Post su Milano

Ho dato il seguente prompt (ChatGPT talkai.info) = Scrivi un post di 1.000 battute su Milano.
In circa 1 o 2 secondi ha sfornato 2.525 battute, non 1.000 come avevo chiesto, si evince che non comprende i numeri in un contesto che non sia quello matematico o non è addestrata per capire il significato di battute. Però conosce le basi di formattazione del testo a paragrafi: non ha reso un testo tutto di seguito ma suddiviso in blocchi brevi e distanziati.

Poiché l’intelligenza artificiale si nutre di quanto già pubblicato, probabilmente questo post avrebbe un buon posizionamento nei motori di ricerca. È la descrizione classica di Milano, senza punte di novità e senza citare qualcosa che appartenga a una Milano un po’ meno conosciuta. È però sicuramente carente su due aspetti: 1) più che cotolette e risotto, mangi sushi et similia, nel senso che ciò che realmente non manca a Milano è il cibo internazionale, è una notizia che potrebbe interessare molto ai turisti; 2) la qualità di vita a Milano non è alta, considerando che a marzo 2023 si è “guadagnata” il terzo posto tra le città più inquinate e gli spazi verdi mancano totalmente in molte zone. Quello che c’è di alto a Milano, e che infatti è attualmente un problema discusso a vari livelli, è il costo per viverci. Poiché il post accenna all’eventualità di abitarci e non solo di visitarla, bisognerebbe controbilanciare questo eccessivo entusiasmo con dati reali.
E per finire, ciò che a mio parere manca in questo post è il livello personale, il racconto delle sensazioni che un luogo ci restituisce, magari anche negative ma comunque vissute in prima persona.

A “discolpa” dell’IA, il mio prompt è stato estremamente sintetico e privo di qualsiasi informazione che potesse meglio indirizzarla.

Milano, la città che non smette mai di sorprendere. Una metropoli dove modernità e tradizione si fondono in un connubio perfetto, rendendo questa città unica nel suo genere. Camminando per le sue strade si è immersi in un’atmosfera cosmopolita, dove il passato si combina con il presente in un modo unico.

I monumenti storici che punteggiano la città raccontano la sua ricca storia. Dal Duomo, maestoso e imponente, simbolo indiscusso di Milano, al Castello Sforzesco, antica residenza dei duchi di Milano, fino alla Galleria Vittorio Emanuele II, una delle gallerie commerciali più antiche e prestigiose al mondo. Ogni angolo di Milano è immerso in storia e arte, offrendo ai visitatori un vero e proprio viaggio nel tempo.

Ma Milano non è solo storia e arte, è anche un importante centro economico e finanziario. La città è sede di numerose aziende multinazionali e ospita uno dei quartieri degli affari più importanti d’Europa, il quartiere di Porta Nuova. Questo sviluppo economico e finanziario ha reso Milano un vero e proprio hub internazionale, attirando professionisti e artisti da tutto il mondo.

Non si può parlare di Milano senza menzionare la moda e il design. La città è famosa per essere la patria di grandi stilisti come Giorgio Armani, Dolce & Gabbana e Versace, solo per citarne alcuni. Ogni anno, durante le settimane della moda, Milano si trasforma in una passerella a cielo aperto, attirando la crème de la crème del mondo della moda.

E non dimentichiamo il cibo! Milano vanta una tradizione culinaria straordinaria, con una vasta gamma di ristoranti e trattorie che offrono piatti succulenti. Dalla celebre cotoletta alla milanese ai gustosi risotti, c’è qualcosa per tutti i palati. E, ovviamente, non si può lasciare Milano senza aver assaggiato il celebre panettone, dolce natalizio milanese conosciuto in tutto il mondo.

Ma Milano non è solo una città per i turisti, è anche un luogo dove vivere. La qualità della vita a Milano è alta, con una vasta gamma di servizi, dai trasporti pubblici efficienti alla presenza di parchi, spazi verdi e strutture ricreative. Inoltre, la città offre una vita notturna vivace, con numerosi locali, bar e discoteche dove divertirsi fino a notte fonda.

In conclusione, Milano è una città unica che offre una combinazione perfetta di tradizione, modernità, storia, design e cultura. È una città che ti cattura, che ti coinvolge e che ti fa rimanere incantato. Milano è una città da vivere e da amare, e chi ha avuto la fortuna di visitarla, sa perfettamente di cosa parlo.

Una descrizione della Milano del 1869

Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini – quel convegno di artisti che non lavorano, di cantanti che non cantano, di letterati che non scrivono, e di eleganti che non hanno uno spicciolo – e si parlava, raccolti in buon numero attorno ad un tavolo […]

Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il naviglio dalla parte occidentale della città – una vecchia casupola a due piani che il tetto sembrava comprimere e schiacciare l’uno sull’altro come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed angusti. Correvanle tutto all’intorno alcuni assiti neri e tarlati su cui si arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi.
Un setificio vicino l’avvolgeva notte e giorno in un’atmosfera di fumo, l’umido del naviglio aveva prodotto qua e là alcune rifioriture nell’intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di muffa e di piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la bocca e pel naso al primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che risciacquavano, e sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a sera un baccano continuato e assordante.
Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro della città, e conoscano con esattezza quella parte de’ suoi dintorni. Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in piccole proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo estremo di case che costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il Temple a Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra. (Iginio Ugo Tarchetti, I fatali, da Racconti fantastici)

Il ponte di Sant’Ambrogio tra scoperte e riscoperte

Parco industria Alfa Romeo Portello

Sembrerebbe che quest’anno sia stato segnato dalle panchine. Un po’ in panchina mi sono sentita a dir la verità, ma ora parlo di panchine vere. Dopo aver rincorso senza successo le Big Bench di Chris Bangle nel Monferrato, scopro per caso che a Milano c’è la panchina più lunga del mondo (stando alle fonti, 208 metri). Trovarla richiede un viaggio certamente meno avventuroso di quello delle colline, solo un minimo di orientamento e la dovuta attenzione a non farsi travolgere dalla mandria di cavalli vapore che corrono in viale Renato Serra. Ma se in piazzale Lotto, ultimo punto di quiete prima delle strade ad alto scorrimento, c’è la mia adorata Lady Oscar, posso andare tranquilla.

Entro nel parco da un accesso laterale e il groviglio di pre-tangenziali svanisce alle mie spalle davanti all’incanto di un vialetto con roseti, che termina sotto un arco di mattoni al di là del quale si gioca al più pacifico dei giochi: le bocce.
L’impressione è quella di trovarsi nell’occhio del ciclone, l’unico punto di calma al centro della furia.

Si sale a spirale in questo parco e non lascia indifferenti la vista sulle nuove architetture.

E sempre la mia totale ammirazione per gli street artists.

Vedo entrare e uscire piccioni dalle finestre, segno di assoluto abbandono. Un pensiero: va bene costruire il nuovo ma perché lasciare andare un palazzo così bello?


Lecco

Non si può stare troppo tempo senza il blu e se non è blu di mare, che di lago sia.

Il sole, il tramonto, la sera, i palazzi che si illuminano di immagini in movimento e statiche.

Vigevano

Il freddo è proprio brutto, la sera si torna pesti di gelo e stanchezza ma domani nevicherà, dicono. E infatti oggi nevica. Ma ieri c’era il sole e mai come in questo periodo si sente che “ogni lasciata è persa”. E poi c’è quella cosa lì, che in un posto ci sei già stato più volte ma poi scopri che ti era sfuggito qualcosa, come il fatto che in una casa del centro storico è nata Eleonora Duse.

Letture di accompagnamento

Come ricordano le targhe con citazioni che formano un percorso, di Vigevano era Lucio Mastronardi (Il calzolaio di Vigevano, solo per citarne uno).
La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio per ritrovare (forse) in Ermione Eleonora Duse.

Alessandro Manzoni indossa sempre la maglia numero 10, soprattutto a Lecco, quindi per una volta sta in panchina.

Di Renato Serra c’è un pezzo che mi accompagna da quasi tutta la vita, così disperatamente lucido:

Che cos’è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera, lucida, nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa? Penso a quello che va sciupato, a ogni minuto, intanto che io parlo, intanto che io penso, intanto che scrivo, sangue e dolore e travaglio di uomini presi in questo gorgo vasto della guerra. Che cosa diventano i risultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennità, i patti, e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, davanti a ciò? Non c’è bene che paghi la lacrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizie, e il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. (Esame di coscienza di un letterato)

Bagliori natalizi e qualche lampo di mestizia

Stillante di nebbia e stanchezza da rush finale lavorativo prima di un po’ di quiete di giorni festivi, mi lascio trasportare da un bus che tra frenate e accelerate si districa tra il caos isterico di chi pensa che il Natale imminente sia una sorta di terza guerra mondiale. Guardo fuori dal finestrino, un lavavetri vestito da Babbo Natale attende che la fila si fermi nuovamente. Mi chiedo se esiste Babbo Natale nel luogo da cui proviene, se ha imparato che in questi giorni ci si veste così nel corso di lunghi anni passati sotto i semafori o se invece l’ha appreso da poco, se qualcuno glielo ha detto, se si domanda chi sia Babbo Natale e se ha voglia di tornare nel suo paese senza pancioni vestiti di rosso. Con qualche altro sconquassamento il bus riesce ad attraversare l’incrocio, un’altra coda e un altro questuante, questa volta un giocoliere che impavido si esibisce davanti a una fila di macchine, schierate così mi paiono una spaventevole pole position. Non faccio in tempo a dimenticare questi strani connubi che la sera vedo qualcosa di ben più triste. Venditori di souvenir con cappello rosso davanti alla basilica di Betlemme.

È sconcertante ricevere degli auguri così brutti, se poi comprensivi di errore proprio in quello che ti augurano potresti anche metterti a piangere.

Se invece intendevi augurarmi di trovare un Goya in solaio, allora grazie grazie mille volte grazie.

Per fortuna la luce arriva, anche il cibo porta luce, che diamine, se poi ha il nome pseudoesotico di lifferia è ancora più intensa. Cito dal sito di Pizzikotto: Liffo dal dialetto reggiano è tutto ciò che è Goloso e Gustoso. Ok, benvenuti a Milano.

Ah Milano, la fortuna di trovarla vuota e di riconciliarsi con essa. E chi c’è in giro la sera della vigilia? Quelli senza famiglia, dice. Seee, Oliver Twist, rispondo. E giù a ridere, che in questa deliziosa assenza di rumore sembra quasi faccia eco. Ci piantiamo nel mezzo della via Marghera e ci prendiamo tutto il tempo per l’inquadratura di qua, la prova luce di là… e quando mai ti ricapita?

Euforia da vuoto e da foto ci trascina in centro. E la macchina dove la metti? Qui, e ci metto sopra il biglietto Guasta. Ma scherzi? No, non vorrai che ci perdiamo questo spettacolo? Certo che no. Via Dante,

via dei Mercanti,

piazza del Duomo, e quella coda è per la messa? Naturalmente, chi vuoi che stia in coda con sto freddo alle 11 di sera? E poi non sono giapponesi. Corso Vittorio Emanuele che deve sempre strafare, anche in pacchianeria talvolta.

San Babila, lì con lo smartphone puntato ad aspettare che l’albero ridiventi azzurro.

E sotto la Galleria. Una famiglia c’è e il maschio si rifiuta di fare la foto alle vetrine di Prada. La spunta la madre Alfa, spalleggiata dal resto della famiglia. Usciamo in piazza della Scala e un orrore si erge davanti ai nostri occhi. Un paio di monoliti neri con delle luci rosse piantati davanti a Palazzo Marino. Madonna quanto è brutto diciamo all’unisono, pure la famiglia che si è accodata. Eh, ma è proprio vero che se cambi prospettiva cambi anche idea.

A Natale ti fermi, tranne le mandibole si intende. Niente stupidaggini, niente pensieri, niente meditazioni. Ogni energia dedicata al rifornimento e allo smaltimento. Ah, ma a Santo Stefano torni libero. E Bohemian Rhapsody fu. Il film parte come un’autobiografia un poco piatta. Inizi a notare la lotta dell’attore con i denti finti che devono riprodurre i quattro incisivi di Freddie Mercury. Dopo un po’ questo dissidio dà anche fastidio a dire la verità, ma mai quanto i miei vicini anzianotti ma stupidotti come degli adolescenti. I gatti sono gli animali preferiti dai gay e dalle donne single, hai mai visto una donna single col cane? dice lui. L’uomo single ha il cane, la donna no. Mi verrebbe voglia di girarmi e dirgli: non la puoi vedere perché il cane va portato fuori e se sei da solo e lavori non puoi avere un cane, testa di uovo che non sei altro, e adesso chiudi quella ciabatta e guarda il film. Macchè, bisogna anche fare l’urletto perché Freddie Mercury bacia un uomo (era gay, vedi tu, chiudi la ciabatta), il commento perché l’attore non è alto come Freddie Mercury (vedi in giro tanti uomini col fisico di Freddie Mercury? Chiudi la ciabatta). Ma poi il film esplode, o meglio, è la musica a farlo esplodere, fino alla fine, e con tutte le balordaggini che ho dovuto sentire mi merito di mettermi a cantare inside my heart is breaking, my make-up may be flaking, but my smile still stays on-ooohhh-on… e se do fastidio a qualcuno spostatevi più in là.

Il tram 16 è pieno di allegre famiglie che vanno allo stadio, bambini che non stanno più nella pelle. San Siro scoppia di urla, gli scatto un paio di foto, pur così avvolto nella nebbia, per mandarle a Sabi. Dida: Visto che non sei qua… E forza Napoli! Sono interista per tradizione, ma per rompere l’ormai decennale trio di vincitrici Inter-Milan-Juventus tifo per qualunque altra squadra, figurati per quella di un amico. Sabi ha la coperta, un bicchiere di vino e la torta di Silvana, io rido sotto la mia di coperta, sto cercando di togliermi dalle ossa il gelo dell’attesa che qualcosa passasse per San Siro e, milanese, tifo per il Napoli. Ma questi siamo noi, che non c’entriamo con la furia insensata che si è scatenata in questa partita. Avrebbero dovuto riempire le birrerie di Milano, ne hanno riempito gli ospedali.

Il Natale fa anche rimbalzare le persone come palline in un flipper. Perugia- Savigliano-Torino Milano-Torino, Game over in piazza San Carlo il 28 dicembre.

Questa è la quarta o quinta volta che vengo a Torino, stavolta però il castello finto lo voglio vedere. È lui che l’ha chiamato castello finto, perché c’è andato in gita alle elementari e quindi è rimasto a quell’idea lì. Si arriva camminando lungo il Po del Parco del Valentino, appena velato da un’affascinante nebbiolina,

e tra un guizzare veloce di scoiattoli grigi che si concedono solo a chi ha qualcosa da dar loro in cambio.

Che il castello sia finto lo si vede a colpo d’occhio, tranne un muro che sembrerebbe avere un suo passato.

Ad ogni modo non è un castello e basta, è un borgo, e non si chiama castello finto bensì Borgo medievale. E anche se non così antica, ha comunque una sua storia da vantare: https://www.guidatorino.com/borgo-medievale-torino/

Nessuno può battere i torinesi sul cioccolato. Che siano tavolette, cioccolatini e che altre forme solide o che sia cioccolata in forma liquida. Un livello di densità perfetto, perfetto il grado di zuccherosità, solo quel tanto che basta a mitigare l’amaro del cacao, e il gusto, il retrogusto, gli annessi e connessi. Ma-gi-strale.
Bella gente, begli scoiattoli, belle vie. Bella zio, città in cui tornare.

Bella invidiosa, esibizione del 29 dicembre

Bevi il caffè che ti fa digerire

Rientro al lavoro e la prima conversazione verte sull’apertura di Starbucks a Milano venerdì 7 settembre 2018. Ma veramente nel palazzo delle poste di piazza Cordusio? chiedo sconcertata. Già, risponde altrettanto sconcertata. E diamo il via all’elenco delle baracconate che hanno deturpato il centro. Stiamo solo esercitando il diritto alla nostalgia che sembra lecito in qualunque città tranne la nostra. Vietato nostalgiare, tutto grasso che cola, sembrano dirti gli occhi foresti. Ma tu che ne sai dei nostri ricordi tra Cordusio e Duomo? Mi dice che c’era una coda che riempiva la piazza. Ma perché la gente si deve mettere in coda per bere un caffè? La mia graziosa collega filiforme dagli occhi cerulei non ha una risposta e nemmeno io. La cosa si chiude lì, e sarebbe rimasta chiusa per chissà quanto se non fosse che il giorno dopo Sabi mi scrive: vengo a Milano e voglio andare da Starbucks. Ah, e allora la cosa si fa seria se uno di Napoli, con tutta la loro tiritera sulla tradizione del caffè, si pone questo obiettivo. Cerco di riesumare nella memoria se quell’orrendo caffè di New York che ho buttato nel cestino dopo due sorsi fosse di questi. Non me lo ricordo, credo di no. Ma mi spieghi che ti importa di Starbucks? È un segno dei tempi e bisogna vederlo, come il primo Grande Fratello. Non condivido l’idea ma la rispetto, ha un suo perché, e poi c’è la questione che con gli ospiti si deve essere accondiscendenti, fino a nascondergli la sofferenza che ti provocano con il loro ignorare sistematicamente le cose belle e nascoste di Milano. Unico paletto: se la coda va oltre i cinque minuti, ci vai tu da Starbucks. A che ora chiude? Adesso vado a vedere. Sorpresa: i siti su questa apertura sono tanti e diversi (dalla meraviglia alla segnalazione già incassata per i prezzi troppo alti) che soffocano la più banale eppur fondamentale delle notizie. Di nuovo non capisco tutto questo affanno. Comunque, eccomi lì incanalata nel cordone che gestisce la fila. Va oltre i cinque minuti che avevo imposto ma è accettabile. Quasi giunti alla meta, un ragazzo si dà da fare per sapere cosa ne pensi della coda. È talmente gentile che non me la sento di dirgli cosa ne penso: solo un pirla fa la coda per prendere un caffè, un pirla o un accondiscendente. Penso alle file rabbiose che si sono consumate all’interno di quello storico palazzo. La gente è capace di prendersi a botte per una coda in posta, ma qui sembrano solo felici di partecipare a un evento di siffatta portata storica. Dopo un cordone e un altro cordone, si aprono le porte del paradiso. È magnificente questo Starbucks, lo ammetto.

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Scintillante e con quel che di rétro che rende merito all’edificio.

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Un gran numero di ragazzi colorati (nella pelle, in buon stile Usa) si danno da fare per spiegarti e chiederti come ti senti, se ti piace, se hai bisogno di aiuto. Sono giovani, belli, sorridenti, affabili ma al terzo ragazzo/a mi si insinua il dubbio: se c’è tutta questa assistenza come in un aeroporto non è semplice come entrare in un bar (pur gigantesco, ma questo è). Comunque, dopo aver studiato la mappa, i nomi dei caffè, la tostatura riusciamo a fare l’ordinazione, come si chiama? mi chiede la cassiera. Perché quando è pronto la chiamiamo per nome, aggiunge veloce anticipando la mia aria interrogativa. Elena, fai conto che saremo solo in 5 mila qua dentro con questo nome, penso. Se andate da Starbucks consiglio di identificarvi come Gertrude e Sulpicio. La ragazza del banco mi chiede cosa ne penso. L’insofferenza a questa domanda mi sta ormai montando come la schiuma dell’agognato cappuccino ma abbozzo: è bello, ero un po’ preoccupata che non rovinaste un palazzo storico… Gesù, che mi è venuto in mente? La giovane è stata addestrata anche per questo, a rispondere ai vecchi malinconici, e parte uno spiegone, dai marmi di Carrara… di Carrara? dai, non esagerare adesso, vorrei dirle, al pavimento. E finalmente arrivano due fette di torta, un cappuccino decaffeinato e un marocchino di complicatissima provenienza per la modica cifra di 19,50 euro. Riusciamo a conquistare un posto all’aperto. Tutto ottimo. La ragazza davanti a noi chiede un portacenere. Il sorriso si smorza sul volto della giovane in divisa e inizia a balbettare qualcosa sui punti fumo, un paio di tavoli più in là. Li hanno addestrati per i vecchi rimbambiti ma non per i fumatori, tutto molto Usa. Sabi manifesta il primo moto di irrequietezza. La fumatrice dice: e se butto la cenere nel tovagliolo e poi la spengo lì in quello grosso? La ragazza non sa che dire, dilaniata tra il non voler scontentare il cliente e le rigide norme. Poi prende una decisione in autonomia: trascina un portacenere a colonna vicino al tavolo. Mi distraggo, quando torno a guardare, la ragazza in divisa sta sottraendo la grossa colonna alla perplessa viziosa. Mi spiace, ma il mio manager ha detto che non si può. Questo sì che è democratico, penso, prima per farsi chiamare manager ci voleva laurea e master, adesso ci sono anche i manager di portacenere e stoviglie. Inizio a sentire come un cappio intorno al collo. Sabi si immerge in una telefonata e così io esco dal cordone. Quando voglio rientrare il manager del cordone mi guarda torvo e vuole impedirmi il rientro. Devo dirgli che ero seduta lì fino a tre minuti prima, a quel tavolo con quel signore. Il cappio si scioglie e diventa voglia di mandarlo a… Questo incanalamento del mio tempo libero è già montato a sufficienza. È gestito all’americana e gli americani sono pazzi, conclude filosoficamente Sabi.

Prima di scrivere questo post scorro il sito de Il fatto quotidiano, e di nuovo lui,
“Battibecco pepato a L’Aria che Tira (La7) tra il manager Chicco Testa e lo scrittore Diego Fusaro sulla recente apertura di Starbucks a Milano”. Si scomoda addirittura Marx.

E io mi sento sempre di più appartenere a questa razza: “Se mantieni la calma mentre tutti intorno a te hanno perso la testa, probabilmente non hai capito qual è il problema.”
È un gioco scherzoso sulla poesia Se di Kipling, non riporto l’autore perché è attribuita a più nomi, in quest’epoca di internet non si capisce mai chi ha detto cosa.