Un’estate di acque

Acqui Terme, un mezzo buco nell’acqua

C’è una parola che potrei aggiungere a questo tempo di pestilenza. Mi viene in mente così, in mezzo a luoghi che non mi arrivano veramente: ripiego. Riempiamo i vuoti lasciati dalle cose che avremmo fatto e che non possiamo fare con dei ripieghi. È come quando entri in un negozio con la voglia di qualcosa e quello ti dice: non ce l’ho, però ho questa. E va be’, vada per quella. Ti mangi quella roba lì che è un surrogato di quella là e fai finta che vada bene così. Ma quella là non è che se ne va e ti lascia in pace col tuo surrogato, ogni tanto ritorna a importunarti con immagini.
Acqui Terme era un posto che prima o poi sarei andata a vedere, ma per un weekend, non per una vacanza. Né mare né montagna, le sue colline solo una terra di mezzo senza il fascino dei due estremi. Anche beffarde, ricoperte così di vigne, sormontate dagli arroganti palazzi delle più famose case di vini, a circondare me che non bevo vino. Acqui Terme che di giorno rivela i segni mesti di un passato illustre, alberghi, terme che erano e non sono più; una piscina bellissima ridotta ad acquitrino. Speculazioni, mosse finanziarie andate storte. Ma di sera si accende di persone e la gran quantità di giovani salta all’occhio. Salta all’occhio anche un’altra cosa a dir la verità: la stravaganza dei commercianti con i loro orari di apertura strampalati che o ne prendi nota o vai alla cieca, con una certa malagrazia nei modi che è raro trovare nei posti turistici. Non bevi vino e non fai le terme, che sei andata a fare ad Acqui Terme? È stato un ripiego.
Però non è giusto parlare male di un posto per una mia sbadataggine. Perché il bello c’è sempre ovunque.

Per chi non beve vino c’è l’acqua. Dall’Acquedotto romano

 

alla Bollente, il cuore di Acqui, da cui l’acqua esce a circa 70 gradi e che di sera si illumina di rosso,

all’Acqua marcia.

Una signora mi dice che si può bere. Solo un piccolo sorso e mi sembra di aver bevuto un bicchierone di quattro parti di sale e una di acqua a cui si aggiunge un odore di uovo andato a male. Non a tutti piace, dice la signora divertita, però tanti la usano per gli occhi, io per mettere a mollo i piedi. A me l’hai fatta usare come acqua, grazie tante.

Il Museo archeologico

Il nome romano di Acqui Terme era Aquae Statiellae. I musei archeologici di solito li visitano le persone serie. Un’altra caratteristica di quelli minori è che spesso sono semivuoti. La seconda caratteristica mi ha preservato dal diffondere a una grande quantità di gente che la prima affermazione non è sempre vera, così saranno in pochi a raccontare che c’era una deficiente che rideva davanti alle didascalie. Gli abitanti della zona erano gli statielli e io ho detto come era possibile che dei nordici avessero un nome palesamente napoletano. Eh, infatti, sembra napoletano. Non ti richiamano i friarielli, scusa? La cultura non è contagiosa quanto la risata, lo impariamo in prima elementare. Ora che però ci penso, gli acquesi (o come si chiamano gli statielli di oggi) si salutano con: com’è? che usano anche ad Avellino, o forse anche a Napoli, non so. Può essere che piemontesi e campani se la siano vista già prima dei tempi noti.

Le insegne di Nizza Monferrato, che meraviglia

Asti

Il Duomo

Canelli

Acquasanta (Genova)

Di solito le stazioni dei treni stanno giù, ad Acquasanta hanno deciso di metterla su. E quindi prendo la strada che va giù, tra tornanti e boschi. E ritrovo un po’ me stessa. Tranne che nel pensiero improvviso di quanto i cinghiali si siano moltiplicati e questo sembra proprio un posto dove i cinghiali potrebbero trovarsi bene. Me stessa non ha voglia di trovarsi a guardare in faccia un suino selvatico. C’è il santuario, ci sono le terme, c’è una meravigliosa vasca idromassaggio esterna che guardo con invidia, non c’è niente da mangiare se non un panino alle terme, che riesco a ottenere solo dopo aver circumnavigato l’edificio, provato la febbre e conquistato un braccialetto-diavoleria che segna i soldi della consumazione. Per tornare alla stazione c’è un pullmino che porta su, che Dio lo benedica.

Genova, anche come ripiego non delude mai

Chiamarla ripiego è un’eresia ma tant’è. L’esosità dei liguri quest’anno è riuscita ad arrivare a un livello ancora più alto. E quindi, cari i miei liguri di Chiavari, Sestri Levante eccetera, andatavene a quel paese, quest’anno avrete un milanese in meno da spennare, quest’anno mi impunto, quest’anno avete a che fare con una più miscia di voi.

Arenzano, Parco Villa Sauli Pallavicino

Vesima

Non tutti i treni fermano a Vesima, che fa sempre parte di Genova. Una volta arrivati si capisce perché. Un paio di bar, un edificio che non si comprende cos’è, il resto spiaggia. Il motivo per cui non mi chiedo che cosa ci faccio io qui?: ci sono venuta per quella. Ma è inevitabile chiedersi che cosa ci fanno loro qui,

mucche al pascolo in mezzo a delle macerie che sovrastano la ferrovia. Tutti gli occhi si spostano dal tabellone degli orari a loro e restano lì, magari con un po’ di ansia che ruzzolino giù. All’homo sapiens sapiens basta poco per inchiodarsi su qualcosa che ormai non capisce più.

Sampierdarena

Il ponente di Genova è la Cenerentola della città, con buona pace di chi ci abita che è palesemente la parte che tira la carretta. Ma io avevo visto che c’era del bello tra un cantiere e l’altro e comunque è irritante che il turista vada sempre verso le stesse cose. E infatti, Sampierdarena ha dei bellissimi palazzi e, quasi nascosto, il parco di Villa Scassi.

Sant’Agostino

Il logorroico portiere di notte dell’albergo mi dice che nella chiesa di Sant’Agostino (ex, in realtà) ci sono due Rubens poco pubblicizzati. E allora si va, con la metro scendo alla fermata Sant’Agostino senza neanche sapere dove sbucherò. Il davanti ok, ho capito all’incirca dove sono, ma è quando mi volto che mi sale un’imprecazione: maledette stradine in salita intervallate da scalinate di cui non si vede la fine. Meno male che domani torno a Milano, il massimo dello sforzo lo scalino del marciapiede. Mi inerpico come un caprone male in arnese. Ma ecco alla fine ergersi il colore.

Non è Sant’Agostino ma San Salvatore, ma in quello stato di fatica ogni santo è luce. E la luce dei colori dei cibi stretti nei carruggi esplodono nella mia anima di caprone. Ma dove sei stato fino adesso, quartiere Sant’Agostino o come ti chiami?

 

L’ex chiesa è chiusa da un’impalcatura, pazienza. Mi addentro, passando da un moto di indignazione,

discesa fino a Porta Soprana

e poi ancora giù finché non intuisco il retro di Palazzo Ducale. Ah, ecco, ma tu guarda che oca, sempre a voltare dalla stessa parte e non provare con l’altra.