Chiedi alla polvere e ti sarà dato

La polvere è quella delle strade, dei mobili, dei bar, dell’albergo triste dalle architetture al rovescio. È quella che si deposita sui sogni disattesi di chi ha deciso di passare gli ultimi anni di vita in California, lasciando gli stati interni per godersi un eterno sole, così eterno da rimpiangere la neve e il freddo di casa propria, perché il non mutare mai delle stagioni diventa un infinito presente tutto uguale. Anche la sabbia del deserto è polvere e si incastra nei meccanismi di una macchina da scrivere, ed è questa la più tragica di tutte le polveri. Fin dove si è disposti a spingersi per realizzare il sogno di diventare scrittore? Fino a nutrirsi solo di arance, col succo che si rimescola dentro lo stomaco che non lo sopporta più. Fino a mentire alla propria madre per farsi mandare soldi. Fino a spendere tutti i soldi rimasti con una prostituta solo per farti raccontare qualche storia che possa riportarti alla macchina da scrivere. Arturo Bandini sa di poter diventare uno scrittore di successo, ha già avuto una possibilità. John Fante trascina in questo suo mondo di rincorse continue: dietro a un amore furioso, dentro a luoghi oscuri, assieme a persone sordide o disperate. Per Arturo Bandini la via di mezzo non esiste: ora odioso e violento, ora generoso salvatore di anime perse, Bandini che scende nell’abisso senza perdere l’ironia.
Storie che vivono in un’America altra. Non c’è Sunset Boulevard in questa Los Angeles, non macchine enormi e persone bellissime, c’è una ruota panoramica di un luna park in riva al mare che non si sa perché risulta famigliare, ci sono le spiagge ma anche il deserto terribile che incombe. E c’è il sogno americano, nascosto però dietro alle sofferenze di chi deve conquistarselo, perché c’è sempre qualcuno più immigrato di te, in una catena di sopravvivenza dove l’italoamericano può maltrattare la messicana e la messicana può chiamare gialli i giapponesi.

«Mi sdraiai sul letto e mi misi a pensare, fissando le chiazze prodotte dalle luci rosse del St Paul, che balzavano dentro e fuori dalla mia stanza, e sentendomi un verme perché quella sera mi ero comportato come uno di loro. Smith, Parker, Jones, gente con cui non avevo mai avuto niente a che spartire. Ah, Camilla! Quando ero ragazzo, laggiù nel Colorado, erano questi stessi Smith, Parker e Jones a ferirmi apostrofandomi con atroci nomignoli. Per loro ero Wop, Dago o Greaser e anche i loro bambini mi insultavano, come io ho insultato te, stasera. Mi hanno umiliato al punto da farmi diventare diverso e mi hanno spinto ad accostarmi ai libri, a rinchiudermi in me stesso, a scapparmene dal Colorado. E sai, Camilla, quando vedo le loro facce, riprovo a volte lo stesso dolore, la stessa umiliazione di allora e sono felice che siano qui, a morire sotto il sole, sradicati, ingannati dalla loro durezza; sono le stesse facce, le stesse bocche tirate di allora, che concludono le loro vuote esistenze sotto il sole rovente.
Li vedo negli atri degli alberghi, li vedo mentre si crogiolano al sole, nei parchi, e mentre escono vacillando da piccole chiese senza bellezza come il Tempio di Aimee o la Chiesa del Grande Io, con il volto rabbuiato dal contatto con i loro strani dèi.
Li ho visti sbucare dal cinema, vacillando e sbattendo gli occhi vuoti di fronte alla realtà, e poi tornare a dirigersi verso casa a leggere il «Times» per sapere cos’era successo nel mondo. Ho vomitato sui loro giornali. Ho letto i loro libri, studiato le loro abitudini, mangiato il loro cibo, desiderato le loro donne, ammirato la loro arte. Ma sono povero, il mio nome termina con una vocale dolce e loro odiano me, mio padre e il padre di mio padre. Avrebbero voluto succhiarmi il sangue e abbattermi come un animale, ma ora sono vecchi e stanno morendo sotto il sole e nella polvere calda delle strade, mentre io sono giovane e pieno di speranze e di amore per il mio paese e i miei tempi, e se ti chiamo «indiana» non è il mio cuore che parla, ma il ricordo di una vecchia ferita, e io mi vergogno della cosa tremenda che faccio.»

Chiedi alla polvere è uno swiffer su un mucchio di letture inutili e di scritture scialbe.
Non è uno di quei libri che finiscono con l’ultima pagina. Ti porti dentro le sue strade ignote mentre percorri le solite di ogni giorno e i suoi personaggi e le loro vicende piccole che si intrecciano con il Tempo grande. E questo è scrivere. Che invidia. Non si invidia Michelangelo, si invidia Renoir, perché il primo è irraggiungibile e il secondo invece ha qualcosa di normale, potresti riuscirci anche tu (sì, vabbe’…), e allora non si invidia Dante, si invidia John Fante.

Fermati, scrittore, e parlami di te

fabrizio bolivar

Ho già scritto di Fabrizio Bolivar in un mio precedente post, parlando però soprattutto del suo libro Sei a zero. Ma appartenendo egli all’eroica schiera degli scrittori part-time, volevo sapere di più. E non è una cosa facile, perché se arrivi nei loro momenti creativi sei una fonte di disturbo (e se sono part-time, mica gli puoi portare via una part del time), quando ne escono poi non si ricordano più cosa gli avevi chiesto – davvero mi hai chiesto un’intervista? – ma sembrano contenti. Non devi aspettare molto però, perché poi spariscono di nuovo, presi dalle parole, persi in una nuova avventura.  E adesso è qui, a questo tavolo da bar virtuale. Una Coca, acqua o un bicchiere di Lambrusco mantovano… mah, tanto è tutto virtuale, appunto.

E dunque, Fabrizio, chi sei e come ti sei trovato a scrivere libri?
«Lavoro in un’azienda che eroga servizi sul territorio. A Mantova. Un lavoro da impiegato spesso impegnativo, ma troppo spesso noioso e poco stimolante. Il tempo che mi rimane lo dedico al tennis, ai libri e ai film. Ho iniziato a scrivere una quindicina d’anni fa. Quasi per gioco, forse per noia. Ero a casa dal lavoro per qualche giorno, confinato nel mio appartamento dall’influenza. I programmi tv erano inguardabili e i libri a mia disposizione non un granché. Così ho iniziato a scrivere un racconto. La settimana successiva l’ho inviato ad alcuni amici, i quali l’hanno trovato divertente. Quindi ne ho scritti altri, e poi altri ancora».

Da dove trai spunto per scrivere le tue storie?
«Le mie storie prendono spunto più che altro dalla realtà. Ricordi e aneddoti che spesso non hanno nulla a che fare con la mia esperienza personale, ma che mi sono stati riferiti da amici o conoscenti. Anche i giornali sono un’ottima fonte di notizie. Quando noto qualche articolo strano cerco di archiviarlo in memoria per poi magari utilizzarlo se ne capiterà l’occasione (dice di farlo anche Andrea Camilleri, ndr). Invece il carattere e l’aspetto fisico dei personaggi arriva dall’osservazione diretta delle persone che incontro nella vita di tutti i giorni. Dell’autore alla fine rimangono solo alcune riflessioni, generalmente veicolate dal protagonista del romanzo o del racconto».

Quali emozioni ti porta la scrittura?
«La scrittura mi diverte. Molto. Forse la cosa è facilitata dal fatto che in genere tendo a descrivere situazioni comiche. Anche se spesso hanno un retrogusto amaro. È il genere di umorismo che preferisco. Spesso mentre scrivo mi ritrovo a ridere da solo. E poi mi chiedo, ma quello che fa ridere me, farà ridere anche gli altri? Certo che farà ridere anche gli altri, mi rispondo senza troppa convinzione. Se poi la pagina che sto scrivendo mi viene davvero bene, esattamente come volevo io, beh in quel caso mi sento soddisfatto. Invece quando scrivo e cancello, riscrivo e ricancello, giro e rigiro la frase, e poi alla fine mi alzo dalla scrivania e vado a vedere la tv, ecco, in questo caso l’emozione che vivo potrebbe essere sintetizzata con il termine frustrazione. Anche se incazzatura rende meglio l’idea».

Nel tuo libro Sei a zero citi John Fante e nell’intervista che ho trovato nel web nomini il suo A Ovest di Roma, un libro in cui sono incappata per caso e che anch’io ho amato moltissimo. Negli autori che ami di più, trovi una fonte di ispirazione?
«Grande John Fante, il mio scrittore preferito. Ti consiglio Full of life, grandissimo libro. Di John Fante ho letto tutto, anche le lettere. Di certo gli autori che amo sono una fonte di ispirazione. In qualche modo sono condizionato dal loro modo di scrivere, forse anche inconsciamente. Il risultato però devo ammettere che non è a livello dell’originale, altrimenti sarei un fenomeno…».

Secondo te gli e-book sono la grande possibilità per tutti di realizzare il sogno di vedersi pubblicato o proprio per questo è la fine di un’editoria di qualità?
«Tutti oggi possono autopubblicarsi e trasformare i propri testi in e-book. Oppure farsi pubblicare a pagamento. A mio avviso però la realizzazione di questo genere di sogni è di scarso valore, proprio per il fatto di essere alla portata di tutti. Fare un salto di qualità è difficile, ed è l’ambizione di molti, e ovviamente anche la mia. Mi piacerebbe ci fosse meritocrazia nel mondo dell’editoria. Mi piacerebbe che tutti partissero alla pari, che tutti i concorsi fossero imparziali e che non esistessero canali preferenziali per i soliti raccomandati. Insomma, un’utopia. Secondo me comunque la buona editoria non morirà, peccato che per alcuni talenti sarà inaccessibile. Perché tra le migliaia e migliaia di proposte qualche vero talento senz’altro c’è. Ma senza nessuno che arrivi a leggerlo e a valutarlo seriamente quel talento finirà per continuare a scrivere solo per se stesso e per pochi amici. L’unica possibilità per tutti coloro che se lo meriterebbero ma che non hanno modo di farsi notare, è la solita vecchia botta di culo. Almeno quella speriamo non abbia canali preferenziali!».

Venendo alla tua città, il terremoto del 2012 ha gravemente danneggiato i palazzi storici di Mantova e tutti abbiamo guardato inorriditi le crepe di Palazzo Tè con la sua straordinaria Sala dei giganti. Non si era però fermato uno dei suoi eventi di maggior successo, il Festivaletteratura, che esiste dal 1997, e quest’anno Mantova sarà Capitale della cultura. Come si sta preparando?
«Riguardo il terremoto, a parte qualche impalcatura ancora presente e la cupola di un campanile in via di sistemazione, la città si è ripresa. A Mantova gli eventi culturali non mancano. È una città ricca di storia e iniziative. Prima fra tutte, appunto, il Festivaletteratura. Quest’anno di certo la città sarà ancora più viva. Il Comune si sta preparando e credo proprio non deluderà le aspettative».

Non solo Mantova città, però. Il 31 gennaio si è chiusa la X edizione del NebbiaGialla Suzzara Noir Festival, un’altra manifestazione culturale dedicata alla lettura e alla scrittura.
«Suzzara in giallo è un’iniziativa dello scrittore Paolo Roversi. L’ho conosciuto anni fa, e ho letto anche un paio dei suoi libri. Ma il festival non lo conosco».

Per ringraziarti di esserti fermato qui, vorrei augurarti (si possono fare gli auguri a uno scrittore?) di ritrovarti presto con un’altra tua creatura di carta. C’è già qualcosa che bolle in pentola?
«Gli auguri ad uno scrittore sono assolutamente d’obbligo, soprattutto per coloro che come me non sono per niente superstiziosi. Quindi grazie molte. Sto scrivendo un nuovo romanzo. Sarà un romanzo un po’ strano. A mio giudizio però l’idea di base è molto interessante. Posso solo aggiungere che mi devo documentare parecchio. Quindi è un progetto che richiederà molto tempo, del resto me lo posso permettere, visto che non ho nessun editore alle calcagna… Magari ce l’avessi… il romanzo sarebbe finito, rivisto e corretto per mercoledì prossimo!».

Bibliografia di Fabrizio Bolivar
Maledetta Vita, raccolta di racconti, 2004, Fara Editore di Rimini
480 caratteri spazi inclusi, raccolta di racconti brevi, 2006, Compagnia dei Librai di Genova
Autopubblicati con ilmiolibro
Ti lascio le pentole, romanzo, 2011
Vaccaboia che idea, raccolta di racconti, 2012
Microstorie, raccolta di racconti brevi, 2012
Sei a zero, romanzo, 2015