3/Cesare Pavese aveva ragione

«Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.»

«Posso saltare? Lo fanno anche gli altri bambini, posso saltare?» La risposta è un grugnito perché la mamma sta ritoccando le foto che deve assolutamente rendere pubbliche mentre suo figlio sta rischiando di rompersi una gamba. Sento che quel bambino ha già qualcosa di rotto perché una madre, un padre che non ti guardano, non ti rispondono, e proprio mentre tu stai misurando te stesso, ti fa sentire solo, di valere meno di un telefono.

Inverti i fattori, il risultato non cambia. Giù sulla scogliera un pastore tedesco di incantevole bellezza cammina sui sassi, ogni tanto li sposta qui e là, li fa saltare in aria e poi guarda il padrone. Ma quello gli volta le spalle, sta col muso appiccicato allo smartphone. Un bambino solo, un cane solo, esseri vivi e veri in uno spazio vivo e due cretini persi in un mondo artificiale.

Sulla rotta di Ulisse

I pensieri schizzano come palline in un flipper toccando ora questa ora quella meta: Irlanda, Marsiglia, Lisbona. Troppo cara, troppo calda, troppo questo o quello. Le partenze sono intelligenti solo quando niente dentro ti trattiene. Il flipper fa Game over su Gaeta, anche perché c’è la possibilità di rivedere vecchi e vecchissimi amici. Riguardarsi in faccia dopo anni non ha prezzo. E così Gaeta sia, là dove approdò anche Ulisse.

L’impatto non è positivo. La spiaggia più bella di Gaeta, Serapo, è totalmente occupata da spiagge private. Impedire a una milanese anche solo di appoggiare lo zaino per entrare nel mare che sogna da un anno può finire che quella ti impartisce una lezione sul diritto del mare, oppure che cammini nell’acqua con le braghe tirate su imprecando come un camallo. Ma provvidenzialmente arriva la notizia di una spiaggia libera. Se vuoi prendi l’attrezzatura, se no te ne stai lì libero. E quindi se andate a Serapo, andate al Cicas, perché il mare è e deve restare di tutti.

Il giorno dopo è dedicato a capire come fare ad andare dove si deve andare. Con sconcerto scopriamo che le paline dell’autobus esistono ma non recano né la destinazione né gli orari. Quelli della Cotral almeno, perché le fermate dell’altra compagnia non hanno neanche le paline. Il sito Cotral dice di inserire il numero della fermata per sapere quando arriva il bus ma la fermata non ha numero. Allora inserisci la via dove sei o una limitrofa, e ti dice che è inesistente. Il camallo ricomincia a inanellare insulti sempre più complessi. Poi però ci si riesce, soprattutto grazie ai conducenti a cui tocca fare anche da servizio informazioni, che però sono gentili, quelli di Milano si sarebbero già attrezzati con una carabina.

Il secondo giorno il caldo è scemato, il mare si è infuriato, l’animo si è chetato. Mi sono fatta una ragione delle paline mute, mi hanno lanciato spaghetti con le vongole, mi hanno dato una spiaggia libera a due passi da casa e tutto appare più limpido, come il golfo di Gaeta dopo che la calura è stata spazzata via.

Per la gita in barca alla Grotta del Turco, Montagna spaccata (la chiesa “incastrata” tra la fenditura è intitolata a San Filippo Neri) e Pozzo del diavolo siamo alla mercé del volere di Poseidone, che ci farà attendere fin quasi agli ultimi giorni. Due ore di bellezza, si vede anche Ischia e, nelle giornate particolarmente limpide, il Vesuvio.

Intanto si prendono schiaffoni dal mare (forse è per questo che hanno una pasta che si chiama schiaffoni), si va a Formia, a Gaeta medievale, e proprio qui si viene invitate a cena, che ti conquisti solo dopo un’infinita sequenza di scale, che girano a destra e a manca tra vecchie mura che si aprono sul panorama del mare o su chiese ed edifici, alcuni rimessi a nuovo, altri con il fascino del fatiscente.

«Posso abbracciarvi?». Una frase che una volta neanche pronunciavi e che ora porta fuori il segno che ci ha lasciato dentro la pandemia. «Quanti anni sono che non ci vediamo?» «Quattro anni a settembre». Ed eccoli lì, Carlo e Giuliana, che li posso abbracciare veramente.
Andiamo nel delizioso borgo di Sperlonga, alla villa di Tiberio,

poi su fino a Itri, passando davanti al monte a cui mi ero già affezionata dal treno Roma-Formia perché così brullo mi ha mosso a tenerezza, e giù a Formia e ritorno.

Ritrovo in Giuliana la solita grazia e in Carlo la solita capacità di trasmettere allegria, che raggiunge l’apice quando si fissa su un obiettivo, tipo la ricerca di espadrillas e panama. Non tutte le cose possono stare dentro a pochi caratteri, la gioia di questa giornata è una di quelle.

Nascosta, tanto che se non te lo dicono non la vedi, c’è via Indipendenza, 1,5 chilometri di negozietti e viuzze in cui si apre una piazzetta, intitolata alla scrittrice Goliarda Sapienza e dedicata alla poesia.

La proprietaria di un bar ci legge con pathos alcune poesie scritte da un novantenne gaetano, ci racconta di qualche personaggio sopra le righe che popola il suo locale, che il giovedì diventa un caffè letterario. Tra tanta poesia non manca qualche burlonata.

Lasciare il mare è sempre una ferita, quante cicatrici dobbiamo avere dentro noi non costieri. E Roma sembra un po’ averlo capito, con le sue strade grandi, tutta quella storia che spunta ovunque, persino al limitare della ferrovia, là dove le altre città raramente si presentano con il vestito della festa, i suoi pini che «la vita non li spezza». E anche con la sua crostata di marmellata di visciole che non sapevo cosa fossero.

Solo un paio d’ore di fermo, San Giovanni in Laterano, una battuta coi poliziotti del metal detector: metta, metta la borsa, o ha una bomba? No no, non ho bombe.
Ma quella sono io! Quando leggo senza occhiali da vicino, quando penso: ma che ha scritto questo?, quando faccio una domanda a risposta multipla e mi rispondono ok. Io e san Matteo siamo entrati in sintonia.

«Qui non arriva la musica»

A questo punto avrebbe dovuto esserci il video con le foto e la musica inedita. Per ora niente colonna sonora, quindi niente video, ma arriverà, se slow hand non mi arronza arriverà. In attesa dei giri di basso, giro cantando «Se questa è l’ultima canzone e poi la luna esploderà, sarò lì a dirti che sbagli, ti sbagli e lo sai, qui non arriva la musicaaaa…».

Attaccati al tram! / 1

A Milano i tram hanno una doppia faccia: se hai fretta ti fanno venire l’orticaria, sono lenti, impossibilitati a scartare, e per questo devi anche mettere in conto qualche rimbambito che parcheggia fianco rotaia. Ma se vai a bighellonare ti senti un turista. Sferragliano da periferia a periferia passando nel centro e tu te la sfanghi, seduto a guardare fuori come su un City Tour, come su una giostra quando scampanella e, dio santo, quanto scampanellano i tramvieri di Milano.
«Che c’è di strano, siamo stati tutti là». Nei posti clou sì, ma negli altri il milanese va se ci deve andare. Però in certi posti ci torni di quando in quando perché ti piacciono. Per me uno di questi è corso di Porta Romana. E quindi si prende il 16 a San Siro. So di aver ammorbato miei eventuali compagni di viaggio con una canzone per quel luogo lì: Andremo a passeggio per le strade del centro fino a piazza Navona, Com’è triste Venezia, Ricordi quelle sere al Valentino? Genova, dicevo, è un’idea come un’altra. E se io mi trovo proprio sotto San Siro, non posso che ragliare per nascondere l’emozione di questa canzone: «Guardi non posso, io quando ho amato, ho amato dentro gli occhi suoi».
Tornando alle cose pratiche, da San Siro si “clanga” sulle rotaie fino a via Orti, per andare a vedere un luogo restituito a Milano: il Giardino Horti, con relativo complesso residenziale tratto da un ex convento.

Non è una cosa stupefacente, a dir la verità, il giardino forse per via della stagione e il complesso nel suo complesso non è poi sto granché a livello estetico.
Si torna sul corso con meta il civico 113 dove l’artista Cheone ha dipinto questo splendido murale.

Foto da MilanoToday

Invece mi trovo di fronte una parete totalmente gialla, il murale è sparito. Non trovo alcun senso a questa tabula rasa e riprendo il corso bofonchiando e canticchiando Porta Romana bella. Solo al ritorno mi accorgerò che dall’altra parte del marciapiede c’è quest’altro murale, non brutto ma neanche tanto bello.

Il ritorno da dove? Da piazzale Lodi. Attraversatolo, sembra di essere approdati a un’altra latitudine. Giovani individui in maglietta, prendisole, pantaloni corti. Va bene che non ci sono più gli inverni di una volta ma è pur sempre febbraio. Correndo dietro a quest’altro murale,

mi ritrovo immersa nella lingua inglese e tutto si fa più chiaro: gli anglosassoni che hanno fatto loro l’«invincibile estate» di Camus, però a me vengono in mente Totò e De Filippo a Milano ma al contrario: in Italia fa sempre caldo, pure in inverno e pure al Nord, e quindi eccoli partire con i loro imbarazzanti outfit che neanche la città della moda riesce a scalfire. Un irish pub e un meraviglioso fish e chips spiegano solo parzialmente questa sorta di enclave britannica.
In questa Lombardia secca come un basilico espiantato dalla Liguria, non resta che cantare.

E mi e ti nu sem in du
ti te set una dona e mi soo pù
e se ghe on quei d’alter insema a ti
alora voeur dì che semm in tri. Ueeee…
A Porta Romana (ier sera piuveva)
a Porta Vittoria… (ier sera piuveva)
a Porta Vigentina (ier sera piuveva)
in piazza Napoli… (ier sera piuveva)
in piazza Susa… (ier sera piuveva)
in piazza Martini… (ier sera piuveva)
(La forza dell’amore, Enzo Jannacci)

Soundtrack per il city tour
Luci a San Siro, Roberto Vecchioni; Porta Romana, Giorgio Gaber

Attaccati al tram! / 2

E così hai fatto scoprire la bellezza del tram a qualcun altro, e adesso ti attacchi al tram, perché non potrai più andare dove dovevi andare ma verrai trascinato fino all’altro capolinea, ai confini di Milano. Tram 27, Piazza Fontana/Viale Ungheria, si sferraglia fino agli incontri ravvicinati con gli aerei di Linate. Solo dopo potrai tornare per scendere dove dovevi scendere.
«Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è sulle panchine in Piazza Grande». Ah, no, non sono io a cantare questa volta perché io le colonne sonore non le sbaglio mai. Non è che siamo finiti a Bologna e questa è piazza Giuseppe Grandi, scultore della Scapigliatura lombarda, a cui è dedicato questo monumento, in piazza Grandi, appunto.

Per me da piccola era il gigante ma ha una sua storia.
Prima di intraprendere il cammino di corso XXII marzo fino a piazza Cinque Giornate, ci si ferma in piazza Emilia per assaggiare se la fontana quasi identica all’acqua marcia del Parco Sempione è marcia anche lì: no. Si va quindi in largo Marinai d’Italia, a vedere la Palazzina Liberty intitolata a Dario Fo e Franca Rame. Quanto hanno dato a Milano e quanto se ne avrebbe bisogno adesso in questo momento di massimo squallore di pensiero.
La figurina attaccata lì sul vetro,

non si sa da chi e perché, mi riporta alla memoria la mia infanzia. Probabilmente l’unico album di figurine che sia mai riuscita a completare. E comunque Dario e Franca si amavano tanto.
È un periodo di allineamenti astrali, o come si chiamano, perché io di astronomia non so nulla. Registro solo ciò che vedo: la luna è sorta e il sole non se n’è andato. Uno squarcio giallo mimosa rallegra la vista.

Il tempo di girare e rigirare nel parco ed è crepuscolo.


(Fontana Marinai d’Italia)

Non ho una soundtrack per questo tour, quindi cercatevi qualcosa di Jannacci, probabilmente l’unico milanese che si è battuto la città palmo a palmo, o ripigliatevi Luci a San Siro che va bene così, perché io lo so come siamo fatti, andiamo, torniamo, impassibili ma con dentro il magun, perché luci «non ne accenderanno più».

Torino regale e illuminata

Torino, come Milano, per troppi anni è stata vista come una città solo di industria e affari. Ma, considerando soprattutto la gran quantità di persone che l’affollavano tra dicembre e gennaio, sembra stia recuperando il tempo perso per rivelarsi al viaggiatore in tutto il suo splendore.

Quando si passeggia quasi senza meta (o con la meta fissa in testa di dolci e cioccolato), la bellezza dell’antico erompe dai negozi e dai locali rimasti intatti con i loro stucchi, lampadari di cristallo e vecchie insegne ridondanti e dalle eleganti gallerie. La storia la fanno i regal nomi delle vie, principesse, madame e re, e i monumenti.

Ma le mete ci sono, sono tante, abbastanza da dover fare delle scelte. I musei ti trattengono nelle loro meraviglie e all’uscita, all’imbrunire, le luci della città si accendono.

I Musei Reali Torino sono tra i complessi più grandi che abbia mai visitato. Comprende Palazzo reale, Armeria reale, Galleria sabauda, Cappella della Sindone, Museo di antichità, Biblioteca reale, Giardini reali (ad accesso libero).

Una visita di almeno tre ore, pur tralasciando alcune parti solo per stanchezza fisica, o forse più, perché il senso dello scorrere del tempo si perde tra stucchi, ori, mobili, affreschi, quadri. Imperdibile l’Armeria reale, già dalla soglia un colpo d’occhio impressionante.

Ricchissima la collezione di armature e armi.

Tre riflessioni:
1) Gli uomini che indossavano quelle armature avevano il corpo come quello dei bambini dei nostri giorni.

2) Riesco a innamorarmi anche di un cavallo finto.


3) Questa armatura apparteneva a un antenato con lo stesso nome di quello che oggi va in tv a ballare sotto le stelle… ma pur sempre meglio ballare che fare la guerra.La grande sorpresa di questo museo è stata scoprire l’esistenza di un’altra Venere di Botticelli, che fa parte della Collezione Gualino, davvero notevole per numero e valore delle opere.

Ecce homo, Guercino; Casolari, Gaspard de Witte; Gesù benedicente, Bartolomeo Cincani detto Montagna.

In questo museo si può andare senza prenotazione (contrariamente al Museo Egizio) e senza dover fare un’estenuante coda se non si è prenotato (contrariamente al Museo del cinema), e questo è un punto a suo favore.

Essendo un’amante di storia del cinema, avevo riposto molte aspettative sul Museo nazionale del cinema. Come tutti i musei, ha i suoi picchi di bellezza, in primis la vista della Mole Antonelliana dall’interno, in alcuni oggetti come le lanterne magiche o la sceneggiatura di Psycho, ma nell’insieme è abbastanza deludente. Sicuramente da bocciare l’ora di coda che avrei dovuto replicare all’uscita per prendere l’ascensore per salire sulla cima della Mole, che comunque non aveva più posti liberi.

Il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso è un luogo di riflessione. Tra teschi, strumenti di misurazione, armi del delitto, scheletri di detenuti e scheletro del Lombroso, donato per sua stessa volontà, si legge il cammino della scienza fatto di scoperte, fallimenti e teorie strampalate se non addirittura pericolose. Ad esempio, Lombroso non si è fatto scrupolo di condurre esperimenti per dimostrare a tutti i costi che la pellagra fosse dovuta alla muffa del grano, ma quella che davvero mi è sembrata strampalata è la teoria dell’atavismo. Cesare Lombroso era però un uomo attento al prossimo e, da rimarcare vista l’epoca, alle donne. Gli studi aprono comunque strade nuove e sono fatti da esseri umani, con tutto ciò che questo comporta. Singolare il fatto che a un certo punto della sua vita fatta di scienza, evidenze e ragionamenti ceda allo spiritismo dopo l’incontro con la medium Eusapia Palladino (o anche Paladino).