Bevi il caffè che ti fa digerire

Rientro al lavoro e la prima conversazione verte sull’apertura di Starbucks a Milano venerdì 7 settembre 2018. Ma veramente nel palazzo delle poste di piazza Cordusio? chiedo sconcertata. Già, risponde altrettanto sconcertata. E diamo il via all’elenco delle baracconate che hanno deturpato il centro. Stiamo solo esercitando il diritto alla nostalgia che sembra lecito in qualunque città tranne la nostra. Vietato nostalgiare, tutto grasso che cola, sembrano dirti gli occhi foresti. Ma tu che ne sai dei nostri ricordi tra Cordusio e Duomo? Mi dice che c’era una coda che riempiva la piazza. Ma perché la gente si deve mettere in coda per bere un caffè? La mia graziosa collega filiforme dagli occhi cerulei non ha una risposta e nemmeno io. La cosa si chiude lì, e sarebbe rimasta chiusa per chissà quanto se non fosse che il giorno dopo Sabi mi scrive: vengo a Milano e voglio andare da Starbucks. Ah, e allora la cosa si fa seria se uno di Napoli, con tutta la loro tiritera sulla tradizione del caffè, si pone questo obiettivo. Cerco di riesumare nella memoria se quell’orrendo caffè di New York che ho buttato nel cestino dopo due sorsi fosse di questi. Non me lo ricordo, credo di no. Ma mi spieghi che ti importa di Starbucks? È un segno dei tempi e bisogna vederlo, come il primo Grande Fratello. Non condivido l’idea ma la rispetto, ha un suo perché, e poi c’è la questione che con gli ospiti si deve essere accondiscendenti, fino a nascondergli la sofferenza che ti provocano con il loro ignorare sistematicamente le cose belle e nascoste di Milano. Unico paletto: se la coda va oltre i cinque minuti, ci vai tu da Starbucks. A che ora chiude? Adesso vado a vedere. Sorpresa: i siti su questa apertura sono tanti e diversi (dalla meraviglia alla segnalazione già incassata per i prezzi troppo alti) che soffocano la più banale eppur fondamentale delle notizie. Di nuovo non capisco tutto questo affanno. Comunque, eccomi lì incanalata nel cordone che gestisce la fila. Va oltre i cinque minuti che avevo imposto ma è accettabile. Quasi giunti alla meta, un ragazzo si dà da fare per sapere cosa ne pensi della coda. È talmente gentile che non me la sento di dirgli cosa ne penso: solo un pirla fa la coda per prendere un caffè, un pirla o un accondiscendente. Penso alle file rabbiose che si sono consumate all’interno di quello storico palazzo. La gente è capace di prendersi a botte per una coda in posta, ma qui sembrano solo felici di partecipare a un evento di siffatta portata storica. Dopo un cordone e un altro cordone, si aprono le porte del paradiso. È magnificente questo Starbucks, lo ammetto.

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Scintillante e con quel che di rétro che rende merito all’edificio.

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Un gran numero di ragazzi colorati (nella pelle, in buon stile Usa) si danno da fare per spiegarti e chiederti come ti senti, se ti piace, se hai bisogno di aiuto. Sono giovani, belli, sorridenti, affabili ma al terzo ragazzo/a mi si insinua il dubbio: se c’è tutta questa assistenza come in un aeroporto non è semplice come entrare in un bar (pur gigantesco, ma questo è). Comunque, dopo aver studiato la mappa, i nomi dei caffè, la tostatura riusciamo a fare l’ordinazione, come si chiama? mi chiede la cassiera. Perché quando è pronto la chiamiamo per nome, aggiunge veloce anticipando la mia aria interrogativa. Elena, fai conto che saremo solo in 5 mila qua dentro con questo nome, penso. Se andate da Starbucks consiglio di identificarvi come Gertrude e Sulpicio. La ragazza del banco mi chiede cosa ne penso. L’insofferenza a questa domanda mi sta ormai montando come la schiuma dell’agognato cappuccino ma abbozzo: è bello, ero un po’ preoccupata che non rovinaste un palazzo storico… Gesù, che mi è venuto in mente? La giovane è stata addestrata anche per questo, a rispondere ai vecchi malinconici, e parte uno spiegone, dai marmi di Carrara… di Carrara? dai, non esagerare adesso, vorrei dirle, al pavimento. E finalmente arrivano due fette di torta, un cappuccino decaffeinato e un marocchino di complicatissima provenienza per la modica cifra di 19,50 euro. Riusciamo a conquistare un posto all’aperto. Tutto ottimo. La ragazza davanti a noi chiede un portacenere. Il sorriso si smorza sul volto della giovane in divisa e inizia a balbettare qualcosa sui punti fumo, un paio di tavoli più in là. Li hanno addestrati per i vecchi rimbambiti ma non per i fumatori, tutto molto Usa. Sabi manifesta il primo moto di irrequietezza. La fumatrice dice: e se butto la cenere nel tovagliolo e poi la spengo lì in quello grosso? La ragazza non sa che dire, dilaniata tra il non voler scontentare il cliente e le rigide norme. Poi prende una decisione in autonomia: trascina un portacenere a colonna vicino al tavolo. Mi distraggo, quando torno a guardare, la ragazza in divisa sta sottraendo la grossa colonna alla perplessa viziosa. Mi spiace, ma il mio manager ha detto che non si può. Questo sì che è democratico, penso, prima per farsi chiamare manager ci voleva laurea e master, adesso ci sono anche i manager di portacenere e stoviglie. Inizio a sentire come un cappio intorno al collo. Sabi si immerge in una telefonata e così io esco dal cordone. Quando voglio rientrare il manager del cordone mi guarda torvo e vuole impedirmi il rientro. Devo dirgli che ero seduta lì fino a tre minuti prima, a quel tavolo con quel signore. Il cappio si scioglie e diventa voglia di mandarlo a… Questo incanalamento del mio tempo libero è già montato a sufficienza. È gestito all’americana e gli americani sono pazzi, conclude filosoficamente Sabi.

Prima di scrivere questo post scorro il sito de Il fatto quotidiano, e di nuovo lui,
“Battibecco pepato a L’Aria che Tira (La7) tra il manager Chicco Testa e lo scrittore Diego Fusaro sulla recente apertura di Starbucks a Milano”. Si scomoda addirittura Marx.

E io mi sento sempre di più appartenere a questa razza: “Se mantieni la calma mentre tutti intorno a te hanno perso la testa, probabilmente non hai capito qual è il problema.”
È un gioco scherzoso sulla poesia Se di Kipling, non riporto l’autore perché è attribuita a più nomi, in quest’epoca di internet non si capisce mai chi ha detto cosa.