Magica come un luna park

Tunnel of love dei Dire Straits la ascolto da decenni trovandola ogni volta bellissima. Qualche mese fa arriva dalla radio accesa, stava passando via un po’ così, come tutte le canzoni che non scegli tu di sentire, ma a un certo punto mi blocco in mezzo alla stanza. Non era come al solito per ascoltare il pezzo di chitarra di Mark Knopfler, mi sono fermata per tentare di carpire il segreto di questa canzone, perché in quel momento, per la prima volta, ho pensato che portasse in sé una qualche magia per resistere così al tempo, quello cronologico e quello interiore, che muta e che ci rende diversi e non sempre corre parallelo a quello esteriore. Con gli occhi chiusi, ho provato a visualizzare le dita sulle corde della chitarra, quando le sfiora e quando per qualche secondo le stringe, come se il segreto potesse essere lì. Ma per uno che non ha studiato musica è un’impresa impossibile (in uno dei miei dialoghi interiori con l’altra me stessa, una volta dissi: Darei una mano per suonare come Mark Knopfler. E quell’altra: ah sì, e poi con che cosa suoneresti? Ah, già, non ci avevo pensato). Così mi sono data a meditazioni a me più consone. Tunnel of love appartiene a un periodo in cui la musica inglese andava alla grande ma è mia opinione che i testi valevano spesso una cicca di tabacco. In quanto a profondità o estetica lasciavano a desiderare, però servivano a imparare una gran quantità di parole in inglese. Invece di questa ho sempre trovato molto bello anche il testo. È un piccolo film che celebra una vita di corse e di corsa, che magari lascia indietro qualche pezzo anche importante, e qualche rimpianto, ma basta salire sul prossimo giro…
Una frase che mi piace molto: In a screaming ring of faces I seen her standing in the light/She had a ticket for the races, just like me she was a victim of the night. Che bei tempi quelli in cui si era vittime della notte, che adoravi finché non stramazzavi al suolo dalla stanchezza.
Ma questa è addirittura poetica: And in the roar of the dust and diesel I stood and watched her walk away, il fragore della polvere e del diesel, un baccano che viene da cose che non fanno rumore, un turbinio maleodorante che pure ha dentro una luce.
E questa canzone qualche segreto ce l’ha se si è disvelata negli anni. Prendiamo la Spanish city, che è poi la protagonista del pezzo. Il mancato plurale di city (se fosse stata LA città, quale città?) pensavo fosse una specie di licenza poetica, o questione di ritmo, ties gli avrebbe incasinato le cose. Come non ricordare al proposito she don’t need to understand di Rio dei Duran Duran. Quindi per anni ho pensato che i genitori di Mark Knopfler l’avessero portato in Spagna da piccolo e che lui l’avesse trovata bella, e quindi la ragazza era bella come le città spagnole. Finché, ascoltandola su YouTube, vedo il commento di un inglese: ho dei bellissimi ricordi di quando da piccolo andavo alla Città spagnola. Rimedio alla mia ignoranza: «La città spagnola è un centro per la ristorazione e il tempo libero a Whitley Bay, una cittadina sul mare a North Tyneside, in Inghilterra». Qualche tempo dopo questa scoperta, ritroverò altre Città spagnole, in altri luoghi, in telefilm inglesi.
Peccato di superficialità: mi piaceva l’idea che lei gli desse un lucchetto d’argento, remember me by this, ma il locket è un medaglione. Delusione, preferivo il lucchetto. Che abbia fatto il mio stesso errore anche quello lì che ha lanciato la moda dei lucchetti?
A questo punto però divento più accorta: su che cos’è che diventa crazy? Sui waltzers… «It is a fair ride where there individual carts which spin on a circular track mounted on a board which spins round and goes up and down. The people running the ride spin the individual cars round and round. It’s a typically British fair ride».
Insomma, è un’apoteosi di inglesitudine, che non si chiude con rock away, rock away ma con Rockaway.

Ma le meditazioni linguistiche non mi bastavano, avevo bisogno di uno che sapesse di musica e sapesse anche suonare. Prendo il telefono e scrivo: potresti per favore spiegarmi come suona la chitarra Mark Knopfler in Tunnel of love? Pensavo che per la prima volta in vita sua mi rispondesse rudemente: cosa vuoi che me ne importi a me di quella musica commerciale? Sissignori, perché con uno che ascolta i Pink Floyd degli anni ’70 e gli Who e i Genesis bisogna starci attenti. Invece mi telefona felicissimo: gli piace la domanda e pure Tunnel of love e anche i Dire Straits. Pfuii.
Diligentemente trascrivo quanto mi dice:
Mark Knopfler suona con uno dei due modelli di Fender. Suona con le mani e non con il plettro (nemmeno a me piace suonare con il plettro, aggiunge). Questo dà un tocco morbido e degli assetti molto suggestivi. Usa la tecnica del flamenco, spagnoleggiante (ecccoooo, interrompo, è veroooo). Arpeggi strappati, toni latini innestati su un blues elettrico. Suona la chitarra elettrica come se fosse acustica. Ritarda le note (sì sì sìììì, volevo farti sentire proprio quel pezzo in cui ho quella sensazione), ciò crea un’atmosfera sospesa, è una musica espressiva come se fosse una narrazione. Ci sono figurazioni ritmiche diverse (quest’ultima frase la riporto ma a dir la verità non so se era a sé stante o collegata a un altro discorso, ormai era partito in quarta e non riuscivo più a stargli dietro).
E continua:
– Mark Knopfler è nato a Glasgow.
– Ah sì? Pensavo fosse inglese, qualcosa tipo New Castle come Sting. In un’intervista ha detto che suo padre operaio ha fatto gli straordinari per comprargli la chitarra, una cosa che mi ha commossa.
Potrei continuare con i Police e le riflessioni sull’Inghilterra operaia degli anni ’80, ma mi fermo qui.

Un monumento a Mr. Knopfler per non aver detto di no a suo figlio e grazie a Carlo Crescitelli sempre disponibile alle spiegazioni.