Un ponte da cani parte 1

Tempo incerto, folla da ponti, opto per brevi gite in giornata. Piacenza. Parto munita della efficiente cartina del centro storico scaricata dal sito del comune.

Ancora prima di uscire dalla stazione una sorpresa: un’edicola-libreria con dei bei libri, soprattutto di arte. Vengo attratta da un titolo che pare corrispondere solo in parte al famosissimo disegno di Antoine de Saint-Exupéry: Al Principein. Mi avvicino per capire in quale lingua sia stato tradotto: “Il grande capolavoro per ragazzi rinasce in dialetto piacentino nella traduzione di Piergiorgio Barbieri”. Accanto, la traduzione in dialetto di un altro capolavoro, Pinocchio.

Quella che di solito è la zona critica di ogni città, la stazione dei treni, qui si presenta ordinata, pulita e colorata, fin dentro il parco Giardini Margherita.

Fotografo questa casa perché la trovo splendida, pensando che questi colori siano un caso isolato.

Il percorso che ho costruito arriva fino al Po, sperando di vederlo, dove peraltro sono segnate anche le Mura farnesiane, lasciando il Duomo sulla strada del ritorno in attesa della riapertura pomeridiana. A pochi minuti dall’inizio della mia camminata, è già bellezza: Palazzo Anguissola di Grazzano. L’esterno è notevole ma lo è ancor più il cortile interno.

Una lampadina che si accenderà un poco più in là.

Avevo letto della possibilità di visitare il Pozzo di Sant’Antonino, nei pressi dell’omonima basilica, mi stavo già lanciando invero, ma la descrizione della scala ripida con necessario accompagno della guida uno per volta mi ha fatto desistere. Al cospetto del sopra, ora, la rinuncia al sotto non sembra un grande sacrificio.

Proseguo in direzione del Palazzo Gotico. Qualcosa non si spegne: i colori degli edifici non erano un caso isolato, permangono vividi e frequenti,

e la lampadina si accende. Piacenza non si deve solo guardare avanti per vedere dove vai, né solo in alto per l’architettura, bisogna guardarla anche di lato, dentro i portoni aperti.

In piazza Cavalli, dove sorge il Palazzo Gotico, la fase fotografia risulta ostacolata dallo smontaggio del mercato. Tra cassette di frutta e camioncini cerco di fare del mio meglio.

Questa immagine volutamente sfocata, tagliata in segno di rispetto perché non venga catalogata come foto turistica, la dedico a chi ha detto che il 25 aprile è stato un derby, a chi può dire qualunque scempiaggine senza pensare che se la dice è perché ha la libertà di farlo senza finire su una targa, anche quando a qualcuno verrebbe voglia di toglierli questa libertà. Potete anche girare intorno e vedere le altre centinaia di nomi caduti in altre circostanze, ma sempre per dare a voi questa facoltà.

Prendo via Cavour

e mi dirigo verso Palazzo Farnese-Cittadella Viscontea.

Poi qualche stradina che mi porta in via Borghetto, per andare a parare dove volevo: Po e Mura farnesiane.

Per il Po forse dovrò tornare, deve essere dopo la statale e dopo la ferrovia e dopo un signore intenzionato a raccontarmi tutta la sua vita, o forse bisogna girare intorno alle mura, o forse c’è che è arrivato il momento di fermarmi un po’. Avevo adocchiato un bar che si chiamava Bar Casa mia con tanto di bandiera italiana sull’insegna. Non è che sono stata colta da spirito patriottico, è solo che questa zona non rientra più del tutto nel centro storico con relativa abbondanza di locali, ho archiviato ancor prima di partire pisarei e fasò e ho volutamente ignorato il cartello che proclamava il gnocco fritto (non è un errore, in queste zone si dice il gnocco, non lo gnocco), cose troppe impegnative per una breve gita. Il Bar Casa mia in realtà è una babele di lingue che si annuncia fin da fuori. Anche la proprietaria è straniera. È uno di quei posti che ormai si stanno sempre più diffondendo: capisci che hanno alle spalle una storia fatta solo di autoctoni, proprietari e avventori, dove probabilmente si parlava italiano solo se e quando entrava una faccia sconosciuta, il resto era unicamente dialetto. Poi le cose hanno preso un’altra strada, glocal, per sintetizzare. Quello che non cambia mai è la fame atavica dei botolini da bar avvezzi ad accompagnare i padroni in questo tempo di socializzazione. Così è Lilly a catalizzare stranieri, piacentini, milanesi, tutti a mangiare e lei non fa distinzione alcuna, tanto tutti gli allungano qualcosa.

È ora di volgere le scarpe verso il Duomo, con una deviazione in un vicoletto

alla chiesa di San Sisto.

In via Borghetto, in direzione via Roma, trovo questa bellissima chiesa che stanno ristrutturando. Non reca alcuna targa, non so quindi che chiesa sia ma spero che possa essere presto restituita alla città.

Il Duomo di Piacenza

M.A. Franceschini, Il sogno di Giuseppe, affresco staccato, 1688

Credo che la mia giornata in terra emiliana sia giunta al termine, e invece mi ritrovo in un’emozione proustiana. Non madeleine ma torta mille rose, qualcosa che non vedo da anni. In attesa del treno, nella tranquillità delle città di provincia, me ne sto su una panchina dei giardini strategicamente scelta vicino alla fontanella, riportata indietro negli anni in questa sofficità di burro.

Passeggia un cane e abbaia al vento un uomo.
Ora ti saluto, è quasi sera, si fa tardi
si va a vivere o a dormire da Las Vegas a Piacenza
(Emilia, Francesco Guccini)