Lʼepoca di mezzo

Senza volerlo, in alcuni miei post credo di aver espresso la me di questi anni avviati con un biglietto di sola andata verso un futuro sempre più tecnologico: lʼinsofferenza di quando la tecnologia è imposta, lʼusufruirne quando mi sta bene, lʼaver dimenticato come si facevano alcune cose prima e il non comprendere il suo senso per altre. E poi anche la curiosità. E la consapevolezza che non porterà solo il buono.
Non è una questione generazionale. Tra persone della stessa età cʼè chi si siede al tavolo e ordina dalla app e poi ci sono io che penso: ma se cʼè la ragazza lì apposta, neanche cʼè la coda da fare, cosa te ne frega della app?
La divisione è tra nativi digitali e non, e siamo noi nativi e basta a vedere le cose con più lucidità. Non perché siamo più intelligenti, va da sé, ma perché stiamo camminando su una linea di demarcazione che ci permette di vedere ancora entrambi i lati. E abbiamo ancora quel residuo di anarchia che detesta lʼomologazione e quel senso pratico che ti fa girare le balle: delle cose necessarie non funziona mai niente però puoi chiedere allʼIA quanti peli aveva nel naso Garibaldi.

È una lucidità che si esplicita nelle cose di tutti i giorni, che coglie le contraddizioni e le convivenze.

Mi dicono di uno che è passato dallʼessere no vax al quasi terrapiattismo, nutrendosi sulle chat. È il senso di appartenenza, dico, stai con gente come te, che la pensa come te. E poi cʼè il senso del mistero di cui tutti abbiamo bisogno. Guarda il Conclave, seguito da milioni di persone non certo tutte cattoliche e praticanti, riti antichi fatti con le mani, una lingua morta, un extra omnes anche e soprattutto per la tecnologia, quanto di più lontano dal nostro mondo, eppure tutti lì inchiodati.

È un mondo brutto che fa paura, evadere diventa necessario, poi dipende da come lo fai e se riesci a mantenere la divisione tra reale e inventato. E poi dare la colpa a qualcun altro ti crea lʼillusione della spiegazione e resistere resistere resistere quella di essere ancora un uomo libero.
Penso che una volta il senso di appartenenza nasceva nei luoghi fisici, poi ci siamo disgregati e riaggregati nel virtuale, fino a non vedere più chi è in carne e ossa.

E il mistero, eh, quanto è bello il mistero, te lo davano i libri e i film. Storpiando Luca Carboni: che ognuno cʼha il suo mistero dentro al cuore, sì, e che ogni tanto gli fa sentire lʼonda.
Penso ridendo alla me: a volte sono così stanca della realtà che mi do a quegli pseudodocumentari su Focus. Alieni, mostri acquatici, luci volanti, uomo falena, i misteri delle piramidi no perché mi hanno già abbondantemente rotto. Neanche per un secondo prendo in considerazione che ci sia qualcosa di vero epperò in quel momento ne ho bisogno come il sonno che non ti fa pensare.

Questa è lʼepoca di mezzo e io sto qua, on the razors edge you trail.
Quando finirà per cedere definitivamente il passo a quella tecnologica non lo so, ma quando sarà spero di essere in unʼaltra dimensione a cantare “noi non ci saremo”.

Immagine creata con Microsoft Designer

Povero cinema

Poteva essere unʼoccasione di autocritica e critica costruttiva: sul valore del cinema, i suoi attuali difetti, sui cinema che chiudono, la disaffezione. Invece tutto è finito in politica, con il suo solito strascico di cialtroneria, frasi a effetto pro stupidi, grande caciara che si spegnerà presto. E pazienza, poi magari un giorno tornerà tra squilli di trombe.

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Il treno maestrina


Sabato, voglia di un poʼ di acqua, vado a fare un giro a Sesto Calende, dove scorre il Ticino. Fiume azzurro, paese grazioso e lindo. Mi faccio stupidamente male a una costola che ancor mi duole, così come mi duole riportare le mie impressioni.

Uso il bagno del treno perché ormai si è capito che le stazioni minori sono fatte per ectoplasmi che si muovono eterei senza pesi interni o esterni, eventuali handicap temporanei o permanenti. E infatti Sesto Calende FS confermerà la regola. Il bagno ha tutto tranne lʼacqua per le mani, così mi ritrovo impiastricciata di sapone senza risciacquo, e le mie impronte saranno ancora là, fino a quella cosa antica trovata solo sul lungofiume che si chiama fontanella. Ormai cʼè sempre un che di fantozziano nel fare queste brevi gite.

La stazione ha solo una macchinetta per fare i biglietti e qualunque forma di addetto FS è già al livello superiore dellʼectoplasma, passato definitivamente oltre, come i posti di lavoro. Eh, ma basta usare la app, basta la macchinetta, la carta di credito, basta lʼanima di chi te muort per restare in tema fantasmi. Perché infatti lʼassenza di controllo umano porta anche a quel fenomeno di giovinetti che attraversano i binari, perché a quellʼetà lì non hai ancora capito che qui siamo di passaggio.

Dunque, finora la fotografia è la seguente: con la tecnologia posso anche comprarmi un biglietto per Timbuctù, se solo riuscissi a far scorrere le dita blobbose di sapone.
Il che mi porta alla riflessione primaria. Fino a poco fa gli annunci sui treni dicevano: Il treno per… ferma a…, è vietato fumare. Poi si è aggiunto: abbassare la suoneria dei cellulari. Ed ora si è aggiunto ancora: non mettere i piedi sui sedili, non occupare i posti con i bagagli, lasciare il posto pulito.

Francamente, una persona normale si sente umiliata da questo Abc per bambini dellʼasilo che devono ancora imparare tutto. Tra un poʼ arriveremo a unʼintelligenza artificiale che vaga per i vagoni e ti mette dietro la lavagna se ti trova che non hai capito un tubo.

Cronaca del Conclave dal kebab

Il 7 maggio accendo la tv ancora prima delle 19 e aspetto. Intanto, come tutti, sono affascinata dal gabbiano che staziona accanto al comignolo della Sistina, indifferente alla portata della situazione. La fumata arriva solo alle 21 ed è nera.

Per il giorno 8 maggio “saranno in ritardo”, dicono i giornali. Lʼidea che è da tanto che non vado da Said per un kebab mi ha già colto da diversi giorni. Vabbeʼ, allora visto che sono in ritardo vado.

Quando arrivo Said è attaccato allo smartphone: hanno eletto il papa, dice. Ma come lo hanno eletto?! Spero sia un italiano, dice, perché così è giovane e dura di più. Evito di chiedere perché è così interessato perché io non gli ho mai chiesto se è musulmano, cioè, parto dal presupposto che non lo sia perché maneggia maiale, ma boh, non è una teologia molto fine.

Se ne va nel retro e poi torna: è un arabo! Un arabo?, chiedo perplessa. In tutto questo ovviamente sto ragionando con la mente del lavoro, un poʼ stizzita verso i cardinali che hanno fatto troppo in fretta e cerco di ricordarmi qualche cardinale arabo. – Sì, si chiama Abba qualche cosa. La mia mente continua a pensare mentre intrattengo una conversazione con un albanese. Said mi mostra il cellulare: Vedi, si chiama così, Habemus Papam.

Mi produco in una spiegazione divulgativa circa lʼHabemus Papam con 4 occhi neri e 2 azzurri che mi ascoltano attenti, anche troppo per la mia ritrosia. Sulla parola latino Said sembra un poʼ perplesso, – Sai cosʼè il latino? (che situazione difficile quando non vuoi apparire saccente a uno straniero ma dʼaltra parte perché un egiziano dovrebbe sapere cosʼè il latino e perché io dovrei sapere cosa insegnano nelle scuole egiziane?). – Sì sì, lo so, antico. Poi mi viene in mente Antonio e Cleopatra, formulato in un pensiero molto poco da Alberto Angela.

Io non so se a Milano esiste qualcosa di più ecumenico di una pizzeria-kebab, perché la conversazione non si riduce allʼHabemus. Lʼalbanese, Toni, è più interessato a illuminarmi su cose italo-albanesi; dopo almeno ventʼanni scopro che Said è il cognome, i fratelli Said mi dicono che vuol dire felice, fortunato. Poi mi dicono i loro nomi: belli ma impronunciabili. Ok, adesso capisco perché Said.
Said n. 2 dice che il signore seduto a mangiare è italiano, “cioè, siciliano”, vabbeʼ…

Said n. 1 mi dice di avere il ricordo di mia madre quando mi portava la pizza a casa. Mi vengono quasi le lacrime, perché io in compenso ricordo che in quei pochi minuti della consegna cercavamo di consolarlo per la malattia del fratello n. 3 e della sua costernazione quando una pazza entrò in negozio urlando che erano terroristi. Penso che in un certo senso visse peggio questo della malattia.

Guardo questi due fratelli con gli occhi così gentili e penso che appartengono alla stessa nazione di chi ha massacrato il nostro Giulio Regeni. Penso a come siamo quasi tutti così diversi se sganciati dai nostri rispettivi criminali.

Milano mia, me ne andrei via

Lʼunico modo per notare alcune cose è averci a che fare. Così come non puoi cogliere gli ostacoli esistenti sulla strada di una persona in carrozzella finché non ti trovi a spingerla, non puoi veramente cogliere la sporcizia dei marciapiedi di Milano finché non li guardi con attenzione.

Il motivo di tanta attenzione è un cane, ad esempio. Non ne ho più da decenni e così la cosa mi è passata un poʼ in sordina, il degrado, lo schifo in cui questa città è scivolata. Sì, te ne accorgi se ti vuoi sedere da qualche parte o mentre sei lì che aspetti qualcosa, ma avere un cane è diverso, perché lo devi difendere.

Unʼamica mi ha lasciato la sua cana per qualche giorno. E mentre io andavo in giro col sacchettino di ordinanza per la raccolta escrementi, era tutto un farle schivare sputi, lattine, bottiglie, fino ad averla tirata via allʼultimo da cocci di vetro. Stanca del correct, riporto di avere imprecato e di aver augurato che quei vetri finissero dove potessero fare più danni a quel maledetto che li aveva mollati lì. No, quando avevo il cane io tutto questo non cʼera e no, non me ne frega niente se voi siete bianchi, neri o gialli, siete escrementi e il sacchetto raccolta ci vorrebbe per voi.

I padroni di questa cagnolina stanno in una zona che è sempre stata normale, ora costretti a un giardino pieno di bivacchi, ubriachi che fanno qualunque cosa. E ancora, non ce ne frega niente da dove venite e qual è la vostra faccia, visto che nemmeno la vediamo perché costretti da voi a non sentirci più liberi di girare come vogliamo, e non è neanche solo per paura ma perché ci disgustate.

Sporco, delinquenza minore e maggiore, coca a fiumi, palazzinari, il tutto pagato come se fossimo a New York o Londra.

Come ciliegina sulla torta, lʼindegno spettacolo di Fabrizio Corona al Nazionale, uno dei nostri più importanti teatri. Le scuse a seguire false come una crosta, cosa pensavate, che uno così mettesse in scena Mistero buffo o Shakespeare o Williams? Fate più schifo di lui, visto che lui non nega di essere ciò che è e voi invece vi nascondete sotto il manto della cultura.

Siamo sempre di più quelli incazzati che non han più voglia di essere correct, e magari un giorno riusciremo ad andarcene, perché tanto Milano non cʼè più, tenetevela voi questa fogna.