“La ragazza dell’isola”: giallo, ma i colori delle Shetland si perdono

Shetland è una delle serie tv più belle della programmazione di Giallo Tv. Una lentezza che non è mai esasperante e che riflette lo stato d’animo in cui ci si immerge trovandosi in un luogo in cui è la natura a prevalere: un misto di assoluta adorazione per la bellezza e di umana inquietudine nel comprendere la propria impotenza. Ho voluto quindi leggere uno dei romanzi da cui è tratta la serie, il primo, La ragazza dell’isola di Ann Cleeves. Da sempre divergono le opinioni se siano meglio i libri o i film che ne derivano, in questo caso non ho avuti dubbi: il libro è infinitamente inferiore alla serie. Non c’è niente di rimarchevole nello stile di scrittura, se non che essendo, appunto, di una semplicità assoluta scorre proprio ed unicamente come libro “da compagnia”. I personaggi principali hanno poca profondità, i paesaggi scivolano via su una descrizione che non rende loro onore, ne esce quasi solo la crudezza del vento e la violenza della pioggia. Ci sono libri che hanno il potere di portare in luoghi in cui non si è mai stati, questo non riesce a riportare nemmeno chi alle Shetland ci è stato.
Diventa più interessante dalla seconda metà circa, ma niente di memorabile. Incomprensibili le continue descrizioni di pasti e bevande, se non addirittura ridicole per la loro inutilità.
I libri di Ann Cleeves da cui è tratta un’altra bella serie britannica, Vera, non sono tradotti in italiano, tutto sommato non ci perdiamo molto. Viene da ringraziare gli sceneggiatori di entrambe le serie perché hanno fatto veramente un gran lavoro di costruzione.

Post… referendum

Genova Petroliodi Elena Colombo e Carlo Crescitelli

Il referendum sulle trivellazioni è fallito. Come una triste coincidenza, la sera del 17 aprile il flop sembrava voler essere sottolineato da quella lunga striscia nera che dalle alture di Genova è scesa quasi a mare, invadendo il torrente Polcevera, facendo bruciare occhi e polmoni, invischiando animali e pesci. Petrolio sputato fuori dal tubo di una raffineria.
Il vero fallimento però siamo noi, sempre pronti a lagnarsi ma mai a prendersi una responsabilità. Una consultazione è poter dire la nostra, qualunque essa sia, soprattutto perché negli ultimi anni le occasioni per farlo paiono poche. Io quindi toglierei il quorum perché è la partecipazione che deve vincere. Se non hai voglia di pensare, di informarti, di decidere, ti arrangi: lo faccio io e tu ti prendi quello che voglio io, che sia Sì o No.
È passato più di un mese, il discorso potrebbe essere ormai archiviato, anche perché la memoria è corta e macina notizie velocemente. Così Carlo e io, che tanto ne abbiamo parlato prima, ci siamo chiesti se fosse il caso di farlo un post… post-referendum. E abbiamo deciso di sì, perché non si può dire altrettanto archiviata la prossima Genova, che succederà, da qualche altra parte ma succederà. E parlando parlando ci sono venute sotto gli occhi le immagini terribili della devastazione che colpì una terra che già allora era nei nostri pensieri e che anni dopo avremmo conosciuto e amato proprio per la sua natura incontaminata: le Shetland. Nel 1993 la petroliera Braer affondò a causa di una collisione riversando in mare e sulle coste migliaia di litri di petrolio. Fu un disastro ambientale da cui sembrarono non potersi più riprendere. Il nostro “inviato” dalle Shetland Robert Leask, interpellato, ci risponde che tutti hanno avuto un cospicuo risarcimento: i contadini per i campi, chi per le case distrutte, i pescatori per una mancata pesca di otto anni. Non sono andati in pari: hanno avuto più di quanto hanno perso! E nei giorni prima del referendum le notizie non si fermano: la Bp è condannata a un risarcimento di 20 miliardi di dollari per i danni causati nel 2010 nel Golfo del Messico. E noi italiani sembriamo tutti movimentati, no questo no quello, non da me, non vicino a me. Robbie conclude il suo report molto pragmaticamente, come conviene a uno scozzese: «Chiuderò la lettera con questa immagine: sì, ottenere petrolio dal mare, come nel Mare del Nord o nell’Atlantico, è un lavoro pericoloso, ma è ben più pericoloso attraversare o guidare in discesa su una strada trafficata. E per quanto le piattaforme in terra o in mare siano lontane, che le vediamo o meno, è necessario chiedersi: ho un’auto e voglio usarla? Voglio viaggiare molto lontano, come ci arrivo? Con l’autobus, in treno, in macchina, in aereo o in nave? Comunque ci vuole il petrolio. Forse è meglio che stia lontano, magari davanti alla porta di qualcun altro, ma comunque ce n’è bisogno.»
E su questo ha anche ragione, ma sai che c’è Carlo? gli sibilo al telefono, è che il loro Stato li ama e li protegge e loro lo sanno, come tutti quelli che stanno nei Paesi del Nord (a distanza di anni ho ancora sotto gli occhi la faccia stupita di un nordico visto in Tv: perché non dovrei fidarmi? Se il governo dice che è sicura lo sarà senz’altro), al nostro invece gli stiamo proprio sul gozzo e sarebbero ancora loro ad avanzarne da noi, ecco perché non ci fidiamo e ci viene l’orticaria quando parlano di grandi opere.                                                                                                             Elena

Io invece non so se alla fine mi piacerebbe un referendum senza quorum, non so se vorrei essere interpellato su questo e su quello correndo in continuazione il rischio di una risoluzione del problema falsata dalla temporanea forza di un movimento di opinione o di una lobby. Come non so se mi piacerebbe per davvero una democrazia che si scaricasse delle proprie responsabilità delegandole al popolo in forma decontestualizzata. Come nel caso dei prossimi appuntamenti referendari per l’approvazione delle riforme costituzionali, dici? Appunto.
Quello che so è che ormai il futuro non può che essere delle singole comunità, che devono trovare in se stesse la forza di tracciare le linee del proprio domani. Altrimenti gli succederà quello che è successo a Genova. Dove la comunità non c’è più perché il territorio non c’è più perché la cultura locale non c’era più e nessuno aveva voglia di ripristinarla, presi come erano e sono dalle fallaci lusinghe dello sviluppo globale. E questo purtroppo è il risultato, lì come in gran parte del vostro Nord. Dove ancora non riesco a capire perché non costruiate una volta buona gli argini ai fiumi, o forse lo capisco, non c’è più lo spazio, il tempo e il modo per farlo. Una volta uno di voi mi ha detto: “Fate bene, a difenderlo, il vostro territorio, almeno voi che ce l’avete ancora, perché noi l’abbiamo svenduto da un pezzo”. E aveva proprio ragione: noi al Sud un territorio che abbia un suo senso, per quanto disastrato e negletto possa essere, ce l’abbiamo ancora, ed è per questo che non ci vogliamo le trivelle. Perché le trivelle, come prima le discariche e come adesso le pale eoliche, sono il magro compenso della svendita che ci chiedono, quella della nostra identità alle vaghezze del controverso e incerto sviluppo economico, secondo strategie delle quali un domani presto o tardi ci saremo dimenticati. Come quando volevano industrializzarci dappertutto così di botto da un anno all’altro, e ne paghiamo ancora le conseguenze oggi, di quel disastroso progetto. Allora, a noi tutti sembrava una ottima idea: oggi, ci chiedete come abbiamo mai potuto permetterlo. Permetterlo? Ma noi ne eravamo addirittura entusiasti… ed è un ipocrita chi finge di averlo dimenticato. E sai che ti dico, Elena, a questo punto? Che, guardando con gli occhi di oggi e ragionando con la mente di oggi, abbiamo sbagliato pure con il referendum sul nucleare. Ma anche quella sembrò una buona idea. Se mi fido di Stato e governo, dici? Ma certo che no, mi sento come in una riserva indiana, come in un altipiano tibetano dove sei rimasto per decenni a sbrigartela da solo nel bene e nel male, epperò poi un bel giorno arriva qualcuno a dirti che loro ti portano lo sviluppo e tu hai una idea abbastanza chiara che sono venuti poco più che a romperti le scatole e basta, ma intanto che fare? Il nativo sei tu, e di startene per i fatti tuoi qui non se parla più, ormai la frittata è fatta. Come in 1984 di George Orwell, è la loro neolingua che ti insidia, quando ti dicono: ma se non qui allora dove? Sei il solito not in my back yard, lo vedi? Ma invece sei tu che devi farmelo, un piano e un progetto dentro e fuori il mio backyard, eh ma mica la solita fregatura a chi tocca tocca, un piano vero, voglio dire, come nei paesi del Nord Europa dove la gente si fida dei loro governi, perché sono quelli che gli danno ragione di fidarsi.
                                                                                                                                   Carlo

Non tutti vogliono viaggiare in prima

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Ho “conosciuto” l’antiviaggiatore su YouTube. Ero tornata da poco dalle Shetland e volendo tenere viva la magia di quelle terre cercavo dei video sull’Up Helly Aa, il Festival vichingo celebrato ogni anno a Lerwick, la città più grande delle Shetland. Mentre sto guardando uno di questi video, con la coda dell’occhio vedo il titolo Vado alle Shetland/Goin’ to Shetland e più sotto l’esilarante In partenza per le Shetland: ‘a Maronna m’accompagna!

355xPenso che devo assolutamente vedere chi è quell’unico italiano, oltre a me, abbastanza folle da scegliere una meta così lontana e selvaggia. Bè, no, l’unico no. Ricordo una coppia di emiliani nel museo di Lerwick, ma furono gli unici connazionali trovati in loco. Gli italiani li trovi ovunque, ma probabilmente le Shetland sono troppo ovunque. I video sono veramente belli. Non sono semplici riprese o montaggi di foto, sono documenti di viaggio arricchiti da descrizioni umoristiche, commenti divertenti, impressioni. Da citazione è la scelta degli abiti pesanti a luglio, con una temperatura che si aggira attorno ai 38 gradi.
L’antiviaggiatore si chiama Carlo Crescitelli, è membro dell’Associazione Culturale Italo Britannica di Avellino (Acib), dove vengono organizzate le proiezioni dei suoi video in serate con musica e dibattiti,

locandinaha scritto alcuni libri, tra cui L’antiviaggiatore e Come farai a fuggire da te stesso… se lui continua a correrti dietro?!? ed è un blogger. E naturalmente è un viaggiatore. Non un turista, perché le sue mete non sono e non saranno mai gli all inclusive, i villaggi turistici, quelli che potresti essere ovunque perché tanto stai dentro lì, non sai nemmeno cosa c’è fuori, i resort a X numero di stelle, le spiagge affollate, le piscine con acquagym in riva al mare. Le sue mete sono fatte di natura e di incontri, sono anche quelle più difficili perché, come lui stesso ha scritto, sono i luoghi «cui nessuna agenzia di viaggio vi indirizzerà mai». Clima spesso inclemente, destinazioni non attrezzate per il turismo di massa, dove è difficile spostarsi ed è impossibile portarsi dietro le proprie abitudini. Ma sono senz’altro questi posti che ti permettono di vedere che cosa sia veramente la natura quando “esplode” in tutta la sua libertà, di provare commozione al cospetto di un animale selvatico che nuota, vola o corre fuori da qualsiasi gabbia umana, di conoscere le persone che qui abitano, di entrare per un po’ nella loro vita e farli entrare nella tua. Il viaggio, questo tipo di viaggio, diventa così anche un viaggio dentro se stessi, una riflessione, un misurare le proprie forze e capacità.

snapshotCarlo Crescitelli, attraverso i suoi video e gli scritti, ama condividere le sue esperienze di viaggio per far conoscere i luoghi che ha visitato ma anche per narrare le sue avventure interiori. Una guida di viaggio un po’ speciale, non il solito catalogo stampato su carta patinata con il mesto elenco di alberghi ordinati a seconda dei comfort offerti (compresi spaghetti e lasagne in capo al mondo), corredato da foto di paesaggi perfettini e mielosi. Ma chi ama veramente la natura sa che non c’è proprio niente di dolcemente romantico nel vento del Nord che soffia implacabile e la pioggia non è quella di D’Annunzio che «piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri», è uno scroscio gelido che ti entra nel collo, nelle scarpe, ti picchia inviperito sulle mani e sulla faccia che quasi fai fatica a respirare. In momenti come questi è facile chiedersi dove avevamo la testa quando abbiamo snobbato una calda e morbida spiaggia per ritrovarci a combattere ricurvi e ciechi contro una bufera. La risposta viene dopo, quando riusciamo a riportare la pelle al riparo e pensiamo: comunque ce l’ho fatta. E ci sono altri mille motivi che danno la risposta perché, come scrive Carlo, «alla fine ne è valsa comunque la pena».