Genova, una città che non ti basta mai

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Io amo Genova. Perché i luoghi del mondo non sono solo posti geografici, non sono solo qualcosa di esteriore. Arrivi in un posto e capisci già che c’è qualcosa che va oltre quello che vedi, ma quell’oltre lì potrebbe essere solo tuo, non è detto che gli altri lo percepiscano. E quindi non mi stupisco della gente che mi guarda “con quella faccia un po’ così” mentre racconto che Genova ha qualcosa di speciale. Genova non è il mare delle ore al sole sulla spiaggia, non è la Milano da shopping, non è la Firenze dell’arte, non è la passeggiata in collina. Genova se l’hai vista solo in foto è quell’accatastamento di case che invade lo spazio dall’alto in basso, è quel porto da dove partono i traghetti per altri luoghi o da dove salpano quei palazzoni orizzontali chiamate navi da crociera. O è il porto commerciale pieno di container China Shipping Line, che uno si chiede se contengano i pomodori che poi ti spacceranno per pachino (pachino, pechino, questione di una lettera) oppure quei giocattoli con le pile liquefatte in un’inquietante sostanza chimica, o magari entrambe le cose, con le pile che sgocciolano sopra i pomodorini a ciliegina. E altre navi e altri container, e ti viene in mente di aver letto di Stella Maris, l’associazione che assiste chi non può scendere dalle navi ma neanche se ne può andare. Perché c’è anche questo nei porti: fantasmi vivi che nessuno vede. E costruzioni, credo ex magazzini. Ho cacciato il naso dentro a una cancellata che chiudeva vecchi spazi pieni di legno vecchio, ferraglie, pezzi che una volta componevano cose. Mi è arrivata una zaffata da svenire, ma questo non lo racconto perché so che la faccia passerebbe da un po’ così a un po’ cosà, come se gli si formasse in testa la nuvoletta con scritto: e tu spendi anche soldi per partire da una città che puzza di smog per andare in un’altra che puzza di mare marcio? Se dici che è un puzzo che sa di storia e storie che non conosci non ti capiscono lo stesso. A Genova puoi trovarti sopra il battello, avere le navi davanti e un aereo che ti passa sulla testa a volo radente. Praticamente in un colpo solo le cose che amo di più: aerei e navi, mezzi che portano lontano. Ma uno non va al mare per vedere dal basso fiancate di navi e aerei che cercano la pista. Be’, però Genova è una città, ma continuano a guardarti un po’ così. Genova è una città piena d’arte, palazzi bellissimi, ville, musei, chiese. Perché tutti vanno in gita scolastica solo a Firenze e a Roma? Ti guardano come se stessi dicendo un’eresia. Allora fai la vocetta un po’ giuliva: i caruggi sono veramente troppo carini, pieni di negozi, stretti stretti, intricati… e ti interrompono: sei andata in via del Campo? Sì, ci sono arrivata per caso, ma non gli dici che certe canzoni di De André hanno delle argomentazioni che proprio non ti piacciono perché se no si innesca la polemica.

A Genova c’è un atmosfera così particolare, cerchi di spiegarlo con qualche pensiero banale ma tanto la faccia un po’ così non cambia espressione. Al massimo qualcuno si illumina per l’acquario. Ma a me l’acquario è l’unica cosa che ha fatto schifo: non è vero che gli animali lì ci stanno bene, perché mai un delfino dovrebbe stare bene dentro a una vasca? Perché una murena dovrebbe essere felice dentro a un cilindro di vetro? Ed è anche un posto claustrofobico. E io neanche ci volevo andare all’acquario.

E allora parli di mare, di quel giorno che a Nervi infuriava e sembrava di camminare sotto un vaporizzatore perché goccioline leggere ti arrivavano in faccia. Una moltitudine di persone riprendeva lo spettacolo, e c’ero anch’io: volevo portarmi a casa quelle onde che sbattevano contro gli scogli, minuti e minuti di riprese, angolazioni diverse, perché ogni onda faceva i suoi personali disegni di schiuma e ognuna aveva la sua altezza e la sua potenza. Bisognava fissarne il più possibile perché la natura non fa le cose in serie come noi. Sì, va be’, scogli e onde, e uno il bagno dove lo fa? Si riparte con la vocetta giuliva: Boccadasse è bellissima, deve essere lì dove Gino Paoli ha scritto La gatta. E basta, tanto chi ha visto Genova solo in foto non è che può entusiasmarsi al resto che hai in mente. Io andavo a sbattermi lì al pomeriggio, stremata dai chilometri macinati di mattina nell’ansia di ingurgitarmi tutto: pezzi di passato ma anche viste dell’alto, ma anche strane ascensori verticali che sono mezzi di trasporto. Però a Boccadasse non ci si sbatte giù a peso morto, si sceglie con cura un posto dove i sassi sembrano più piccoli. Non che metterci cura serva a molto, troverai sempre l’infida pietra appuntita che ti si pianta dove c’è meno carne. Ma i sassi caldi sulle dita artritiche di umidità padana ripagano dei bozzi ghiaiosi che ti restano tatuati ovunque. Il mare è un insieme di sassi piatti scivolosi intervallati da schegge di scogli appuntiti che intercettano immancabilmente ginocchia e stinchi e che si interrompono improvvisamente per farti cadere in una specie di baratro d’acqua. Ti chiedi se il tuo fisico da cittadino bolso ce la farà a superare l’emozione di sentirsi sfuggire la terra sotto i piedi o se farai la figura dei soliti scemi che passano dalla scrivania al restare abbarbicati a qualche roccia, di mare o montagna non ha importanza. Il colore blu non si può spiegare. Il mare forse sì, ma l’effetto che fa il suo blu no. È una cosa che quando torni ti rende insopportabile il grigio e il marrone, un’insofferenza che perfino il verde non riesce a mitigare. Io me ne stavo lì a guardare il blu finché il grosso della gente non se ne andava e arrivavano i gabbiani. Alla sera c’era il Porto Antico e la Festa democratica: band, balli, bancarelle. Come passare una serata low cost o addirittura gratis. Mentre scendo soddisfatta come Montalbano per il carico di vongole che Walter, nonostante abbia torto il naso al mio assoluto divieto di aglio, mi ha servito, vedo campeggiare in piazza l’enorme scritta “Cucina romagnola”. Sì, va be’, dovunque ci si trovi la cucina della festa dell’Unità, poi dei Ds, poi quel che è, è appannaggio degli emiliani-romagnoli. Che a Milano ci andrebbe di lusso, ché a noi ci tocca la cucina etnica, pure originale ma vuoi mettere un piatto di lasagne? Ma lì, mah… lì suona strano. Mi fermo davanti a un piccolo gazebo. Niente sedie, nessuno dei signori che mi propone di prendere una delle poche vacanti all’interno, se non altro visto che ero l’unica a manifestare l’intenzione di restare fino alla fine. Bianco e nero, voce narrante dei cinegiornali (Guido Notari, forse sì forse no), acciaio, colate incandescenti, uomini che lavorano, esaltazione di macchine, primi piani su pistoni e lastrone che arrivano dall’alto. La regia, la fotografia, tutto ha la cura di un film. Ma è un documentario girato nei cantieri Ansaldo. Sembra incredibile che un’azienda decida di realizzare un vero e proprio film. Non uno spot più o meno azzeccato, non una presentazione in PowerPoint, ma un film. Le mie gambe triturate di chilometri si fanno sentire ma quello è il genere di pellicola che mi inchioda. Mentre sono lì, so già che li cercherò su YouTube. Credo che siano dei documenti di importanza storica e cinematografica e mi piace quindi ora segnalarne almeno uno, prodotto dalla Ferroni Cortometraggi con la regia di Aldo de Sanctis e Giampiero Pucci: Ansaldo. I parte di De Sanctis – Pucci (1949).I filmati appartengono alla Fondazione Ansaldo e si trovano sul canale GenoaMunicipality.

Il mio chilo interiore al netto dei gusci inizia a lasciare degli spazi a metà serata. Lasagne no, ma i bomboloni romagnoli spandono nell’aria il loro richiamo di frittone dolce e crema gialla. Resto basita di delusione: l’apoteosi di grassa bontà è immangiabile. Non può esserci un’altra spiegazione: la maledizione di un indignato dio ligure si è abbattuta su quell’ostentazione di Romagna nel cuore del  Porto Antico.
Mentre torno penso a quello che ho fatto e a quello che voglio fare ma cammino anche piano perché voglio guardare il mare. Corri per vedere più cose possibili e ti fermi per guardare il più a lungo possibile. Genova è questo: l’affanno di riempirsi di tutte le cose che offre, un’ingordigia che ti piglia quasi volessi portargliele via, di fare come i criceti che si infilano di tutto nelle tasche delle guance e se ne vanno via con una faccia grossa da far paura.

E porti a casa oggetti da Genova: vestiti, funghi secchi, collane. Perché se gliele fai vedere la gente smette di guardarti un po’ così, mentre tu hai capito cos’era il timore che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più.

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