Le notizie che non vorresti leggere

Questa è solo l’ultima di una lunga serie di chiusure. Come primo pensiero mi viene che lo spazio lasciato libero sarà riempito dall’ennesimo venditore di cibo e bevande. Giusto per non venire meno all’idea ormai consolidata che a Milano puoi mangiare a qualsiasi ora.

Poi mi viene un altro pensiero, che magari non ha senso, perché magari troppi pensieri vengono solo in questi mesi in cui la vita viaggia a scartamento ridotto. Può esserci un nesso tra la cancellazione di questi luoghi della cultura e quegli occhi spenti che popolano le notti di tanta inutile violenza, di una ribellione che non ha nulla di ribelle perché è solo un uniformarsi alla massa? Può essere, banalmente, una questione di numeri, una sproporzione evidente tra l’offerta di attività commerciali? Se ci fossero 100 librerie e 50 bar, può essere che qualcuno di quegli occhi spenti torni a riaccendersi per qualcosa che a loro appare nuovo?

La lingua muta… e si contrae

Leggo un pezzo in cui si parla di Doa. Visto il contesto, capisco solo che è un acronimo che appartiene alla scuola. Faccio una ricerca, tra i primi risultati: «I doa non sono l’ofu». Ah ecco, adesso è tutto più chiaro. Sento un certo dispiacere perché una volta i mondi linguistici quasi a sé stanti appartenevano solo ad alcune categorie, mai a qualcosa di intrinsecamente aperto come la scuola.

In una mail: La human-centered AI, unita all’approccio human in the loop, è la vision che dovrebbe ispirarci. Per quel che ne so, l’iuman in ve lup è quello in cui si cade quando si cerca di parlare con un call center.

Qualche sera prima avevo provato un altro dispiacere: esiste un’app per quelli che sciano che mostra loro sullo smartphone la pista che stanno per fare. Effettivamente, per quelli che si lanciano giù come razzi può anche essere utile sapere prima dell’albero malefico, ma per gli altri? Perché uno dovrebbe conoscere prima togliendosi il gusto dell’esplorazione? Questa app se esiste avrà pur un suo perché, il dispiacere sta nel non comprenderlo.

Ecco, io a volte ho l’impressione che il tutto aperto si stia scomponendo e ricomponendo in pezzi chiusi in se stessi.

Forse è per quello che mi piacciono i murales, anche quando sono solo scritte pasticciate, mi sembrano un grido ben preciso, una forma di comunicazione meno criptica di qualunque altra, anche quando manca loro qualche lettera…

Piuttosto che niente anche la tartaruga

L’irrefrenabile impulso della maggior parte delle persone è quella di rompere le scatole a qualcun altro. Sempre, o solo qualche volta nei casi più miti, dobbiamo esercitare il nostro potere su un altro vivente. Di solito è uno con le nostre sembianze, ma se proprio non ne veniamo a capo allora ci accontentiamo di altro. Quale soggetto migliore di una tartaruga che non parla, non emette versi e la sua capacità di offesa o fuga è alquanto ridotta?
Ieri mi trovavo in un bel giardino condominiale, era domenica, il sole splendeva, i colori dell’autunno rallegravano la vista, una condizione di pacificazione. Macché, nulla è mai sufficiente. Un paio di tartarughe se ne stavano per i fatti loro sotto a delle pietre. Forse già in letargo o solo a farsi un pisolo. Arriva una e le tira fuori a forza, sostenendo che non è ancora il momento del letargo (lo sa meglio di loro, ovvio), e gli caccia la faccia nel piattino con le carote e l’insalata. Dovete mangiare, ordina in tono imperioso. Io resto a guardare perplessa e sconsolata. Le tartarughe soffrono di anoressia? O di depressione? O sono colpevolmente pigre? Non sono in grado di regolarsi circa il sonno? Ci avranno messo due ore ad arrivare là sotto e ora dovranno mettercene altre due per tornarci. Neanche questo pensiero è bastato a fermare la bipede. Ma perché, così, d’emblée, una scende di casa e va a rompere le scatole a delle tartarughe? Perché è così che funziona il nostro cervello.

Quei gran geni dei pubblicitari

Non so chi l’ha detto ma sicuramente aveva ragione: la pubblicità serve a ingenerarti bisogni che non hai. La prima in questione non è un vero e proprio bisogno quanto un far leva sulla situazione psicologica in cui versano le madri bombardate da nefaste notizie sulla pericolosità di alimenti e sostanze in essi contenuti e dei contenitori che essi contengono. Il creativo ha ragione, ma non ha considerato che lo spot a un adulto non coinvolto nella medesima situazione psicologica suscita un’ironia che cinicamente cancella le idilliache immagini del rapporto madre/bambino. Lo slogan «Mamme tranquille, bimbi felici» fa venire in mente che i bimbi sono finalmente felici perché non vengono più pressati dall’ansia materna che esplode ogni volta che il piccino mette in bocca elementi esistenti in natura non bolliti e sterilizzati. Con quella bottiglietta a misura di manina, con un tappo speciale, con dentro bevande ipercontrollate, la mamma si cheta e non rompe le scatole. Però l’adulto si pone anche un quesito, relativamente alla sola acqua minerale: ma se quella è ipercontrollata e ipersicura perché destinata ai bambini, allora nella bottiglia grossa destinata all’adulto grosso ci metti l’acqua come viene viene? Ovvio che no, stessi controlli per bottiglia e acqua, anche perché può esserci sempre una madre poco accorta che riempie una bottiglietta con quell’acqua lì della bottiglia grossa. Però è rassicurante convincersi che fanno l’acqua solo per i bambini.
Ma se ci fosse il Nobel per i pubblicitari non avrei dubbi: lo darei a quello dei baby hair. La prima reazione stralunata è: what’s baby hair?! Non ci vuole molto ad arrivarci: sono capelli bambini, e quindi, qual è il problema? E uno inquadra meglio la situazione: quando mi lavo i capelli vedo in controluce che spara fuori qualcosa, non è che ci faccio molto caso, spazzolo, se voglio, spara fuori lo stesso, e pazienza, non è un alien che mi sta uscendo dalla testa, sono solo capelli più corti, come è ovvio che sia, mica crescono tutti insieme a comando. Però, accidenti, che si chiamassero baby hair non ci avevi mai pensato, ed ecco che ci mediti e la tua immagine riflessa nello specchio inizia a trasformarsi nella tua mente, le cose che sparano fuori hanno un nome, e la tua immagine non è più quella di una persona con i capelli ma di un leone che si è dato una scrollata di criniera, eh, però al leone sta bene la spettinatura, allora sembro un bobtail passato per le mani di un toelettatore principiante, e questo è peggio perché i cani vivono con noi, non in mezzo alla savana, si possono fare paragoni, vuoi mai che qualcuno ti dica: come mai hai tutti quei baby hair? E dopo notti insonni e vani tentativi con lo shampoo disciplinante (secondo Nobel a chi ha inventato questo termine) capisci che devi assolutamente avere il phon che «nasconde i baby hair». Un nascondimento la cui durata sarà quasi certamente proporzionale al tasso di umidità e alla quantità di vento del posto in cui vivi, ma fa niente, vuoi mettere aver risolto il problema esistenziale dei capelli bambini?