Colori nella nebbia. Gino Rossi, un romanzo

copertina gino rossiA me piace fare la correttrice di bozze, ma come ogni lavoro ha le sue sfumature, i suoi alti e bassi, insomma. A volte capita che ciò che leggi lo senti in maniera diversa, anche se il correttore deve galleggiare sopra le parole, non può farsi trascinare sotto dal disinteresse o dal troppo interesse.  Però c’è una differenza che non posso negare, quella che intercorre tra il leggere articoli di riviste e racconti o romanzi. Le riviste sono fatte da giornalisti, chi scrive lo fa di mestiere e racconta dei fatti. Quando invece mi trovo tra le mani dei manoscritti di persone che non vivono di scrittura faccio molta più fatica a restare sul bordo. Perché è come se mi affidassero un pezzetto della loro vita, anche quando non c’è niente di autobiografico. Sono riusciti a ritagliarsi degli spazi, chissà con quanta fatica, nella loro vita quotidiana per scrivere. Forse le loro idee sono nate quando erano bloccati in una coda, sull’autobus o davanti a un televisore acceso e non ascoltato o magari persino nei risvegli notturni. Poi, nei momenti liberi, sono corsi al computer a fermare le parole. E io so la bellezza che porta con sé la scrittura. Raramente ho conosciuto queste persone, a volte nemmeno ho sentito la loro voce al telefono. C’è questo scambio di note, di mail, ancora scrivere, ma ciò non vieta che il rapporto diventi personale. E così qualche giorno fa ho trovato una busta di quelle con le bolle d’aria che proteggono il contenuto e che fai fatica a tirare fuori dalla casella perché non la vuoi strappare. Ho capito cos’era ancora prima di aprirlo e nei sette piani di neon freddo d’ascensore ho sorriso al morbido paccozzo. Sulla prima pagina A Elena, e questa cosa qui, un libro con dedica, campassi cent’anni mi fa sempre un gran piacere. Firmato Giovanni Tonellato e Nicola Tonelli. Chi me l’ha mandato è il primo, perché, bontà sua, mi ha affidato dei racconti da rivedere.

La prima riga è mesta, due righe oltre e la mestizia si ammanta di famigliare, è qualcosa di vissuto e di già visto a noi che conosciamo i chilometri che appartengono al Po, dopo che è nato e prima che si mescoli al mare.

La mattina è fredda e piovosa, di quelle che solo noi della pianura possiamo conoscere. Chi viene da fuori ci chiede come facciamo a vivere interi giorni senza vedere mai il sole e con la nebbia che ti entra nelle ossa.

Arriva la mia fermata e persino San Siro stamattina è fluido nella nebbia, ma non è la nebbia dell’argine dentro cui mi ha portato il libro. Questa di Milano è bucata di fari e rumori, quella di pianura è assoluta.
Tra una fermata e l’altra, anche appoggiata al corrimano della banchina, mi accorgo di stare dentro al libro e non ho voglia di uscirne. È difficile che mi succeda con i contemporanei. È la vita del pittore veneto Gino Rossi, narrata alternativamente dal suo diario che parte dall’infanzia e da chi l’ha conosciuto, in primis la ragazza che ha condiviso con lui l’oscurità del manicomio. Raccontano intorno al tavolo di una vecchia osteria, con la porta in legno gonfia di umidità che non riesce a tenere a bada gli spifferi, il camino e la trippa che cuoce lentamente sul fuoco. Sullo sfondo la violenza cieca e senza senso del fascismo, la crudeltà dell’ospedale psichiatrico, il contrapporsi degli esseri umani: i matti, nemmeno considerati umani, e i “normali”, tanto normali da essere spesso loro stessi gli artefici della follia. La consolazione è la bontà di pochi che non è riuscita a soccombere, il ritratto tenero dell’oste impacciato, e i colori. Arrivano come lezioni d’arte o nella sola forma di ricordi a fendere il bianco e nero in cui è ormai costretto Gino Rossi. E potenti abbastanza da palesarsi come macchie sulle pagine.

“Perché ha smesso di dipingere?”.
“Ho perso il colore buono”.
“E qual è quello buono?”.
“Quello che non sussurra, è spavaldo e affronta la vita a testa alta”.

“I colori sono della natura che li crea con sofferenza e selezione naturale. Secondo me Dio vede in bianco e nero”.

E poi c’è la Francia dei pittori, Parigi e la Bretagna.
“Parigi (…) Mi fa perdere la testa l’aria frizzante della sera, i lampioni che ogni notte illuminano i boulevards, le feste nei grandi palazzi. Preferisco il porto di Douarnenez, avvolto nei silenzi dell’oceano”.
Sorrido al ricordo di Douarnenez, doveva essere un luogo più tranquillo, più caratteristico all’epoca, penso.
(…) In un certo momento della giornata, con il sole che non arriva al suo culmine, si possono vedere tutti i celesti del mondo”.

Il lettore vorrebbe restare, permanere nel caldo fumoso di braci dell’osteria e vedere la cena pronta ma capisce che deve uscire e affrontare il gelo della neve. Quando ormai si sente perduto, una breve, normalissima frase carica di speranza apre la vicenda ad un futuro possibile.

Giovanni Tonellato, Nicola Tonelli
Il pittore inquieto e la ragazza del fiore
Collana Il Rosone
Editrice Santi Quaranta, Treviso