2/Mare, cibo, umani

Questa volta è toccato a Pegli vedere il triste figuro appena arrivato che col cuore in subbuglio e le braghe arrotolate saggia la temperatura dell’acqua e la consistenza del terreno, quanta sabbia, quanti sassi. Il giorno dopo sono già più organizzata. E purtroppo anche i miei pensieri si sono organizzati in uno schema più razionale. Perché sì, poter entrare almeno fino alle ginocchia nel mare e prendere il sole è bello. Il problema è che entri nel mare per cercare sollievo dal caldo, ma è ottobre e quindi no, non è normale. Non sono normali le sere a Genova senza il golf. Non è normale, conferma la signora del bar.

Deve esserci stata una mareggiata, grovigli di rami dilavati giacciono sulla spiaggia. Rami contorti che trattengono chili di plastica. Che cosa ti abbiamo fatto? Vorrei poterli liberare e chiedere scusa, ma mentre li guardo mi sembra che dicano: chiedete scusa a voi stessi, perché noi saremo sempre qui, voi, mah…
Mi colpisce un blister come mi avevano colpito delle pile abbandonate in montagna. Cose piccole che stanno in tasca, e mi è impossibile capire perché qualcuno della mia stessa specie abbia un cervello pieno di buchi.

Ma ciao! Resto perplessa: ma non mi dire che mi hai riconosciuto dopo due anni! Ma certo! Piazzetta San Carlo, ristorante dei cinesi che fanno da mangiare esattamente come i liguri perché, ci aveva tenuto a dirlo con l’orata: mio marito ha imparato in un ristorante genovese. Vado lì perché mi piace tutto, le alici marinate, le trofie al pesto, le cozze e i frequentatori che come un fritto sono un misto di lingue e stili. E poi non voglio più rischiare di dover ripiegare sull’Old Wild West.

Arrivano due. Lui sta parlando dei milioni di anni del mesozoico, lei risponde: quindi noi con i nostri 2 mila anni siamo una scorengia (sic). Ah, ok, penso, quindi Gesù è morto per qualcuno che ancora non esisteva e solo dopo suo padre gli ha fatto un parterre di idioti. Se poi scopriamo che le sue parole non sono state esattamente Mio Dio, perché mi hai abbandonato? dovremo accettare la verità.

Pensavo che i terrapiattisti fossero dei semianalfabeti che si erano creati la loro zona di conforto fisica e virtuale: chiusi in casa a chattare solo con chi la pensa come loro e alimentandosi vicendevolmente di segnali e simboli. Ogni numero letto alla rovescia o sommato e moltiplicato per X un orgasmo. E invece ecco lì accanto a me, a mangiare cibo vero, a parlare in buon italiano e a sciorinare dati con una sicurezza da Piero Angela, un essere umano con un cranio in mezzo alle orecchie. Vuole convincere quella dei 2 mila anni che la terra è piatta. Su tutte riporto due prove inconfutabili: il logo dell’Onu, eh, come mai, sul logo la terra è disegnata piatta? E poi come te lo spieghi che non c’è neanche una foto con lo smartphone della terra rotonda ma solo quelle della Nasa? Cerco di distrarmi dal disagio guardandomi intorno, ma al tavolo di fronte c’è uno straniero imbranato che sta facendo scempio degli spaghetti ai frutti di mare: taglia tutto col coltello, spaghetti, gamberetti, finanche le cozze e non ha capito a cosa serve il piatto vuoto che gli hanno messo davanti, e così il suo piatto è un pastone di cibo e scarti triturati. Dal disagio al disgusto. Non ce la posso fare. Alzo lo sguardo ai palazzi secenteschi e alla Madonnina che pietosa ci guarda. Come abbiamo fatto a finire così? chiedo, generalmente, alle vestigia degli antichi padri.

Un’estate di acque

Acqui Terme, un mezzo buco nell’acqua

C’è una parola che potrei aggiungere a questo tempo di pestilenza. Mi viene in mente così, in mezzo a luoghi che non mi arrivano veramente: ripiego. Riempiamo i vuoti lasciati dalle cose che avremmo fatto e che non possiamo fare con dei ripieghi. È come quando entri in un negozio con la voglia di qualcosa e quello ti dice: non ce l’ho, però ho questa. E va be’, vada per quella. Ti mangi quella roba lì che è un surrogato di quella là e fai finta che vada bene così. Ma quella là non è che se ne va e ti lascia in pace col tuo surrogato, ogni tanto ritorna a importunarti con immagini.
Acqui Terme era un posto che prima o poi sarei andata a vedere, ma per un weekend, non per una vacanza. Né mare né montagna, le sue colline solo una terra di mezzo senza il fascino dei due estremi. Anche beffarde, ricoperte così di vigne, sormontate dagli arroganti palazzi delle più famose case di vini, a circondare me che non bevo vino. Acqui Terme che di giorno rivela i segni mesti di un passato illustre, alberghi, terme che erano e non sono più; una piscina bellissima ridotta ad acquitrino. Speculazioni, mosse finanziarie andate storte. Ma di sera si accende di persone e la gran quantità di giovani salta all’occhio. Salta all’occhio anche un’altra cosa a dir la verità: la stravaganza dei commercianti con i loro orari di apertura strampalati che o ne prendi nota o vai alla cieca, con una certa malagrazia nei modi che è raro trovare nei posti turistici. Non bevi vino e non fai le terme, che sei andata a fare ad Acqui Terme? È stato un ripiego.
Però non è giusto parlare male di un posto per una mia sbadataggine. Perché il bello c’è sempre ovunque.

Per chi non beve vino c’è l’acqua. Dall’Acquedotto romano

 

alla Bollente, il cuore di Acqui, da cui l’acqua esce a circa 70 gradi e che di sera si illumina di rosso,

all’Acqua marcia.

Una signora mi dice che si può bere. Solo un piccolo sorso e mi sembra di aver bevuto un bicchierone di quattro parti di sale e una di acqua a cui si aggiunge un odore di uovo andato a male. Non a tutti piace, dice la signora divertita, però tanti la usano per gli occhi, io per mettere a mollo i piedi. A me l’hai fatta usare come acqua, grazie tante.

Il Museo archeologico

Il nome romano di Acqui Terme era Aquae Statiellae. I musei archeologici di solito li visitano le persone serie. Un’altra caratteristica di quelli minori è che spesso sono semivuoti. La seconda caratteristica mi ha preservato dal diffondere a una grande quantità di gente che la prima affermazione non è sempre vera, così saranno in pochi a raccontare che c’era una deficiente che rideva davanti alle didascalie. Gli abitanti della zona erano gli statielli e io ho detto come era possibile che dei nordici avessero un nome palesamente napoletano. Eh, infatti, sembra napoletano. Non ti richiamano i friarielli, scusa? La cultura non è contagiosa quanto la risata, lo impariamo in prima elementare. Ora che però ci penso, gli acquesi (o come si chiamano gli statielli di oggi) si salutano con: com’è? che usano anche ad Avellino, o forse anche a Napoli, non so. Può essere che piemontesi e campani se la siano vista già prima dei tempi noti.

Le insegne di Nizza Monferrato, che meraviglia

Asti

Il Duomo

Canelli

Acquasanta (Genova)

Di solito le stazioni dei treni stanno giù, ad Acquasanta hanno deciso di metterla su. E quindi prendo la strada che va giù, tra tornanti e boschi. E ritrovo un po’ me stessa. Tranne che nel pensiero improvviso di quanto i cinghiali si siano moltiplicati e questo sembra proprio un posto dove i cinghiali potrebbero trovarsi bene. Me stessa non ha voglia di trovarsi a guardare in faccia un suino selvatico. C’è il santuario, ci sono le terme, c’è una meravigliosa vasca idromassaggio esterna che guardo con invidia, non c’è niente da mangiare se non un panino alle terme, che riesco a ottenere solo dopo aver circumnavigato l’edificio, provato la febbre e conquistato un braccialetto-diavoleria che segna i soldi della consumazione. Per tornare alla stazione c’è un pullmino che porta su, che Dio lo benedica.

Genova, anche come ripiego non delude mai

Chiamarla ripiego è un’eresia ma tant’è. L’esosità dei liguri quest’anno è riuscita ad arrivare a un livello ancora più alto. E quindi, cari i miei liguri di Chiavari, Sestri Levante eccetera, andatavene a quel paese, quest’anno avrete un milanese in meno da spennare, quest’anno mi impunto, quest’anno avete a che fare con una più miscia di voi.

Arenzano, Parco Villa Sauli Pallavicino

Vesima

Non tutti i treni fermano a Vesima, che fa sempre parte di Genova. Una volta arrivati si capisce perché. Un paio di bar, un edificio che non si comprende cos’è, il resto spiaggia. Il motivo per cui non mi chiedo che cosa ci faccio io qui?: ci sono venuta per quella. Ma è inevitabile chiedersi che cosa ci fanno loro qui,

mucche al pascolo in mezzo a delle macerie che sovrastano la ferrovia. Tutti gli occhi si spostano dal tabellone degli orari a loro e restano lì, magari con un po’ di ansia che ruzzolino giù. All’homo sapiens sapiens basta poco per inchiodarsi su qualcosa che ormai non capisce più.

Sampierdarena

Il ponente di Genova è la Cenerentola della città, con buona pace di chi ci abita che è palesemente la parte che tira la carretta. Ma io avevo visto che c’era del bello tra un cantiere e l’altro e comunque è irritante che il turista vada sempre verso le stesse cose. E infatti, Sampierdarena ha dei bellissimi palazzi e, quasi nascosto, il parco di Villa Scassi.

Sant’Agostino

Il logorroico portiere di notte dell’albergo mi dice che nella chiesa di Sant’Agostino (ex, in realtà) ci sono due Rubens poco pubblicizzati. E allora si va, con la metro scendo alla fermata Sant’Agostino senza neanche sapere dove sbucherò. Il davanti ok, ho capito all’incirca dove sono, ma è quando mi volto che mi sale un’imprecazione: maledette stradine in salita intervallate da scalinate di cui non si vede la fine. Meno male che domani torno a Milano, il massimo dello sforzo lo scalino del marciapiede. Mi inerpico come un caprone male in arnese. Ma ecco alla fine ergersi il colore.

Non è Sant’Agostino ma San Salvatore, ma in quello stato di fatica ogni santo è luce. E la luce dei colori dei cibi stretti nei carruggi esplodono nella mia anima di caprone. Ma dove sei stato fino adesso, quartiere Sant’Agostino o come ti chiami?

 

L’ex chiesa è chiusa da un’impalcatura, pazienza. Mi addentro, passando da un moto di indignazione,

discesa fino a Porta Soprana

e poi ancora giù finché non intuisco il retro di Palazzo Ducale. Ah, ecco, ma tu guarda che oca, sempre a voltare dalla stessa parte e non provare con l’altra.

Genova 2 – Staglieno

Il Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova è un po’ l’omologo del Cimitero Monumentale di Milano: un museo a cielo aperto. Converrebbe quindi andare preparati, oppure affidarsi direttamente a una visita guidata. O ancora, e perlomeno, studiarsi la piantina all’ingresso. Ma questo non è un blog di approfondimento culturale, lo chiamerei emozionale. Non c’è flusso di dati e date ma di pensieri. E di informazioni di servizio magari. Il cimitero si raggiunge con vari autobus, io ho preso il 34 da Brignole, che una volta lasciate le zone più note mi ha immerso in una Genova sconosciuta. Salendo, ma dolcemente, non come quando mi sono ritrovata avvinghiata al sedile di fronte perché a mia insaputa aveva attaccato ad arrampicarsi per strade impervie e strette su fino a Sant’Ilario, sferzando bouganville che altere resistevano però agli attacchi e affiancandosi con precisione da geometra a macchine in sosta e viaggianti. Non sempre la precisione è proprio al millimetro, e infatti frequentando Genova ho esercitato l’occhio del turista-non turista: 1) non ricordo di aver mai visto un carrozziere: rimettere a nuovo la vernice di un’auto qui sarebbe del tutto inutile. 2) Se gli autobus sono quelli piccoli, sicuro che vi portano in qualche stradina da far drizzare i capelli. Comunque, il 34 è uno di quelli piccoli ma i miei capelli restano al loro posto sotto il cappello. Staglieno è sulle alture interne, al centro della città un po’ verso Levante. Il mare non si vede, sostituito da montagne non tante alte che hanno ancora spazi liberi. Scendo dal lato opposto al cimitero, la strada fiancheggia un grande letto di fiume. Resto a guardarlo, chiedendomi se quell’innocuo e grazioso rivoletto è uno di quelli che ormai ogni anno si gonfia all’inverosimile e furiosamente si trascina dietro ogni cosa. È lui, il Bisagno. Come a dire: da qui, potrei scaraventarti direttamente in quello che c’è dietro alle tue spalle.

Staglieno è enorme, fatto di lunghi porticati da cui talvolta partono scale in discesa, distribuiti sui piani di altura. Al centro altre tombe, senza monumenti o con quelli meno preziosi. Non ho ancora capito se la scultura è una delle espressioni che amo di più, ho l’impressione che sia così. Ne sono affascinata come di fronte a un mistero, come se della pittura fosse più facile capire che è stato possibile farla, con un talento fuori dal comune, certo, ma è qualcosa che nasce su materiali lisci, piatti, cancellabili, dove nessun errore è irrimediabile. Ma da una pietra che non si spezza o si sbriciola proprio quando non deve, come fa una scalpellata a toglierne occhi, mani, corpi? Me lo stava spiegando una volta uno che se ne intendeva, ma volutamente non l’ho ascoltato più di tanto. Non voglio più riprovare quel dolore di perdita incolmabile che ho sentito quando ho scoperto che il Gesù Bambino dei doni non esisteva.

I soggetti dolenti, senza consolazione, le Maddalene, la bimba mi commuove,

il dolore di un gesto ancora di protezione per un corpo che non ne ha più bisogno,

la Madonna che regge il corpo di un soldato appare speranza per una morte senza senso,

i drappeggi in scultura potrebbero inchiodarmi per ore,

la signora che non ha nulla né di dolente né di senza vita, direi piuttosto alquanto conturbante, mi fa sorridere.

Il soggetto delle porte che ricorre, le porte del Paradiso?

Non solo immagini sacre, molti hanno quella di loro stessi a far da guardia su se stessi. Che siano stati loro a volerlo? Che sia stato chi è rimasto a volere che le sembianze restassero per sempre?

O la ragione della loro vita.

Sembra un crescendo,

ed ecco che lo faccio, prima le sfioro e basta e poi le tocco, quasi le abbraccio, tanto non è un museo e nessuno mi abbaierà di tenere giù le mani. Fare le foto è difficilissimo: il sole filtra tra le colonne creando lampi di luce e ombre fitte.
Avevo visto un piccolo cartello indicatore: Tomba di Mazzini. Torno a cercarlo ma il cartello non è seguito da altri. Provo a chiedere alle poche persone che ci sono, qualcuno mi dice “su dove ci sono i protestanti”. Da che cosa li distinguo i protestanti, di grazia? vorrei domandare. In sostanza, pare che della tomba di Mazzini ai locali non importi molto. Ma mi sento in colpa, questo non è un museo, loro vengono per i loro cari, perché dovrebbero sapere dov’è Mazzini?
Nella ricerca del Mazzini, non posso evitare di fare ciò da cui mi ero trattenuta fino a quel momento: “rubare” una foto della foto. Io amo le vecchie foto, mi piace guardare i vestiti, le pettinature. Fare una foto era un avvenimento raro e da onorare con tutti i crismi. Sempre ben pettinati e coi vestiti della festa. E nemmeno ridevano. Oddio, c’è da dire che se avessero sorriso per tutto il tempo che ci voleva a fare una foto all’epoca gli sarebbe venuto un crampo. Però la fotografia doveva dare di te un’immagine di eleganza e compostezza perché era una delle tre o quattro che facevi in tutta la tua vita.

Ora ne abbiamo tre o quattro per ogni cinque minuti della nostra vita. Probabilmente delle migliaia fatte ne resteranno qualche decina, tanto si cancellano, si perdono nei meandri dei dispositivi. La compostezza se ne è andata a grandi passi, va alla grande quella con la lingua fuori, un esercito di foto tutte uguali di disgustose lingue. Mi fanno schifo le lingue e detesto l’omologazione delle immagini. In qualunque città vadano, quella resta sul fondo, davanti ci sono sempre e solo loro, in un gesto di vittoria o di sbracamento, anche se dietro hanno dei capolavori. Ma non sto giudicando, perché il digitale ha dato la stura alla mia compulsività fotografica. Eccomi lì, a meditare sulla rarità di queste foto con la macchina fotografica che mi penzola dal polso e il cellulare in mano. E non solo perché negli ultimi viaggi mi ha abbandonato ora una ora l’altro gettandomi nell’horror vacui. Ho bisogno di immagini, ho bisogno che i colori siano proprio quelli lì e scelgo il dispositivo che di volta in volta li cattura meglio, ho bisogno che le cose più belle siano salvate in due luoghi separati. Ho paura di non ricordarmi e con le foto a costo zero, il cervello può permettersi di andare in vacanza.
Genova esige sempre un tributo di fatica, glielo pago ancora una volta inerpicandomi su un sentiero che si fa via via più stretto fino a inoltrarsi tra le rocce. Sopra le rocce, lapidi. La bislacca che c’è in me non può fare a meno di farsi sentire: ma mica avranno tolto le rocce, sepolto e poi rimesse al loro posto? Ma saranno solo lapidi commemorative, no? Né la bislacca né l’altra giungono a risposte certe e questo signore sembra unirsi alla meditazione.

Finalmente, annunciata e circondata da targhe,

arriva la tomba di Giuseppe Mazzini, inaccessibile all’interno.

Tutto intorno altre targhe.

Sempre ridondante, eh? avevo prima apostrofato D’Annunzio. In realtà le ridondanze commemorative, questo linguaggio “da targa” mi sono sempre piaciuti. Ovvio, usarlo ora sarebbe fuori luogo, ma questo continuo scarnificare il linguaggio per renderlo più immediato non ci ha portato poi molto.
Ridiscendo. Il cimitero prosegue alla mia sinistra

ma un gruppo di persone mi dice che lì non si tratta più di pietre ma di un dolore qui e ora che pietrifica. Così vado dalla parte opposta.
Gli evangelisti c’erano tutte e quattro ma gli altri tre erano imprendibili.

Mi avvio alla seconda meta, una chiesa con presepe. La strada mi serve per provare a capire questo pezzo di Genova. Dovrebbe essere periferia ma a Genova questa parola non ha lo stesso significato delle altre città. Allora anche Boccadasse è periferia, se intendiamo una zona lontana dal centro. No, le visioni qui vengono ribaltate. Parti dal centro storico, che è l’apoteosi dell’iper: iperfrequentato, iperattivo, ipermultietnico, iperturistico, sali verso piazza De Ferrari, imbocchi via XX Settembre (che i genovesi chiamano via Venti o addirittura «sono in Venti», punto), la via più “in” perché i vari e variopinti negozi del centro qui lasciano il posto a quelli di medio e alto lusso. E infatti è la via che mi è sempre interessata meno, marcata dal franchising pertanto uguale in tutte le città. Arrivi a Brignole, fai senza immergerti nella fauna della stazione, anche quella è uguale dappertutto, e prendi la via del Levante. I bei palazzi tipici precedono la sontuosità di quelli di Albaro, e poi corso Italia e Boccadasse e l’antifona l’hai già capita: la Genova ricca sta a Levante. Che ogni città sia divisa a zone è assodato ma qui la distinzione assume un aspetto più crudele. Perché a Genova c’è il mare. E il mare bello, trasparente e pulito è a Levante. Il mare oleoso di petrolio sta a Ponente, dove ci sono i cantieri, dove la Superba se n’è andata. Resiste fino a Sampierdarena e poi li molla, i meno abbienti, togliendogli anche il mare. Riprende la sua allure solo a Pegli, il mare pulito no, solo l’allure, ormai lanciata verso il resto della Liguria.
E allora, che Genova è questa che non è né Levante né Ponente e nemmeno centro? Le case dal bel rosso ci sono, un po’ sbiadito, ma segnala che il quartiere è vecchio. Dopo poco non mi interessa più il giochino della collocazione in classi: mi piace anche questa Genova qua e comunque devo correre dietro al cartello della chiesa, che sparisce, le strade si biforcano, salgono, scendono ma il cartello resta in esemplare unico. Altro tributo di fatica in altura. Guardo in su le case più nuove. Hanno i balconi che danno nel vuoto, e non ci sarebbe niente di strano, è la struttura portante che non riesco a vedere dove poggia. Ho lasciato da pochi metri un segno di frana, sotto ho sentito gorgogliare acqua, e se quel gorgoglio si trasformasse improvvisamente in rombo, dove sta la struttura portante di questa casa? Capite adesso perché mi sono presa la briga di dividere Genova in classi sociali? Perché essere ricco a Genova potrebbe anche fare la differenza tra la vita e la morte, tra il mantenere la casa integra e vedersela spazzare via da un’ondata di fango. Alla sera ne parlerò con l’autoctona Giovanna, che aggiungerà un ulteriore elemento d’angoscia, perché quello non l’avevo considerato: «Io penso anche se dovesse venire un terremoto». Ce ne resteremo in silenzio qualche secondo.

Genova 1 -Natale al mare

Fuori tempo, lo so, ma è ancora gennaio. Ma può essere un’idea per l’anno prossimo, tanto Genova è sempre là, il mare anche, l’anno prossimo pure. Tornerò a breve su questi schermi senza presepi, ma ancora con pezzi della Superba.

Comitato di benvenuto. Grazie amici!

Ehm… non era per me?

Museo dei Cappuccini di Genova con mostra presepi

Fuori dai luoghi d’arte, dentro la città, amenità (e non)

Ma quello che esagera è sempre lui

Fuori Genova

Chiavari

Questa sedia che giace così, apparentemente senza padrone, più affascinante di tante contemporanee pseudosculture.

Pietra Ligure

Bogliasco

Gatto che fa l’indifferente… sotto di lui un pescatore stava mostrando delle gallinelle di mare.

Deve essere facile fare il presepe quando si vive in un paese che sembra già un presepe.

Di nuovo a Genova

Il tramonta accende le piante di Nervi (piccoli miracoli queste piante che vivono di nessuna terra, di acqua salata, quasi sempre sferzate da onde e vento) ancora bionde d’autunno.

Presepi di Boccadasse

Post… referendum

Genova Petroliodi Elena Colombo e Carlo Crescitelli

Il referendum sulle trivellazioni è fallito. Come una triste coincidenza, la sera del 17 aprile il flop sembrava voler essere sottolineato da quella lunga striscia nera che dalle alture di Genova è scesa quasi a mare, invadendo il torrente Polcevera, facendo bruciare occhi e polmoni, invischiando animali e pesci. Petrolio sputato fuori dal tubo di una raffineria.
Il vero fallimento però siamo noi, sempre pronti a lagnarsi ma mai a prendersi una responsabilità. Una consultazione è poter dire la nostra, qualunque essa sia, soprattutto perché negli ultimi anni le occasioni per farlo paiono poche. Io quindi toglierei il quorum perché è la partecipazione che deve vincere. Se non hai voglia di pensare, di informarti, di decidere, ti arrangi: lo faccio io e tu ti prendi quello che voglio io, che sia Sì o No.
È passato più di un mese, il discorso potrebbe essere ormai archiviato, anche perché la memoria è corta e macina notizie velocemente. Così Carlo e io, che tanto ne abbiamo parlato prima, ci siamo chiesti se fosse il caso di farlo un post… post-referendum. E abbiamo deciso di sì, perché non si può dire altrettanto archiviata la prossima Genova, che succederà, da qualche altra parte ma succederà. E parlando parlando ci sono venute sotto gli occhi le immagini terribili della devastazione che colpì una terra che già allora era nei nostri pensieri e che anni dopo avremmo conosciuto e amato proprio per la sua natura incontaminata: le Shetland. Nel 1993 la petroliera Braer affondò a causa di una collisione riversando in mare e sulle coste migliaia di litri di petrolio. Fu un disastro ambientale da cui sembrarono non potersi più riprendere. Il nostro “inviato” dalle Shetland Robert Leask, interpellato, ci risponde che tutti hanno avuto un cospicuo risarcimento: i contadini per i campi, chi per le case distrutte, i pescatori per una mancata pesca di otto anni. Non sono andati in pari: hanno avuto più di quanto hanno perso! E nei giorni prima del referendum le notizie non si fermano: la Bp è condannata a un risarcimento di 20 miliardi di dollari per i danni causati nel 2010 nel Golfo del Messico. E noi italiani sembriamo tutti movimentati, no questo no quello, non da me, non vicino a me. Robbie conclude il suo report molto pragmaticamente, come conviene a uno scozzese: «Chiuderò la lettera con questa immagine: sì, ottenere petrolio dal mare, come nel Mare del Nord o nell’Atlantico, è un lavoro pericoloso, ma è ben più pericoloso attraversare o guidare in discesa su una strada trafficata. E per quanto le piattaforme in terra o in mare siano lontane, che le vediamo o meno, è necessario chiedersi: ho un’auto e voglio usarla? Voglio viaggiare molto lontano, come ci arrivo? Con l’autobus, in treno, in macchina, in aereo o in nave? Comunque ci vuole il petrolio. Forse è meglio che stia lontano, magari davanti alla porta di qualcun altro, ma comunque ce n’è bisogno.»
E su questo ha anche ragione, ma sai che c’è Carlo? gli sibilo al telefono, è che il loro Stato li ama e li protegge e loro lo sanno, come tutti quelli che stanno nei Paesi del Nord (a distanza di anni ho ancora sotto gli occhi la faccia stupita di un nordico visto in Tv: perché non dovrei fidarmi? Se il governo dice che è sicura lo sarà senz’altro), al nostro invece gli stiamo proprio sul gozzo e sarebbero ancora loro ad avanzarne da noi, ecco perché non ci fidiamo e ci viene l’orticaria quando parlano di grandi opere.                                                                                                             Elena

Io invece non so se alla fine mi piacerebbe un referendum senza quorum, non so se vorrei essere interpellato su questo e su quello correndo in continuazione il rischio di una risoluzione del problema falsata dalla temporanea forza di un movimento di opinione o di una lobby. Come non so se mi piacerebbe per davvero una democrazia che si scaricasse delle proprie responsabilità delegandole al popolo in forma decontestualizzata. Come nel caso dei prossimi appuntamenti referendari per l’approvazione delle riforme costituzionali, dici? Appunto.
Quello che so è che ormai il futuro non può che essere delle singole comunità, che devono trovare in se stesse la forza di tracciare le linee del proprio domani. Altrimenti gli succederà quello che è successo a Genova. Dove la comunità non c’è più perché il territorio non c’è più perché la cultura locale non c’era più e nessuno aveva voglia di ripristinarla, presi come erano e sono dalle fallaci lusinghe dello sviluppo globale. E questo purtroppo è il risultato, lì come in gran parte del vostro Nord. Dove ancora non riesco a capire perché non costruiate una volta buona gli argini ai fiumi, o forse lo capisco, non c’è più lo spazio, il tempo e il modo per farlo. Una volta uno di voi mi ha detto: “Fate bene, a difenderlo, il vostro territorio, almeno voi che ce l’avete ancora, perché noi l’abbiamo svenduto da un pezzo”. E aveva proprio ragione: noi al Sud un territorio che abbia un suo senso, per quanto disastrato e negletto possa essere, ce l’abbiamo ancora, ed è per questo che non ci vogliamo le trivelle. Perché le trivelle, come prima le discariche e come adesso le pale eoliche, sono il magro compenso della svendita che ci chiedono, quella della nostra identità alle vaghezze del controverso e incerto sviluppo economico, secondo strategie delle quali un domani presto o tardi ci saremo dimenticati. Come quando volevano industrializzarci dappertutto così di botto da un anno all’altro, e ne paghiamo ancora le conseguenze oggi, di quel disastroso progetto. Allora, a noi tutti sembrava una ottima idea: oggi, ci chiedete come abbiamo mai potuto permetterlo. Permetterlo? Ma noi ne eravamo addirittura entusiasti… ed è un ipocrita chi finge di averlo dimenticato. E sai che ti dico, Elena, a questo punto? Che, guardando con gli occhi di oggi e ragionando con la mente di oggi, abbiamo sbagliato pure con il referendum sul nucleare. Ma anche quella sembrò una buona idea. Se mi fido di Stato e governo, dici? Ma certo che no, mi sento come in una riserva indiana, come in un altipiano tibetano dove sei rimasto per decenni a sbrigartela da solo nel bene e nel male, epperò poi un bel giorno arriva qualcuno a dirti che loro ti portano lo sviluppo e tu hai una idea abbastanza chiara che sono venuti poco più che a romperti le scatole e basta, ma intanto che fare? Il nativo sei tu, e di startene per i fatti tuoi qui non se parla più, ormai la frittata è fatta. Come in 1984 di George Orwell, è la loro neolingua che ti insidia, quando ti dicono: ma se non qui allora dove? Sei il solito not in my back yard, lo vedi? Ma invece sei tu che devi farmelo, un piano e un progetto dentro e fuori il mio backyard, eh ma mica la solita fregatura a chi tocca tocca, un piano vero, voglio dire, come nei paesi del Nord Europa dove la gente si fida dei loro governi, perché sono quelli che gli danno ragione di fidarsi.
                                                                                                                                   Carlo