Teatro, cinema, scrittura: è cultura, non un hobby

Maurizio attore

Dovevo prendere uno di quei treni che io classifico come “diligenze”, un viaggio breve, per il quale non si impiegherebbe più di un’ora se non fosse che la tratta è da annoverarsi tra quelle “maledette”, percorsi strani in cui sembra che tutti gli intoppi del mondo si concentrino. Quindi quel distributore di libretti nella metropolitana di Cadorna mi era parso l’unica cosa bella che potesse capitarmi perché, ne ero certa, da lì a poco mi sarei trovata chiusa in un vagone fermo in mezzo alla campagna, per i soliti imperscrutabili motivi.
La gente si serviva di quegli opuscoli gratuiti con la stessa voracità con la quale abborda un buffet di matrimonio: quando si dice che i libri sono il cibo della mente…

I mini-libri erano le opere dei vincitori del concorso Subway-Letteratura. Fu così che ebbi modo di leggere Craniata terribile, di Maurizio Patella. Un racconto bellissimo, per lo stile e il contenuto, da cui emerge il senso profondo del legame tra uomo e cane. Sono passati alcuni anni da allora, era il 2009, ma non ho dimenticato quel breve romanzo, probabilmente perché appartiene a quel genere di storie che vengono elaborate a livello personale. Cento persone possono dire che un libro è bello, ma per qualcuno sarà più di questo. Ho deciso di rintracciare via web Maurizio Patella, scoprendo così che le sue esperienze nel campo della cultura vanno ben oltre Craniata terribile. È attore di teatro, si è diplomato presso la Civica scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, ha recitato in numerose rappresentazioni, ha interpretato il ruolo di protagonista in Orgia di Pier Paolo Pasolini (votato come Miglior attore ai referendum per i Premi Ubu). È attore di cinema: Come se fosse amore di Roberto Burchielli (2001), Alice e la tempesta di Silvio Soldini (2003), attore protagonista in All’amore assente di Andrea Adriatico (2007). Sul web, per conto dell’editore Perdisa di Bologna, cura la rubrica di teatroOcchio di bue”, il nome in gergo del grande fascio di luce che illumina gli attori sul palcoscenico. La frase che apre il blog «Tutto quello che vi siete persi rinunciando al vostro sogno nel cassetto.» mi dà lo spunto per la prima domanda.

Hai avuto ruoli e riconoscimenti importanti a teatro, sei arrivato anche al cinema, eppure da questa tua frase e da altre affermazioni in rubrica sembra che pensare di vivere di teatro o, più in generale, di cultura, vuol dire troppo spesso chiudere i propri sogni in un cassetto. È così?
«Esiste sempre una forte discrepanza tra desideri e realtà. È inevitabile. A una certa età, non puoi che immaginare il mondo che ti aspetta. Dopo, eccolo, che ti ruggisce in faccia. Purtoppo in Italia c’è l’idea che fare cultura, in ogni sua forma, sia un hobby piuttosto che un lavoro. Invece, è un lavoro. E come tale andrebbe non solo percepito, ma sostenuto. Chiudere i propri sogni nel cassetto significa oggi accettare la realtà: finanziamenti zero. Lavoro, pochissimo. Paghe minime. Tempi di pagamento eterni. Fare cultura diventa un hobby nel momento in cui chi la fa non viene pagato».

In Tv danno il promo di una fiction su RaiUno, gli attori recitano talmente male che mi sento quasi in imbarazzo per loro. Vado a teatro, siamo così pochi che potremmo fare merenda insieme, eppure gli attori sono veramente bravi. E ancora, c’è gente “nascosta” nel web che scrive molto meglio di nomi editorialmente forti. Si può dire sbrigativamente che il grande pubblico predilige la scarsa qualità o c’è qualche altro meccanismo che non permette ai talenti di emergere?
«La cultura, a mio avviso, ha seguito le orme del consumismo. È diventata cultura di massa. Si è voluto lucrare trasformandola in una fabbrica di prodotti come spazzolini, cellulari, barattoli. L’editoria predilige nomi forti, qualitativamente mediocri, perché il grande pubblico – com’è oggi – apprezza prodotti di consumo che ricalchino ciò che già conosce, ovvero stereotipi televisivi, finzione più finta, trame scontate. Il grande pubblico è un pubblico passivo, rimbecillito dagli schermi e ingoia tutto; l’importante è restare comodi sul proprio divano. Comodi e tranquilli. Ma per leggere un libro davvero bello, o per vedere uno spettacolo, un film che abbiano arte in sé non si può rimanere comodi e tranquilli. La cultura, quella vera, vuole smuoverti le viscere. Vuole farti battere il cuore, vuole farti pensare, immaginare. Per questo la cultura, quella vera, non vende: non vende perché non viene promossa. E non viene promossa perché esiste una strategia educativa di rincoglionimento globale idonea a svuotarci il portafogli. Consumismo, si chiama».

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Sei di Genova, hai studiato a Milano e per lavoro avrai certamente viaggiato molto. Quali sono le città che danno più spazio alle varie espressioni artistiche?
«Al momento non saprei cosa rispondere. Ho vissuto a Genova, Milano, Bologna e Roma. Forse Milano è la città che in Italia mi ha offerto di più. Immensamente meno di Londra, Berlino, Parigi».

Non ho mai avuto velleità recitative, eppure ho un “sogno”: spalancare con un calcio la porta, pistola alla mano, e urlare “Fbi”. Tu sei già riuscito a recitare tutti i ruoli che più ti affascinavano o hai anche tu un tuo “Fbi”?
«Ho anch’io un mio “Fbi”. S’intitola Notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès. È un monologo che ho amato molto. Notte, pioggia. Un magrebino francese, ubriaco, appena scampato a un raid punitivo xenofobo. Una tettoia sotto alla quale ripararsi. Un ragazzino sconosciuto, silenzioso, vicino a lui. Tutti e due al riparo dalla pioggia, e del tempo da passare. Inizia così. Consiglio».

Penso che Shakespeare sia uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Tennessee Williams dipinge un’America così disperante che riesce ad infrangere in poche ore il grande mito americano. E sono solo due esempi. Cosa si prova ad interpretare testi tanto potenti?
«Shakespeare è il sogno di ogni attore. Per niente facile da recitare. Prova a dire “Essere o non essere” senza sembrare un pirla! Ma che sfida, che emozione. E la sfida vera è capire fino in fondo quello che dice Shakespeare. Tennessee Williams è certamente un grande autore. Ma molto americano. Molto anni ’40 e ’50. Si riferisce a un mondo che mi emoziona meno».

Recitando si entra in un’altra dimensione. Quando scendi dal palco dopo tanta concentrazione, tensione e immedesimazione, mi sembra di immaginare che tu possa ritrovarti in una specie di zona-cuscinetto tra finzione e realtà. Come vivi questi momenti?
«Una volta era così. Un po’ di confusione, già. E devo ammettere che mi gongolavo di questa confusione. Mi sembrava un indizio di bravura. Più confuso, più bravo. Molto Stanislavskij, UAU! E invece è esattamente il contrario. Se hai fatto un buon lavoro, hai il pieno controllo di te, delle tue emozioni, delle reazioni del pubblico. Da ciò desumo che spesso ho recitato da schifo. Me la cantavo e me la suonavo da solo. Pensa, ho ammorbato tanti poveracci in cerca di svago. Infatti, mi pareva di udire alcune detonazioni di pistola. Mi dispiace, scusatemi, davvero, non l’ho fatto apposta. Oggi, confusione o no, scendo dal palcoscenico e zompetto felice in direzione del bar più vicino. Recitare, tutte quelle battute, mi secca la gola. Anzi, se venite a vedermi e vi ammorbo: aspettatemi a fine spettacolo. Offro io, giuro».

Molti dei racconti vincitori di Subway-Letteratura sono prefati da autori affermati e il tuo Craniata terribile è stato certamente letto da un gran numero di persone. Sono cose che ti hanno favorito nella carriera letteraria?
«Mi hanno contattato un paio di editor di case editrici abbastanza importanti, domandandomi se avevo un romanzo nel cassetto. Qualcosa tipo: Mia sorella è una foca monaca di Frascella. Ebbene, il romanzo non ce l’avevo, allora l’ho scritto e gliel’ho inviato. Una fatica tremenda. Ma il mio romanzo – il mio primo romanzo! – con “foca monaca” non aveva niente a che vedere. Fine della storia. “Il resto è silenzio”, dice Amleto. Poi muore. Vabbè, ci sono rimasto male, ma più che altro per i modi spicci. Poi del primo romanzo, che dire? Boh, magari era robetta, chissà. Comunque sia imparerò a scrivere meglio, tutto qui».

Cioè, fammi capire, sono stati gli editori a chiederti un certo tipo di contenuti e stile?
«Non direttamente. Ma avrebbero gradito, sì. Ci si trova quindi davanti a un bivio: o scrivere quello che si sente, o tentare di essere un clone. È anche vero che molti scrittori sono dei cloni senza saperlo».

I volti, le voci, l’incanto: è il cinema, bellezza. E la sua lunga storia

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Incontro Franco Longobardi nella sede dell’Associazione culturale cinematografica First National di Milano, di cui è presidente. Dal 1992 organizza, insieme ai suoi soci Angelo Quagliotti e Lorenzo Bassi, cineseminari di Storia del cinema, presentando le opere che hanno contribuito in maniera determinante a fare del cinema la settima arte. L’Associazione, attraverso uno studio attento e l’utilizzo di mezzi tecnici sofisticati, si occupa anche del restauro delle pellicole, riportandole ad un livello qualitativo molto alto. È importante sottolineare che recuperare un film significa spesso ricomporre la versione italiana originale, persa a causa di tagli indiscriminati e di rifacimenti del doppiaggio o della colonna sonora di qualità inferiore. La costante ricerca di materiali ha inoltre portato al recupero di pezzi ormai di assoluta rarità.

Quali sono le tue esperienze in questo campo e come nasce l’idea della First National?
«Nasco come attore e mi reputo principalmente un attore. Ho cominciato a muovermi nello spettacolo nel 1972 con una piccola troupe di amici. Giravamo dei film, all’epoca si potevano fare in 8 mm. Mi dilettavo già di regia e organizzazione e ho così ideato delle comiche stile Charlie Chaplin. Io facevo Charlot, torte in faccia, inseguimenti, botte. Le abbiamo fatte dal ’72 al ’76 ma anche lungometraggi, mediometraggi, remake di film di Chaplin come per esempio Il dittatore, cose ignobili. L’imitazione di Charlot era discreta, forse appena passabile, gli attori piuttosto bravi ma i film erano pessimi; ancora oggi mi soddisfa vedere la direzione che facevo degli attori però i film erano tutti diretti da me male, malissimo! Nel ’78 ho scritto il soggetto del mio primo film sonoro-parlato I soliti idioti, la storia di due ladri maldestri alle prese con furti che vanno sempre male, io ero uno dei due. Recentemente ho digitalizzato l’originale che era in pellicola, facendone anche una riduzione drastica da 90 a 30 minuti, conservando quella che secondo me era la parte salvabile. Ho continuato con questa troupe fino all’80, ho fatto anche dei cortometraggi su richiesta di alcuni cineclub, uno era la parodia de La febbre del sabato sera dove io facevo John Travolta (presente su YouTube, con altri filmati, con il titolo Carissimo John, ndr), li abbiamo proiettati anche alla Cineteca italiana di Milano. A una mia personale c’era Alberto Lattuada e la sorella Bianca che faceva i casting dei suoi film. Era rimasta entusiasta delle mie interpretazioni, tanto da arrivare a dirmi che mi avrebbe scritturato per uno dei prossimi film. Ma questa è una delle prime di una serie di promesse non mantenute, ma non solo per quanto mi riguarda, è il mondo dello spettacolo che è molto fittizio. In seguito partecipai a un festival di filmaker a livello nazionale con tre cortometraggi, vennero proiettati al cinema Eden di Milano, se ne occupò anche Rai3. A fare teatro inizio nell’82, per sfida praticamente. Guardando gli spettacoli ero sempre molto critico, così una sera mio padre mi disse: “Ma perché non li fai tu che parli tanto?”. E così con un paio di amici, tra cui Angelo Quagliotti che ancora oggi è mio importante collaboratore insieme a Lorenzo Bassi, che però conosco da tempi più recenti, abbiamo messo su una compagnia teatrale che abbiamo chiamato “Amici della farsa”. Dall’82 fino al ’94 abbiamo diretto, interpretato e organizzato spettacoli teatrali di genere brillante, Cechov, Eduardo Scarpetta, Eduardo De Filippo. Poi per parecchi anni ho avuto l’esclusiva per la Lombardia di Peppino De Filippo. Non eravamo una grossa compagnia così pronta a livello di mezzi per fare grandi viaggi, siamo andati anche in Svizzera, sì, però non posti lontanissimi. È stato un bel periodo, dei begli anni che ancora oggi mi mancano. Contemporaneamente lavoravo in radio, dall’86 al ‘90 circa, prima Radio 6 poi RadioCity, dove facevo le interviste agli attori di cinema e teatro. Poi una serie di programmi televisivi: Vivere, Colletti bianchi. Nella seconda metà degli anni ’90 ho diretto il film Una scelta difficile, per conto di una casa di produzione indipendente. Abbiamo fatto anche una serie di comiche di un personaggio ripreso dalla mia esperienza teatrale delle farse di Peppino de Filippo, tale Pasqualino Pastetta, praticamente un pazzo scatenato, un misto di Mr. Bean, Chaplin e Harry Langdon. Ne ho fatto tre comiche rappresentative che mi hanno permesso poi di entrare a Mediaset nel cast di Finalmente soli con Gerry Scotti e Casa Vianello, in cui ho fatto parecchie apparizioni.Finita l’esperienza del teatro, inizio a lavorare alla First National, oggi ne sono anche il presidente. Realizziamo cineseminari di Storia del cinema, rassegne cinematografiche, restauri. Credo di aver portato anche qui il mio modo di essere controcorrente, di portare avanti quello che gli altri non vogliono fare. A teatro tutti facevano Eduardo De Filippo? E io facevo Peppino! Gli altri scartano? Io invece vedo che sono cose buone e le faccio. Gli altri ridoppiano i classici del cinema? E io recupero le colonne originali, italiane, perché poi ritengo che siano migliori di quelle rifatte in modo pedestre.
Per me vedere un film è anche sentirlo. Molti critici non badano all’audio, pensano solo alla musica, mentre ci sono anche i doppiatori che sono parte integrante del film. Il doppiatore è un attore a tutti gli effetti che contribuisce al film quanto il volto sullo schermo. Quando hanno iniziato a invitarmi a qualche festival del doppiaggio, ho scoperto che questa passione in realtà era diventata esperienza. Con Angelo e Lorenzo abbiamo creato questo triumvirato. Separatamente siamo molto bravi ma insieme siamo la punta di diamante degli esperti del doppiaggio storico (ride).
Abbiamo conoscenza, materiale e abilità nel montarlo, creando così delle rappresentazioni curiose e divertenti. A queste realizzazioni abbiamo dato il nome di Doppio Cinema e le abbiamo presentate nell’ambito di vari festival e manifestazioni con ospiti come Massimo Boldi, Maurizio Nichetti, Roberto Brivio. Le abbiamo proiettate alla Cineteca italiana e in vari cinema-teatri d’Italia. Recentemente nel Monferrato abbiamo organizzato un’altra rassegna cinematografica e abbiamo partecipato varie volte al Gran Galà del doppiaggio di Roma, con Pino Insegno».

Quindi non solo Storia del cinema ma anche Storia del doppiaggio.
«Doppio Cinema sintetizza tutte le cose fatte dalla First National: Storia del cinema e Storia del doppiaggio. Recupero e restauro di vecchie colonne sonore cinematografiche di grandi film assurdamente andate perse, come La finestra sul cortile, Gilda, Biancaneve e i sette nani e molti altri titoli. Hanno importanza storica e grande qualità di doppiaggio. Per gli spettatori e i frequentatori dei nostri corsi è come riscoprire il film».

Cosa ne pensi della proposta di cui ogni tanto si parla di eliminare il doppiaggio e proiettare i film con i sottotitoli, come fanno in altri Paesi?
«È una cosa assurda, fin dagli anni ’30 si parla di questo. Ma lo spettatore non vuole vedere i sottotitoli, vuole vedere l’immagine e gustarsi lo spettacolo. George Clooney, Brad Pitt, come gli attori del passato, li vuole sentire in italiano. E poi in Italia siamo abituati bene perché abbiamo avuto i migliori doppiatori e quindi perché toglierci questa arte? Poi chi vuole sentire le voci originali è giusto che lo faccia, perché il doppiaggio è sempre un qualcosa di estraneo ma, come diceva il grande regista Mario Mattoli, è un danno minore, se questo rende più fruibile la pellicola. A patto che sia ben fatto, fedele e le voci siano quelle giuste».

Mi vengono in mente voci storiche come Lydia Simoneschi, Emilio Cigoli…
«Abbiamo fatto vari omaggi ai grandi doppiatori del passato. Per esempio, in occasione del centenario della nascita, abbiamo realizzato ciò che da anni è un nostro vecchio progetto e l’abbiamo chiamato Emilio Cigoli Day, in assoluto il più grande doppiatore. È stato la voce di Clark Gable, Humphrey Bogart, John Wayne, William Holden, Jean Gabin, Gregory Peck, Gary Cooper e tanti altri grandi del cinema. Una serie infinita di nomi, anche nel cinema italiano: Raf Vallone, Vittorio Gassman. Persino a Totò, in un film comico dove faceva il gangster, hanno dato questa voce da duro. Questo tributo ha avuto un ottimo successo, e a gran richiesta l’abbiamo replicato più volte. Abbiamo anche pensato di farne un altro dedicato a Ferruccio Amendola, la voce di Sylvester Stallone, Dustin Hoffman, Robert De Niro e altri».

Finora i Cineseminari sono stati articolati in “Storia del cinema”, “Grandi registi”, “I grandi restauri”, “Grandi comici”. Quali saranno le novità per la nuova programmazione in partenza a ottobre 2013?
«La stagione 2013/2014, io le chiamo stagioni come a teatro, è molto ambiziosa perché celebreremo il ventennale d’attività. A ottobre nella nostra sede qui a Milano, e per la prima volta, faremo il Festival completo Doppio Cinema: le antologie di montaggio e le rassegne cinematografiche dei lungometraggi da noi restaurati. È una cosa unica, saranno venti serate che andranno da ottobre fino ai primi di marzo. Quindi sarà una cosa, mi auguro, molto interessante per il pubblico».

È tutto di grande interesse, non dovreste avere difficoltà a organizzare queste iniziative.
«Sì, le difficoltà invece ci sono perché ogni volta che riusciamo a realizzare qualcosa non siamo mai liberi di farla veramente come vogliamo, ci sono sempre degli impedimenti. La cosa più difficile è riuscire a trovare gli sponsor giusti, perché sono iniziative particolari, di grande impatto culturale ma anche spettacolare. Noi non siamo persone che vanno in giro a cercare sovvenzioni, sponsorizzazioni, se fossero loro a proporsi ne saremmo più che felici».

Le locandine dei più famosi film, i ritratti di attori e attrici che hanno fatto sognare un po’ tutti, un originale scatto di Charlie Chaplin sembrano aspettare che si accenda il grande schermo che campeggia nella saletta delle proiezioni. Il cinema è sempre magia, quello che vedi con gli occhi e le storie che immagini. Quando si abbassano le luci, alla First National la magia è un po’ più vicina e tante di queste storie vengono raccontate.

Per informazioni e calendario iniziative:
First National
Via Mosè Bianchi 24
20149 Milano
Tel. 02.480.042.43
www.doppiocinema.net
[email protected]

Italia / Nuova Zelanda: battaglia persa a colpi di gnomi

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È nelle sale in questi giorni il film Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato. Distribuito anche in 3D, il film di Peter Jackson è un prequel della trilogia de Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien. Come gli altri film tratti dal romanzo dello scrittore britannico, si è preannunciato da subito come un grande successo e il mese di dicembre, tradizionalmente dedicato al cinema di famiglia, darà certamente un forte contributo in termini di affluenza dl pubblico. Essere un kolossal e appartenere al genere fantasy, sempre molto apprezzato e seguito, è già di per sé una garanzia per suscitare un gran numero di recensioni più o meno favorevoli e un altrettanto gran numero di discussioni tra gli appassionati della trilogia. Ma al di là di quest’aspetto, vale la pena soffermarsi su un dato curioso per trarne uno spunto di riflessione e, stranamente, un paragone con il nostro Paese. Non perché ci sia qualcosa che possa avvicinarci in qualche modo al Signore degli anelli, su carta o su schermo, né dal punto di vista culturale (il fantasy non appartiene alla nostra tradizione letteraria) né come ambientazione. E infatti il paragone va oltre, perché riguarda la velocità di reazione, la capacità di cogliere le opportunità, cosa che purtroppo l’Italia sembra aver dimenticato da tempo. Questa pellicola e le precedenti sono state girate in Nuova Zelanda, tra Matamata, Wellington e altre località. È un arcipelago dove è ancora possibile trovare natura incontaminata, animali che vivono nel loro habitat naturale e panorami meravigliosi, condizioni che la rendono quindi comunque un’importante meta turistica. Eppure la Nuova Zelanda ha visto incrementare notevolmente il suo volume d’affari legati ai viaggi proprio da quando Peter Jackson l’ha scelta per ambientarvi le sue scene. E i neozelandesi non sono stati a guardare. Lesti come elfi, si potrebbe dire, si sono attivati immediatamente per “sfruttare” tutte le potenzialità di questo successo, promuovendo in ogni modo il legame tra loro e il Signore degli anelli e ideando itinerari ad hoc per soddisfare il turismo cinematografico. Il sito ufficiale del turismo in Nuova Zelanda ospita varie pagine dedicate alla trilogia. Anche altri siti di viaggi, tra cui l’italiano Nuova Zelanda riportano sezioni specificatamente create per dare informazioni sui luoghi dove sono stati girati i film.

Ed ecco che ci avviciniamo al paragone, continuando, guarda la coincidenza, con un altro neozelandese, l’attore Russell Crowe. È infatti grazie al suo forte impegno e alla petizione Save the Gladiator’s Tomb, promossa dall’American Institut for Roman Culture, se la Tomba del Gladiatore non verrà reinterrata per mancanza dei fondi necessari al restauro. Il mausoleo, scoperto a Roma nel 2008 durante i lavori per la fabbricazione di alcuni palazzi, è attribuito a Marco Nonio Macrino, generale dell’imperatore Marco Aurelio, ed è il monumento che ha ispirato il regista Ridley Scott per la realizzazione del film ll gladiatore, interpretato appunto da Russell Crowe, vincitore di cinque premi Oscar e campione di incassi. Almeno per il momento, e solo grazie a un interessamento “esterno”, abbiamo evitato di perdere per sempre una così meravigliosa testimonianza archeologica. Una perdita che sarebbe andata ad allungare la lista dei siti archeologici rovinati dall’incuria, dei tesori che giacciono negli scantinati dei musei.

Che nessuno dei nostri governi sia mai stato in grado di soppesare il valore del nostro incommensurabile patrimonio artistico è notorio, ma in questo caso non hanno nemmeno avuto la scaltrezza manageriale di vedere oltre la Tomba del Gladiatore per farne un’attrazione del turismo cinematografico. La Nuova Zelanda ha magicamente attirato soldi con una finzione che nemmeno appartiene a loro, noi ricopriamo di terra la nostra storia e il nostro passato. C’è chi ha la mentalità da gnomo e chi da gladiatore. Si sono solo invertiti i luoghi.