartamento dall’influenza. I programmi tv erano inguardabili e i libri a mia disposizione non un granché. Così ho iniziato a scrivere un racconto. La settimana successiva l’ho inviato ad alcuni amici, i quali l’hanno trovato divertente. Quindi ne ho scritti altri, e poi altri ancora».

Da dove trai spunto per scrivere le tue storie?
«Le mie storie prendono spunto più che altro dalla realtà. Ricordi e aneddoti che spesso non hanno nulla a che fare con la mia esperienza personale, ma che mi sono stati riferiti da amici o conoscenti. Anche i giornali sono un’ottima fonte di notizie. Quando noto qualche articolo strano cerco di archiviarlo in memoria per poi magari utilizzarlo se ne capiterà l’occasione (dice di farlo anche Andrea Camilleri, ndr). Invece il carattere e l’aspetto fisico dei personaggi arriva dall’osservazione diretta delle persone che incontro nella vita di tutti i giorni. Dell’autore alla fine rimangono solo alcune riflessioni, generalmente veicolate dal protagonista del romanzo o del racconto».

Quali emozioni ti porta la scrittura?
«La scrittura mi diverte. Molto. Forse la cosa è facilitata dal fatto che in genere tendo a descrivere situazioni comiche. Anche se spesso hanno un retrogusto amaro. È il genere di umorismo che preferisco. Spesso mentre scrivo mi ritrovo a ridere da solo. E poi mi chiedo, ma quello che fa ridere me, farà ridere anche gli altri? Certo che farà ridere anche gli altri, mi rispondo senza troppa convinzione. Se poi la pagina che sto scrivendo mi viene davvero bene, esattamente come volevo io, beh in quel caso mi sento soddisfatto. Invece quando scrivo e cancello, riscrivo e ricancello, giro e rigiro la frase, e poi alla fine mi alzo dalla scrivania e vado a vedere la tv, ecco, in questo caso l’emozione che vivo potrebbe essere sintetizzata con il termine frustrazione. Anche se incazzatura rende meglio l’idea».

Nel tuo libro Sei a zero citi John Fante e nell’intervista che ho trovato nel web nomini il suo A Ovest di Roma, un libro in cui sono incappata per caso e che anch’io ho amato moltissimo. Negli autori che ami di più, trovi una fonte di ispirazione?
«Grande John Fante, il mio scrittore preferito. Ti consiglio Full of life, grandissimo libro. Di John Fante ho letto tutto, anche le lettere. Di certo gli autori che amo sono una fonte di ispirazione. In qualche modo sono condizionato dal loro modo di scrivere, forse anche inconsciamente. Il risultato però devo ammettere che non è a livello dell’originale, altrimenti sarei un fenomeno…».

Secondo te gli e-book sono la grande possibilità per tutti di realizzare il sogno di vedersi pubblicato o proprio per questo è la fine di un’editoria di qualità?
«Tutti oggi possono autopubblicarsi e trasformare i propri testi in e-book. Oppure farsi pubblicare a pagamento. A mio avviso però la realizzazione di questo genere di sogni è di scarso valore, proprio per il fatto di essere alla portata di tutti. Fare un salto di qualità è difficile, ed è l’ambizione di molti, e ovviamente anche la mia. Mi piacerebbe ci fosse meritocrazia nel mondo dell’editoria. Mi piacerebbe che tutti partissero alla pari, che tutti i concorsi fossero imparziali e che non esistessero canali preferenziali per i soliti raccomandati. Insomma, un’utopia. Secondo me comunque la buona editoria non morirà, peccato che per alcuni talenti sarà inaccessibile. Perché tra le migliaia e migliaia di proposte qualche vero talento senz’altro c’è. Ma senza nessuno che arrivi a leggerlo e a valutarlo seriamente quel talento finirà per continuare a scrivere solo per se stesso e per pochi amici. L’unica possibilità per tutti coloro che se lo meriterebbero ma che non hanno modo di farsi notare, è la solita vecchia botta di culo. Almeno quella speriamo non abbia canali preferenziali!».

Venendo alla tua città, il terremoto del 2012 ha gravemente danneggiato i palazzi storici di Mantova e tutti abbiamo guardato inorriditi le crepe di Palazzo Tè con la sua straordinaria Sala dei giganti. Non si era però fermato uno dei suoi eventi di maggior successo, il Festivaletteratura, che esiste dal 1997, e quest’anno Mantova sarà Capitale della cultura. Come si sta preparando?
«Riguardo il terremoto, a parte qualche impalcatura ancora presente e la cupola di un campanile in via di sistemazione, la città si è ripresa. A Mantova gli eventi culturali non mancano. È una città ricca di storia e iniziative. Prima fra tutte, appunto, il Festivaletteratura. Quest’anno di certo la città sarà ancora più viva. Il Comune si sta preparando e credo proprio non deluderà le aspettative».

Non solo Mantova città, però. Il 31 gennaio si è chiusa la X edizione del NebbiaGialla Suzzara Noir Festival, un’altra manifestazione culturale dedicata alla lettura e alla scrittura.
«Suzzara in giallo è un’iniziativa dello scrittore Paolo Roversi. L’ho conosciuto anni fa, e ho letto anche un paio dei suoi libri. Ma il festival non lo conosco».

Per ringraziarti di esserti fermato qui, vorrei augurarti (si possono fare gli auguri a uno scrittore?) di ritrovarti presto con un’altra tua creatura di carta. C’è già qualcosa che bolle in pentola?
«Gli auguri ad uno scrittore sono assolutamente d’obbligo, soprattutto per coloro che come me non sono per niente superstiziosi. Quindi grazie molte. Sto scrivendo un nuovo romanzo. Sarà un romanzo un po’ strano. A mio giudizio però l’idea di base è molto interessante. Posso solo aggiungere che mi devo documentare parecchio. Quindi è un progetto che richiederà molto tempo, del resto me lo posso permettere, visto che non ho nessun editore alle calcagna… Magari ce l’avessi… il romanzo sarebbe finito, rivisto e corretto per mercoledì prossimo!».

Bibliografia di Fabrizio Bolivar
Maledetta Vita, raccolta di racconti, 2004, Fara Editore di Rimini
480 caratteri spazi inclusi, raccolta di racconti brevi, 2006, Compagnia dei Librai di Genova
Autopubblicati con ilmiolibro
Ti lascio le pentole, romanzo, 2011
Vaccaboia che idea, raccolta di racconti, 2012
Microstorie, raccolta di racconti brevi, 2012
Sei a zero, romanzo, 2015

Gianluca Preti, un Indiana Jones a Milano

GianlucaPretiSi dice nemo propheta in patria, ma anche alla patria succede ogni tanto di essere bistrattata. Nonostante il numero ragguardevole di anni che sto accumulando, credo di conoscere di Milano poco più di un quarto di quanto contenga. Per fortuna capita sempre di trovare qualcuno che non attraversa la sua città con il naso raso terra, ma guarda, cerca, studia e divulga. Così, in una gelida giornata di inizio febbraio, vedo per la prima volta la cripta di San Giovanni in Conca e la chiesa di San Bernardino alle Ossa, guidata come si guida uno straniero… o un avellinese, ad esempio.
Gianluca Preti faceva infatti parte del grande Comitato di accoglienza lombardo, nonché della Commissione per il conferimento della cittadinanza padana ad honorem a Carlo Crescitelli, e dunque mi sono ritrovata anch’io ad approfittare della sua sapienza.
Ora Gianluca ha aggiunto un nuovo, interessantissimo video al suo canale YouTube: un filmato sulla Milano dei Templari che accompagna lo spettatore dall’abbazia di Chiaravalle fino al cuore della città. Un documentario a caccia dei simboli disseminati dai Cavalieri di questo Ordine che, per quanto indagati e rincorsi per tutta Europa fino all’America, sembrano sempre sfuggire a quell’unica certezza che definitivamente potrebbe dividere la realtà dalla leggenda.
Altre oscure presenze le trovate alla pagina Facebook Milano Misteriosa

Video Milano misteriosa – Templari a Milano

Tassista, oèèè! Tasso! Tasso! Ma in Centrale non passano più?

leggo

Dario Rivarossa è quel dhr che compare qui in tanti commenti. E soprattutto è l’ispiratore del nome di questo blog: so che in qualche meandro del suo computer esiste una cartella che si chiama Metropolis, dove lui conserva le mie disavventure da Paperino di città. Pare che i miei scritti lo divertano… probabilmente come si diverte Gastone.
Dario è un piemontese espatriato a Perugia, io sto a Milano, così ci si vede poco.
Se la stazione Centrale di Milano avesse ancora le registrazioni di qualche anno fa, vedreste due soggetti che un paio di volte all’anno vagano alla ricerca di un luogo per sedersi, di solito lo trovano sulle ultime gelide sedie rimaste libere al piano di mezzo. Lui è quello alto con la barba. Io sono bassa la metà e non ho la barba. Poi sono arrivati i Frecciarossa e hanno tagliato fuori Milano dalle rotte Firenze-Torino. Quindi niente più chiacchiere in Centrale. Però ci sono le mail. Niente FB o Twitter o che altro, mail e basta. Un carteggio sul sacro e sul profano, sul mediamente alto e sul trivialmente basso.
Personalmente il Rivarossa è questa presenza qui. Ufficialmente Dario “dhr” Rivarossa è: traduttore dall’inglese e dal tedesco, copywriter, correttore bozze, conferenziere, illustratore. Ha scritto e illustrato il libro Dante era uno scrittore fantasy, in seguito tradotto e pubblicato negli Stati Uniti. È poi uscito il suo secondo libro, Nel labirinto del Cybertauro. On line lo troviamo con il suo blog il Tassista, dedicato alle opere di Torquato Tasso.
Personaggio complesso, catturare lui e i suoi mostri e trascinarli qui in Area 51 era ormai diventato inevitabile. E ragionar con lui di linguaggi terreni e alieni.

1/Letteratura

Che cosa ti ha spinto a dedicarti allo studio di Dante?
«La prima edizione della Divina Commedia – illustrata da Doré, ma SENZA note! – che mio padre mi regalò quando avevo circa 10 anni. Cominciai subito a studiarla da autodidatta».

Il tuo blog è quasi interamente dedicato a Torquato Tasso. Parlacene a ruota libera, come un tassista che smarca tutti nell’ora di punta…
«“Ho trovato il mio amòr” tardi, quasi per caso, per una serie di rimandi a catena: da Dante a Blake, da Blake a Milton, da Milton ad Ariosto, da Ariosto a Tasso. E ancora per felice combinazione sono capitate sottomano le sue opere cosiddette “secondarie”: Il re Torrismondo, Il mondo creato, Gerusalemme conquistata, che sono i suoi capolavori, opere sperimentali senza paralleli.
Del Mondo creato sto curando la nuova edizione americana, con il titolo Un(s)even, che verrà pubblicata dall’editore indipendente International Authors. Traduzione a sei mani con la docente universitaria Salwa Khoddam (di origini libanesi) e l’editore stesso, il prof. Carter Kaplan. Con 60 illustrazioni del Magico Trio, un team creato con Eva Nieri/Nivalis e Tiziana Grassi/Selkis».

2/Ironia
Dario usa spesso l’ironia, intesa come una leggerezza di stile che non scade mai né nello scontato né nel superficiale. Cito da Dante era un scrittore fantasy: «La storia del cristianesimo è un torneo a eliminazione diretta» (nota 18, pag. 38). Questo libro esplora un aspetto della Divina Commedia che esce dagli schemi canonici degli studi critici dell’opera. Per riuscire a battere una pista nuova su un lavoro sezionato ormai da secoli, è per forza necessaria una conoscenza approfondita del testo. Ergo, se pensate che sia un libro messo in piedi in qualche modo, vi sbagliate. È un saggio serio ma di facile lettura.

Che cos’è per te l’ironia, e che cosa può apportare a un testo?
«L’ironia è una maschera che rende abbastanza coraggiosi da guardare negli occhi la Realtà, questa figura bellissima e terrificante.
Sul piano “pratico”, permette di smontare gli stereotipi e scoprire interpretazioni alternative».

3/Fantascienza
Dario ha sviluppato una sorta di compulsività nei confronti di questo genere. Una passione che però non è rimasta solo un hobby, visto che ha tradotto molti romanzi fantascientifici (collana Urania Mondadori, solo per citarne un gruppo).

Qual è stato il momento in cui hai capito che forse un alieno ti aveva impiantato un chip? E da quel momento, che cosa ha significato per te la fantascienza?
«Ci saranno stati episodi scatenanti concreti, libri letti da ragazzino ecc., ma direi che la passione “per i mostri” era innata».

Una volta mi hai parlato di una “fantascienza caciarona” che, a tuo avviso,  si è fermata al 1968 col film Barbarella, per poi dare spazio a una più seria, più alla ricerca di significati profondi.
«Sì, ma intendendo l’opposto: da 2001 – Odissea nello spazio in poi, la SF ha cominciato a prendersi troppo sul serio e quindi a diventare meno profonda. Però è in atto un’inversione di tendenza, soprattutto grazie ai film Marvel».

Passato e futuro, il fantasy ha ucciso la fantascienza?
Una mia considerazione su un certo ritorno di musica anni ’80 nelle pubblicità porta a meditare su passato e futuro, una contrapposizione che troviamo tra fantasy (maghi, streghe e Medioevo) e fantascienza (il nuovo per mezzo della scienza). E se questo ritorno al passato non fosse un vezzo vintage ma autentica non-visione del futuro, come se il passato fosse un rifugio sicuro, l’unico posto in cui ancora possono accadere magie?

Secondo te il fantasy sta mettendo in difficoltà la fantascienza: per quale motivo?
«In Italia, perlomeno, il fantasy sta “spianando” la fantascienza. Confesso che mi sono convertito al fantasy anch’io, meglio ancora se con incursioni nella fantascienza, cfr. la Trilogia Spaziale di C. S. Lewis, o Tasso, appunto. Nel finale della Gerusalemme liberata, il paladino Rinaldo indossa la classica armatura fatata; nella Conquistata, il suo sostituto Riccardo indosserà l’armatura high-tech di Iron Man.
Non identificherei il fantasy con una “operazione nostalgia”. Semmai esprime il ri-emergere di energie che erano rimaste soffocate dopo il cosiddetto Illuminismo. Il fantasy ebbe il suo trionfo nel Rinascimento, un’epoca per molti versi molto più evoluta della nostra. E domani, chi lo sa, che sarà?, sarà quel che sarà».

4/Il fumetto
Dario mi invia una quantità industriale di disegni ma di qualità artigianale, perché i suoi mostri sono tutti diversi, nei colori e nelle forme. Di ispirazione teologica, dantesca o manga. Una volta, in risposta a un suo Goldrake, gli dissi che da piccola guardavo Heidi, se per favore non poteva per una volta disegnarmi una rassicurante capretta. Questo fu il risultato:

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«Nego tutto! Era in atto un giro miliardario di falsi-Rivarossa! Ma ora per fortuna il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri ha messo la parola fine a questo ignobile commercio di croste truffaldine».

Come hai imparato a disegnare e che cosa provi quando disegni?
«“Come”? Beh, come tutti. Il problema non è tanto imparare ma “perché si disimpara”. Pensa a quanto era talentuoso il mio nipotino, che ora ha 15 anni e va verso il metro e 85, e ha quasi dimenticato la matita…
La sensazione che si prova è la più gloriosa di tutte: tornare ragazzino, ma con il valore aggiunto di farlo da adulto, e quindi con più esperienze da raccontare graficamente».

L’uomo disegna da che esiste e in tante epoche il disegno ha sostituito la parola scritta. Dai graffiti preistorici alle narrazioni bibliche agli smiles, che a volte è quasi d’obbligo aggiungere perché una breve conversazione scritta non sia fraintesa. È come se l’essere umano non potesse vivere senza disegno. Come vedi il futuro del fumetto?
«È una di quelle cose che ogni tanto l’esperto di turno dà per spacciate. Ed è vero che le vendite crollano anche in America, ma in compenso i film “tratti da” trionfano. C’è posto per tutto, nel mondo; esistono ancora i dischi in vinile».

Disegni di Dario “dhr” Rivarossa

5/La traduzione

Una buona traduzione non è mai pedissequa, perché deve adattarsi alla lingua di destinazione ma nello stesso tempo deve rispettare lo stile dell’autore. Come si trova questo equilibrio?
«Anche qui, si potrebbero sciorinare mille formule, ma per il 90% è istinto«.

Il traduttore prova mai l’insano desiderio di sostituirsi all’autore?
«Ah, oh, beh, ecco, hmm, veram…»

Two is megl’ che one

Joint-venture e divertissement tra esseri diversi.

Quando ho visto su un giornale la foto di Rambaldi con E.T gli ho fatto omaggio di quel fotomontaggio in apertura.

Una volta gli chiesi: «Mi disegni un cane?». Io so che lui ha paura dei cani, e infatti sembra il disegno di uno traumatizzato.

Cane

E poi ci fu la volta della marina: «Mi disegni una scogliera?»«Ok»
E joint-venture fu.
Racconto per un disegno

Racconto_per_un_disegno-1

In poltrona con l’antiviaggiatore

3 / Le Case dei Famosi

Il Vittoriale degli italiani

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(Elena) Questa foto l’ho scattata al Museo della Mille Miglia di Brescia. Ricordo di esserci girata intorno senza trovare l’entrata, che di solito è una porta, più o meno grande ma comunque una porta dove entri a piedi. Invece mi sono trovata al cospetto di un enorme varco, che conduceva ad un ancora più vasto parcheggio. La strada era leggermente in curva e mi sembrava di non vederne la fine ma, soprattutto, mi sentivo fuori luogo, io, a piedi, ad entrare in quello che già solo dall’accesso sembrava un tempio all’automobile. “Verrò investita da una Ferrari, che non potrà immaginare che un pirla di pedone si aggiri qui”, fu il pensiero che mi si delineò mentre camminavo alla ricerca di un ingresso umano. Ma ebbi la mia rivincita: in quel momento ero l’unica visitatrice (d’altra parte, mettersi in marcia nelle ore più calde in pieno agosto non è che sia un’opzione contemplata da molti) e il signore dei biglietti fu felice di vedermi, con o senza macchina.
Ho messo la foto a introduzione perché ho trovato punti di connessione tra il museo e la “Casa del famoso” di cui andremo a parlare. Il primo sta lì: il nome La Rinascente è stato ideato da Gabriele D’Annunzio. Un altro è che questo museo è una celebrazione della velocità, del progresso, del cambiamento. Quasi un inno al futurismo, laddove si intende esaltazione dei motori e dell’evoluzione.

(Carlo) Troppo spesso diamo connotazioni etiche al concetto di “progresso”… i futuristi non lo facevano. E forse a loro modo avevano ragione. Prendi il mondo com’è oggi: ci sono forse meno guerre, tensioni e conflitti sociali, povertà o inquinamento di ieri? No, soltanto maggiore evoluzione tecnologica. E con questo non voglio dire che il progresso tecnologico sia tendenzialmente negativo, tutt’altro, è solo che si muove seguendo dinamiche spesso indipendenti dallo sviluppo della civiltà, come in effetti i futuristi ben sapevano.

(Elena) D’Annunzio e il futurismo non ebbero dei buoni rapporti ma questa magnificazione della tecnica in funzione del dinamismo innegabilmente li accomuna. È un luogo che consiglio vivamente di visitare non tanto a chi ama le auto per come sono intese oggi, scatole di cui non si può più fare a meno nemmeno per andare dal panettiere, nonostante lo smog, nonostante tolgano spazio alle persone. Scatole che più uno si sente piccolo dentro e più prende grosse.

(Carlo) Eh sì, oggi un’auto resta per ognuno di noi poco di diverso da una specie di modaiola armatura che nell’idea delle case produttrici e della pubblicità dovrebbe in qualche modo rappresentare un nostro personalissimo stile (chiaramente anche questo imposto e subito), ed assai spesso un vero e proprio prolungamento metallico di casa nostra… un’immagine molto cyberpunk questa, a ben pensarci, forse sarà il caso che io ci lavori un po’ su, non trovi? Visto che detesto viaggiare in auto e tendenzialmente sconsiglio chiunque dal farlo, potrei magari pensare di scriverci qualche bella storia, su queste nuove incubomobili del nostro presente futuribile, o del nostro passabile futuro che dir si voglia!

(Elena) Sono certa che avresti parecchio da dire, e consigli da dare. In quanto al non viaggiare in auto, purtroppo sai che nei decenni passati il nostro Paese ha investito molto più in strade che in ferrovie, proprio per agevolare il business automobilistico. Ho però scoperto recentemente che Los Angeles conserva nel suo sottosuolo una rete metropolitana completamente abbandonata. La sua gestione era stata data ad un’azienda che produceva pneumatici per automobili… chissà come mai la metro è finita in malora?!
Comunque, questo museo io lo consiglio a chi ama quegli oggetti che hanno stabilito un punto di rottura col passato, che hanno segnato epoche in cui il futuro si sentiva davanti. Non solo auto, ma grafica (tra le altre cose, una lettera autografa di Fortunato Depero, su carta intestata Casa d’arte futurista Depero), vestiti, macchine da scrivere, orologi. Tecnologia ma anche bellezza, ricerca dell’estetica. Scrivere questo pezzo mi ha riportato alla mente una discussione che ebbi da liceale con mia sorella. Non ricordo quale fu il motivo scatenante, ma so che ne uscì una contrapposizione tra le opere di Giuseppe Verga e Ignazio Silone e quelle di Gabriele D’Annunzio, Oscar Wilde e Hermann Hesse.

(Carlo) Quanto ad Hermann Hesse, è suo il più bel libro che abbia mai letto, Il lupo della steppa, nel quale, come già sai, rivedo totalmente ogni dubbio dei nostri tempi tormentati. Se per caso l’hai letto anche tu, forse ricorderai il surreale passaggio della “caccia grossa alle automobili”. I nostri eroi, ad un certo punto della loro erratica vicenda, si ritrovano a dover compiere delle azioni di sabotaggio contro la fantomatica categoria delle automobili, che li perseguita per dei non ben identificati e tutto sommato irrilevanti motivi. Lo fanno con convinzione ed in nome di una loro sorta di ideale di dignità della specie umana, ma poi ad un certo punto il protagonista, il solito Harry, dice: «Possiamo scegliere (…): o (…) massacriamo tutte le automobili che vogliono passare, oppure prendiamo un’automobile anche noi e lasciamo che gli altri ci sparino addosso. È indifferente prendere un partito o l’altro. Io sono del parere di rimanere qui». Ahimè molto moderno ed anche molto futurista, non trovi?

(Elena) Attuale sicuramente, futurista spero di no. Non mi dispiacerebbe in un futuro non troppo lontano poter camminare sul marciapiede senza fare lo slalom o, peggio ancora, senza dover spostarmi per permettere a qualcuno di parcheggiarci sopra.

È già la seconda volta che citi questo libro e, sebbene abbia l’opera omnia di Hermann Hesse, non lo ricordo. Significa che devo andare a riprendere il volume e leggermi questo lupo.
Ma tornando a prima, nel mio delirio giovanile emisi un tremendo verdetto sugli scritti di Verga e Silone: «Non mi interessano le storie di ciffuzzi, per me la letteratura è bellezza, è viaggio fuori dalla realtà». Io amavo (e amo tuttora) l’estetica di Boccadoro, di Dorian Gray, di Ermione che, come un Pan, serpeggia nel pineto diventando quasi un tutt’uno col verde lucido di acqua, o dei nomi altisonanti come Stelio Èffrena. C’era l’esaltazione di una bellezza che non è però da intendersi come quella dei giorni nostri: più che la natura fece il chirurgo. Si cambiano le forme anatomiche a seconda dei dettami della moda, omologando così non solo vestiti e borse ma anche labbra e occhi. È una bellezza vuota, rigida. Quella bellezza invece era l’esatto contrario. Era distinguersi, essere diversi, spiccare nella folla, venire prima degli altri, essere proiettati in avanti. E per fare questo bisogna essere speciali dentro, perché una bellezza solo esteriore colpisce una volta ma si dimentica facilmente. Be’, il Vate era un esteta, un ricercatore, un signore che correva per terra e per cielo, uno che, come diremmo oggi, non si è fatto mancare niente.

(Carlo) Non aggiungo nulla a questo tuo bellissimo ed efficacissimo ritratto di D’Annunzio, che pone nella giusta evidenza tutta l’affascinante, conturbante valenza del suo lavoro letterario e della sua filosofia di vita in genere.

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La sua ultima dimora, il Vittoriale degli italiani, lo testimonia. A partire dalla posizione in cui si erge, di fronte al lago di Garda, che nelle giornate luminose riesce a colorarsi di un blu mare e nelle sere d’estate si esibisce in tramonti lunghi, rossi e azzurri, nel punto in cui ci si è definitivamente lasciati dietro il piatto del Basso Garda per entrare dove le rocce si fanno appuntite e a picco sull’acqua.

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Il Vittoriale è a Gardone Riviera, la provincia è sempre quella del museo, Brescia. Così che se uno volesse permanere ancora un po’ in uno stato di marinettiano brum brum può allungare la strada e vedersi l’Isotta Fraschini, il Mas-96 della Beffa di Buccari e la Nave Puglia.

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(Carlo) Io lo visitai con grande interesse nell’oramai lontano agosto ’94. Ovviamente, considerato il posto, il mio approccio non poté essere che ugualmente e comicamente eccessivo:

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queste vecchie foto, a cui sono molto affezionato, testimoniano di quanto mi sia divertito – come d’altronde spesso faccio ogni volta che mi ritrovo in situazioni particolarmente eccentriche – a scimmiottarne lo spirito con delle buffe pose retrò da me pensate e giocate in palese, evidente contrasto con la mia improbabile tenuta di t-shirt americana stampata, bermuda e sneakers. Come sempre stonata e fuori luogo persino in un posto così bizzarro, pensa te!

(Elena) Quando mi hai mandato queste foto ho iniziato a ridere in maniera incontenibile…

(Carlo) Scherzi e mascherate a parte, quella visita ebbe per me un ulteriore vago senso premonitore… ricordo di essere rimasto incantato, in una delle diverse toilettes della residenza, di fronte alla quantità impressionante di manufatti e piccoli ninnoli di varia provenienza esotica ordinatamente allineati ed esposti sul bordo della vasca da bagno. Uno dei tanti preludi evocativi della mia decisione, una quindicina di anni dopo, di aprire il mio ora ahimè chiuso bellissimo negozio di arte ed arredo etnico…

(Elena) E di questo mi dispiace molto. Sono sicura che ad Avellino il tuo negozio mancherà, così come ad ogni città mancano gli spazi che era abituata a vedere e che non ci sono più.
Non va perso comunque di vista che Gabriele D’Annunzio era in primo luogo poeta, scrittore e drammaturgo. Lasciò il suo segno anche nel cinema pionieristico d’inizio ’900 firmando le didascalie del film Cabiria del 1914, con la regia di Giovanni Pastrone. Personaggio discutibile e ridonante, nello stile di scrittura come in quello di vita. Ma questo non è un saggio critico, solo il racconto di un itinerario in un pezzo di Italia bella di una bellezza perfetta, quella del volto, del cervello e della sensibilità artistica.

(Carlo) Una doverosa precisazione: saltando, come giustamente in poltrona si conviene, da un argomento all’altro ed all’altro ancora (ma con me succede sempre anche quando siamo in piedi!), intanto dei famosi di cui nel titolo e delle loro relative case sin qui abbiamo parlato davvero un po’ poco, anzi diciamoci pure che sinora abbiamo parlato di una sola casa di un solo famoso… vorrei provare a rientrare in tema ed a riequilibrare la bilancia dando qualche cenno sulle case di altri tre di loro, oltretutto potenzialmente infestate o infestabili come nella scorsa puntata avevamo promesso e neanche abbiamo mantenuto. Vabbè. Quindi procedo.

(Elena) Mah… veramente il fatto dei fantasmi l’hai pensato tu, che hai una mente fervida. In fondo queste persone non hanno nemmeno bisogno di sprecarsi in bizzarre manifestazioni. Attraverso le loro opere sono già da sempre concretamente con noi e ci resteranno per chissà quanto tempo. Potremmo magari dire che questo è un suggerimento semiserio per un itinerario che percorre l’Italia da Nord a Sud, per poi spingersi Oltremanica e Oltreoceano. Oppure chi legge può partire da qui per andare alla ricerca della casa del suo mito letterario.

(Carlo)

Casa di Victor Hugo, Avellino

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“Qui dimorò fanciullo dal gennaio al luglio 1808 prima di ascendere ai fastigi della poesia del romanzo del dramma schiudendo l’anima ignara sognante ai dolci indimenticabili incanti della terra d’Irpinia e ai primi sensi di umanità di giustizia per le miserie del mondo”

Questo si legge sulla lapide di uno dei tanti edifici risorgimentali della mia città, Avellino. Il palazzo in questione fu breve dimora temporanea dell’allora governatore napoleonico Leopold Sigisbert Hugo, padre del celeberrimo Victor, ed è stato e resta una vera e propria icona di stile romantico per generazioni di avellinesi, più che altro per l’atmosfera misteriosa e cupa che permea le sue ancora in parte deserte sale.

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Non più tardi di qualche settimana fa, mi ci sono ritemerariamente avventurato. Trent’anni fa lo feci perché voleva farlo una lei, con il rischio che la struttura, fatiscente dopo il sisma, potesse seppellirci crollandoci addosso. L’altra sera invece il problema era che avevo lasciato il telefonino a casa e non avevo detto a nessuno, ma proprio a nessuno, che ci sarei passato (dovevo lasciare un dvd sotto la porta chiusa degli uffici di Alliance Française). Se mi si fosse bloccata qualche porta alle spalle la polizia avrebbe potuto cercarmi per giorni, mentre io, seppellito stavolta nell’oblio di quelle stanze vuote e semibuie, di Victor Hugo avrei certamente letto tutta l’opera omnia in lingua originale, così tanto per passare il tempo durante le loro affannose ricerche. Quando finalmente me lo sono trovato davanti, il Vate di Francia (il busto, non il fantasma, anche se in realtà poi ero appena uscito da una bislacca conferenza sui fantasmi nel vicino teatro comunale, una cosa demenziale tra Dan Brown, Da Vinci’s Demons e il Doctor Who) quando ce l’ho avuto davanti, dicevo, ho tirato un sospiro di sollievo, e pensato che… questo post sulle case infestate dei famosi allora andava finalmente prendendo forma!

Casa di Howard Phillips Lovecraft, Providence

Della sua triste città, e delle case abitate dal celebre solitario di Providence, esiste già un mio bel post pubblicato su Non Solo Turisti, basato su di un’altra delle mie rocambolesche, caparbie e pericolosissime visite, e del quale a questo punto non posso far altro che consigliarvi la lettura senza altro aggiungere: Il solitario di Providence: un maestro dell’horror (in)dimenticato.

Casa di Sherlock Holmes, Londra

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È un famoso Sherlock Holmes? Sì! È un personaggio realmente esistito? E voi che ne dite? A me piace pensare di sì, e non solo a me, stando alla elaborata, garbatissima piccola truffa messa in scena dall’amministrazione londinese con la creazione di una sua superfalsa casa/museo, ovviamente in Baker Street, civico 221 B. Eccone qui l’ingresso, come di dovere (falsamente) presidiato da Scotland Yard.

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L’abitazione, in realtà una pensione storica rimasta in uso fino agli anni trenta del novecento, è meta di appassionati da ogni parte del mondo, ma soprattutto da Italia e Giappone, che trovano deliziati al suo interno accurate ricostruzioni di tutti gli ambienti e le vicende narrative che hanno visto come protagonista il grande e strafottente detective partorito dalla fervida mente di Sir Arthur Conan Doyle. E a questo punto, giusto per lasciarvi con l’acquolina in bocca, io rimanderei ad una prossima occasione dettagli e curiosità del mio demenzialissimo recente pellegrinaggio… come un ennesimo enigma da risolvere, no?

(Elena) Da parte mia, per tutti gli appassionati del genere, aggiungo solo questa foto di un pub di Edimburgo dedicato al celebre scrittore.

Edimburgo 28-8-12 9

(Carlo) Frattanto questa serie di “In poltrona con l’antiviaggiatore” per il momento termina qui, grazie Elena per la graziosa ospitalità ed i tanti preziosi stimoli alla discussione, grazie lettori per la vostra benevola attenzione, e… a reincrociarci prossimamente, magari fuori da poltrone e salotti stavolta!

(Elena) Grazie a te per la tua adesione “senza se e senza ma”. Chissà che un giorno, in qualche parte d’Italia, un bar reale non diventi il luogo per una carrambata!

In poltrona con l’antiviaggiatore

2 / Music makes the world go ’round

cornamuse

(Elena) La prima foto a sinistra è tua, Carlo, e ritrae un suonatore di cornamusa a Lerwick. La seconda è mia, band nel centro di Edimburgo. Entrambe sono del 2012.
A me la musica piace, e anche tanto, ma difetto di cultura musicale. Non sono tra quelli che frequentano i reparti world music Fnac (a proposito, ho visto di recente che la Fnac di via Torino a Milano è stata chiusa. La settimana prima ho visto che una panineria è sorta sulle ceneri di un’altra storica libreria in via Moscova, requiem per tutte le librerie di Milano) o Mondadori o che ascolta musica classica o lirica. Fruisco della musica come un bambino del Nesquik: deve arrivare e basta, senza grandi se o ma. Quindi avevo le mie remore ad interagire con Carlo, che di musica se ne intende davvero. Gli avrei totalmente ceduto lo passo, ma lui ha trovato delle buone argomentazioni per farmi cambiare idea.

(Carlo) Esiste un luogo comune nell’ascolto della musica, che è quello di valutarla, più che per quello che è, per quello che rappresenta, ad esempio dal punto vista storico, geografico, politico, sociale, ideologico etc. Pur senza voler tralasciare l’importante valenza della contestualizzazione artistica, che ne agevola senz’altro molto la fruizione e l’intellezione, mi permetto tuttavia di spezzare una lancia a favore dell’ascolto puro, semplice ed istintivo.

(Elena) A proposito di un genere musicale, mentre hai dovuto ricrederti, almeno per quanto mi riguarda, sul fatto che le donne non amino il Nord, trova invece riscontro quanto riporti a pagina 51 del tuo libro Come farai a fuggire da  te stesso… se lui continua a correrti dietro?!? : (…) «come immaginano bene anche  tutti i maschietti ai quali si illuminano le pupille ogni volta che parlo loro di viaggi polari fatti o da fare (come dite? le femminucce? no, alle femminucce non piace il Polo, è come in quella canzone di Paolo Conte, che fa “le donne odiavano il jazz, e non si capiva il perché”.»

(Carlo) Giusto a proposito di jazz, ma anche di musica in genere… c’è un bel passaggio del mio libro preferito di tutti i tempi, Il lupo della steppa di Hermann Hesse: quello in cui il protagonista, il timido ed impacciato Harry, incontra ad una festa Pablo, ambiguo e disinvolto saxofonista, nonché probabile amante della sua fiamma Erminia. Nel  desiderio di impressionare il suo interlocutore e rivale, Harry si lancia in erudite dissertazioni sulla storia e sui significati del jazz, ma l’altro lo interrompe bruscamente rispondendo che il jazz non lo conosce né lo commenta, perché si limita volentieri a suonarlo. Poco dopo, Erminia invita Harry a ballare al suono della musica di Pablo e, al suo cortese diniego causa inesperienza sulla pista, anche lei argomenta polemica che Harry in realtà sa fare cose di gran lunga più difficili che ballare… e che l’unico motivo per cui ora non ci riesce è perché non ci ha mai provato sul serio come invece avrebbe dovuto e dovrebbe. Ecco, queste poche battute secondo me esprimono bene quello che potrebbe essere il giusto approccio attivo alla musica: viverla al di là di “capirla”.

(Elena) Però suoni, organizzi eventi musicali, riporti dai tuoi viaggi strumenti ed esperienze e su Youtube hai creato la playlist World Music, dove, niente meno, i video hanno i titoli “Coro polifonico (su sfondo policromatico)”, “Fiaba inuit”, “Reggae brasileiro”, “Chitarra manouche”. Direi quindi che c’è comunque una formazione musicale di fondo, un desiderio di approfondimento e ricerca.

(Carlo) La musica, come tutte le cose, l’attenzione se la deve conquistare sul campo, e dunque ogni giudizio vale l’altro, non esistono esperti, ma solo appassionati. Personalmente, posso dire di amare ed in qualche modo seguire ogni tipo di musica (o perlomeno quasi). E quelli che non mi piacciono, o che mi piacciono meno, non te li dico per non scadere nel gossip. Come formazione ed estrazione musicale vengo dal rock progressivo (che ascoltavo molto da ragazzo), dal jazz-rock (che suonavo da ventenne), e dall’elettronica (che mi ha sempre affascinato per le sue potenzialità apparentemente infinite). Ma ciò non vuol dire che abbia disdegnato il resto, e tuttora penso che non è tanto importante il mezzo di espressione, lo stile musicale, quanto piuttosto le capacità espressive dell’artista, il suo sapersi proficuamente relazionare col mondo che di volta in volta lo circonda.

(Elena) Provo a pensare alla musica in relazione con il mondo. Effettivamente ci sono delle canzoni che io definisco “musica da viaggio”. Per me è sempre stato così: esiste musica da ascoltare come sottofondo mentre fai altro, ed è quella che mi piace meno, la sento, non l’ascolto. Poi c’è la musica da divano, che è quella che piace ma è legata a un senso di staticità. E poi c’è la musica da viaggio, appunto, che è quella che accompagna da una meta all’altra, è quella che ha il senso del moto, o della riflessione dentro al moto.

(Carlo) A me piace molto muovermi anche bruscamente da un universo musicale all’altro anche nel corso della stessa giornata: adoro la raffinata spensieratezza dei grooves di Lorenzo Jovanotti così come posso facilmente calarmi all’interno di contesti di musica classica contemporanea, concreta e dodecafonica, in realtà sono affascinato dalle timbriche, dalle sfumature del suono più che dalla sua composizione armonica. E ovviamente mi piace tanto la musica etnica, più tribale è meglio è, ci si scoprono sempre figure ritmiche e assonanze inusitate ed affascinanti. La mia discografia, che sembra quella di uno schizofrenico, sconcerta i più, così come anche le mie scelte di concerti, nelle quali privilegio artisti poco conosciuti che possano sorprendermi.

(Elena) C’è anche un altro aspetto della musica, che non so se è comune a tutti. Quando ci rifletto, mi viene da chiedermi se sia una questione generazionale. I video musicali ci sono probabilmente dagli anni ’60, forse i pionieri sono stati i Beatles?

(Carlo) Direi senz’altro di sì. Per me i veri antesignani dei video moderni sono proprio i favolosi minuti di cartoon  del vecchio fan movie di Yellow Submarine! Pensa te che la title track è diventata addirittura l’inno della squadra di calcio della mia città!

beatles

(Elena) Sono quasi certa però che l’esplosione c’è stata negli anni ’80, quando si è passati dal pensare che una canzone poteva essere accompagnata da un video al  “una canzone deve essere accompagnata da un video”. La radio, il disco non bastava più. C’era una trasmissione che aveva fatto epoca, Mister Fantasy, condotta dal biancovestito (e veramente carino) Carlo Massarini.

(Carlo) Eterosessualmente concordo! Pensa te che non so perché ero in qualche modo convinto di assomigliargli un pochino… idea che dovetti mio malgrado abbandonare dopo averla sottoposta a qualche verifica, ed averne sempre ricevuto riscontri tra il perplesso e il divertito…

massar-carlo

Ad ogni modo, giudicate da voi: a sinistra Carlo Massarini, a destra Carlo Crescitelli. Ora magari proprio in queste due foto qui – le prime che ho recuperato in archivio senza pensarci più di tanto – la nostra pur notevole rassomiglianza non balza troppo immediatamente all’occhio, ma comunque l’espressione è un po’ quella, no? O no?

(Elena) Direi che si fa fatica a distinguervi…ma proseguiamo. A quei tempi un programma solo di video era una cosa mai vista. Poi è stata la volta di Videomusic, un intero canale televisivo solo per i video, con Rick e Clive, due personaggi assolutamente nuovi che parlavano un linguaggio nuovo. Insomma, le canzoni non esistevano più solo a livello di udito ma prendevano anche lo spazio degli occhi. E come non riconoscere che certi video erano dei piccoli gioielli cinematografici?

(Carlo) Però! Per essere una che dice che di musica non si è mai interessata ne sai di cose in materia!

(Elena) Forse il connubio musica/immagini che ha plasmato il mio cervello adolescenziale è il motivo per cui la musica che più mi è cara è quella che mi suscita delle sensazioni visive. C’è musica gelida di paesaggi nordici, c’è musica calda di deserti giallo-arancioni o di fieste spagnole, c’è musica di paesaggi visti da un treno, c’è musica di mare. Ecco come la musica si unisce al viaggio e non è necessario intraprendere fisicamente un viaggio per vivere quello spostamento.

(Carlo) È un po’ meno la mia esperienza, essendo io nato e vissuto in epoca preistorica agli ’80, nel Pleistocene dei favolosi Seventies…  e qui ti scodello un altro luogo comune, uno di quelli a cui credo ancora però, e cioè che  la musica sia sempre meglio a Sud che a Nord, e che la qualità di solito peggiori man mano che ci si allontana dall’Equatore: sarà vero? Occhio che anche qui ci sono almeno due doverose eccezioni…

(Elena) Eccezioni? In relazione alle foto sopra, mi sento di dover ringraziare il Regno Unito (e gli Stati Uniti, of course) perché deve essere stata la loro totale disponibilità nei confronti del fare musica ad avergli fatto fare tanta strada in tutto il mondo…

(Carlo) Esatto, brava bravissima, eccoli qui i due paradisi musicali in terra! Come vivremmo senza di quelli? Ed anche, lasciamelo dire, cosa ne sarebbe a questo punto di loro, senza di noi, senza la nostra ammirazione musicale e non?

Per strana coincidenza, mentre scrivevamo questo pezzo la travelplanner Arianna Serra ci ha inviato una mail per comunicarci il suo esordio radiofonico con una rubrica che si occuperà di viaggi e musica. Arianna sarà in streaming tutti i mercoledì, intorno alle 11.15, sul sito di Radio SkyLab.

Ci vediamo alla prossima puntata con le Case dei famosi. Stay tuned!