Le mie tracce d’inchiostro

Pubblicato nella raccolta di racconti Amore 2.0. Amori liquidi e ipertecnologici, 9muse, 2009

Ti amo incommensurabilmente

(Un pensiero affettuoso a Fabio Baldini che è l’ispiratore di questo racconto e un grazie di cuore a Dario che mi ha convinta a scriverlo)

L’avevo capito, stava seduto di tre quarti sul divano e una riga gli attraversava la fronte, sembrava un piccolo gnomo buffo, una faccetta da bambino con una ruga da vecchietto. Voleva dire che la sua giovane mente non riusciva a partorire un’idea all’altezza della situazione.

  • Ti amo incommensurabilmente.

Erano giorni che si aggirava per casa con il cellulare in mano, come se fosse ormai diventato una protesi, anche in bagno, si sa mai che quel messaggio arrivasse e lui non lo sentisse o che l’idea gli scaturisse proprio mentre era seduto sul cesso. Il mio bambino era innamorato.

  • Eh?
  • Scrivile così: ti amo incommensurabilmente.

Sorrisi nel vederlo arrossire, non era riuscito a nascondersi abbastanza. Avrei voluto sedermi accanto a lui e raccontargli la storia di quella frase ma non era il caso di spingere troppo sul pedale della confidenza. Andai in cucina e per qualche minuto feci finta di sbattere piatti e pentole, poi misi fuori la testa di nascosto. Stava trafficando sui tasti, la ruga gnomesca si era accentuata. Capii che aveva portato a termine la sua impresa quando lo vidi alzarsi dal divano, il cellulare incollato al palmo, il decorso della protesi andava a meraviglia: stava diventando un tutt’uno con il corpo.

Blem bleem bleeem, Simone aveva ricevuto la risposta. Dio ti ringrazio che la ragazzina aveva dato il segnale di esserci, non ero dell’umore migliore per ammortizzare una crisi adolescenziale.

  • Non ha capito.
  • Cosa?
  • Non ha capito cosa le ho scritto.
  • Ma dai, come è possibile. Fammi vedere.

Ti amo incmmensrbilmnte.

  • Ma cosa hai scritto?
  • Quello che mi hai detto, mi sembrava un’idea. Quella parola lì non l’avevo mai sentita.

Si appoggiò al tavolo e iniziò a studiare attentamente il movimento del suo piede che strisciava per terra, imbarazzato. Sembrava pericolosamente orientato a intraprendere qui ed ora una ricerca approfondita sulle dinamiche e conseguenze possibili di un piede che striscia per terra.

  • Come vuoi che capisca una roba scritta così?
  • Mah, forse il T9 non ha preso…
  • Il T9, ma perché devi far uscire le parole a una macchina quando hai un cervello per produrle?

Ecco, avevo interrotto i suoi studi comparati sull’arto strisciante e chiuso ogni porta di comunicazione. Se ne andò con la sua protesi e per rivederlo in un lasso di tempo ragionevole c’era solo da sperare che la ragazzina fosse abbastanza ingegnosa da saper mettere tutte le vocali al posto giusto.

  • Ce l’abbiamo ancora la dymo?
  • Che?
  • La dymo, quell’affare per scrivere le parole.

Fabio mi guardò un attimo perplesso cercando di capire perché a uno appena rientrato a casa venisse posta una domanda così complessa, perché non il solito: ehilà, com’è andata la giornata?

  • Ti ricordi quando la usavi al liceo?

Gli si allargò un sorriso che mi contagiò immediatamente. Si avvicinò per sussurrarmi all’orecchio: «Forse in solaio, forse nello scatolone in fondo allo sgabuzzino o forse l’ho buttata. Io lo sgabuzzino, tu il solaio».

  • Naaa, io lo sgabuzzino, tu il solaio.
  • Ma dai, ormai la fobia del solaio l’hai superata. E perché vuoi la dymo, devo passarci su altre ore, sei stata presa da un attacco di nostalgia?
  • No, vorrei far vedere a tuo figlio quanti modi esistono per comunicare.
  • Umm, auguri.

Andai al pc: pagare le bollette, vedere quanti centesimi erano rimasti in banca. Prima devo procedere con l’operazione solita, non ho mai capito se serva, se l’ho letta da qualche parte o se è sorta da un mio oscuro procedimento mentale. Ma mi sembra una difesa contro un possibile pirata informatico. Chi è quello sfigato che cerca di portarti via quei quattro soldi rimasti in banca? Mah, c’è sempre qualcosa di peggio. Cronologia, temporary internet file, temporary file, cookies,: CANC CANC. Proseguire? Sbang, sì. A volte ci pensavo, con quel tasto Invio del computer sembravamo ormai tutti degli imperatori (Cesare usava il pollice, premilo tu Invio col pollice): quando eri sicuro di voler eliminare qualcosa, sbang, ci picchiavi sopra con un senso di liberazione, come se giustizia fosse stata fatta, come se ripulire il tuo computer da una cosa inutile o addirittura dannosa fosse come liberare te stesso. Pensai a Simone e alla sua protesi cellulare, il cellulare, le cellule… Ma i problemi sorgevano quando non eri sicuro: irrimediabile, se scegli Invio la decisione è irrimediabile. Potresti danneggiare il computer o potresti danneggiare te stesso e in quel momento non sai nemmeno qual è la cosa peggiore perché all’idea di restare senza il testone quadrato per giorni ti fai prendere dall’horror vacui. E se mando quella mail, Invio, ho scritto cose di cui potrei pentirmi; e se cancello quel file che era un mio racconto perché in quel momento mi vergogno di quello che ho scritto, Invio. La cosa è partita, la cosa è stata cancellata, non ti verrà data una seconda possibilità. Il dito allora si ferma a metà percorso, indugia, niente colpo deciso e liberatorio, niente sbang, solo un colpetto delicato, magari sperando che il comando non prenda veramente e tu abbia così ancora una frazione di secondo per ripensarci.

Download file: controllo anche questo, non si sa mai che qualche contemporaneo Ulisse sia riuscito a entrare con un Cavallo di Troia.

Vado alle mail, 52 nuovi messaggi: Casino Casino Casino, Bonus, Hai vinto. Canc Canc, furibondo il mouse scorre mentre nella mente mi si formano le peggiori maledizioni. Li odio, li odio questi deficienti. Vorrei essere un hacker e inviargli un virus che gli devasti il computer. E loro se lo ricomprano e io glielo devasto di nuovo. Canc canc.

Enlargis penis. Pene, penis, penae, penorum, fanculo, sono una donna, cazzo, che me ne faccio di un qualcosa che mi enlarge il pene? Canc Canc. Pharmacia on line. Penso a quello stronzo di Alberto: pare che a prendere il Viagra si veda blu. Allora se uno fa l’amore con te è come farlo con un Puffo! Canc Canc.

Verifica tuoi conti, per sicureza clicca qui. Ma chi è quel pirla che ci casca come se una banca potesse scrivere in questo modo! Canc Canc.

52 nuovi messaggi, da tenere: 3. Dio, che tristezza. Apro la mail di Irma: una ventina di righe, tutte le parole scritte per esteso, tutti gli accenti corretti, tutti i ch e non le K. Magstrle. Irma ha la mia età. Scritte bene ma il senso non cambia: venti righe di insulti. Che diavolo le ho fatto? Scorro fino in fondo alla ricerca del mio messaggio. Accidenti, ecco cosa ho fatto, non ho aggiunto la faccina: 🙁  Quella avrebbe dato un significato preciso alla frase. Così invece, buttata lì breve, avevo fretta, si sono creati gli equivoci. Irma ha la mia età: devi scrivere tutto per esteso, il massimo della concessione sono le faccine. Le rispondo con trenta righe chiare e inconfutabili. Irma è permalosa ma è un’amica e non voglio avere 53 mail di Casino e 2 da tenere.

Simone è riemerso dal suo universo di studi comparati, chip, mp3, sms, mms, umpf :

  • Nnnn

Sta per no, non ho fame adesso. Vorrei che a volte dicesse grz ma non gli riesce tanto facilmente. Vorrei chiedergli come va con la ragazza ma noto che non ha il cellulare incollato alla mano, lo interpreto come un pessimo segnale di resa. Ciondola per casa con quegli stupidi pantaloni che arrivano sotto il sedere e quelle mutande che escono con la firma di quei due fighetti di stilisti. Tanto lo so che le ha comprate da qualche nero, taroccate da qualche cinese, mica glieli do i soldi per quelle originali, così faccio girare l’economia, quella globale. Dio, a volte mi chiedo come ho fatto a generare quel mostro ma Fabio mi ricorda tutte le idiozie che per noi erano dei must.

  • Sì, ma avevamo quei bei jeans che facevano un bel culo. Questi ragazzi mancano del senso estetico.
  • Ummm.

Se anche Fabio inizia a parlare per sigle qualcosa non va. Che c’è, gli chiedo.

  • Simone, mi sembra triste.

Gli racconto la storia del messaggio.

  • Gli mancano le parole, è la comunicazione che sta per essere compressa. Ci vogliono tutte, sai, le lettere, le parole, anche quelle che non usiamo più, per essere capiti, per farci capire. Bisogna metterci più tempo.

Il giorno dopo vedo Simone davanti al frigorifero, sta guardando qualcosa, sembra di nuovo un piccolo gnomo accigliato. Poi la vedo anch’io. Mi si inumidiscono gli occhi. Questa volta glielo dico, questa volta le parole le uso tutte.

  • Tuo padre è stato mezz’ora nascosto dietro il banco a scuola, maneggiava qualcosa e io non capivo. Poi se l’è portato a casa e quando gli ho telefonato sentivo un rumore ma lui diceva: niente, non sto facendo niente. E poi me l’ha data il giorno dopo, una striscia lunga così e io non l’ho mai persa, non l’ho mai buttata.

Simone mi guarda e vedo nei suoi occhi una dolcezza che non gli ho mai visto prima. Non ha più quell’improbabile ruga in mezzo alla fronte.

  • Devi dirmi con che cosa l’ha fatta.
  • Certo.

Restiamo davanti al frigorifero a guardare la striscia nera adesiva, con quelle lettere bianche in rilievo che si possono toccare, sentirne i contorni, leggere anche ad occhi chiusi:

TI  AMO INCOMMENSURABILMENTE

 

 

Racconto per un disegno, 2010

Il racconto è nato dal disegno di Dario Rivarossa

9 maggio 2110

Credo che Oirad stia perdendo il vizio di mangiarsi le unghie. L’ho notato ieri, quando gli ho passato il centrifugato da portare in tavola. Abbiamo visto un film di storia, una vecchia cosa del XX secolo presa al Centro studi archeologici,  2001: Odissea nello spazio. Mi piace vedere queste cose. Quando frequentavo il Centro, Karmus mi ha mostrato una foto, un dipinto credo, erano delle figure che un certo Michelangelo aveva dipinto su un muro, parlavano di un dio e altre cose. Non ricordo bene, non potevamo leggere gli archivi per più di due ore alla settimana. Karmus mi ha detto che all’epoca disegnavano con le mani, non so come facessero. Gli hanno detto qualcosa, al Centro grafico dove ha studiato, ma solo qualche accenno. Karmus è bravo a inserire algoritmi, crea le foto per le notizie dei giornali. Ci penso spesso a quel posto, mi piaceva andarci, leggevo supporti di filosofia, storia e arte, avevo chiesto al professore se potevo diplomarmi per lavorare lì ma mi ha detto che erano già in trenta e il Centro non serviva a molto. Credo di aver fatto bene a fare la riconversione neuronale, non raggiungerò i piani più alti al Dipartimento di fisica ma mi ha aiutato. Riesco a capire meglio i numeri e la filosofia non mi attrae più tanto, effettivamente non saprei che farmene.

12 maggio 2110

Oggi al lavoro sono andati a casa in cinque, alla sezione Chimica. Si dice non stessero bene, ma non so molto altro.

14 maggio 2110

Stasera sono stanca, ho provato a vedere un altro film storico ma mi stavo addormentando. Scrivo solo due righe, alla nostra sezione sono rimasti a casa in due, dobbiamo dividerci il lavoro. Credo proprio che Oirad abbia smesso di mangiarsi le unghie.

19 maggio 2110

C’è qualcosa di strano al Dipartimento, la gente continua a stare a casa, non stanno bene ma almeno non deve essere roba infettiva, non tutti i colleghi di chi è stato male si sono ammalati. Da noi mancano in dieci, ma noi stiamo bene, ci sentiamo stanchi ma credo sia per il lavoro.

21 maggio 2110

Era da un po’ che non vedevo Oirad, così sono salita da lui. Sembrava contento di vedermi, gli ho detto di organizzare una cena con gli altri, ha accettato ma era un po’ strano. Forse si è innamorato di Hegratim, eh, eh, ma lui non lo vuole ammettere. O forse no. Di solito lui ha sempre caldo ma ieri aveva i pantaloni infilati nelle calze, si gratta spesso una spalla. L’ho aiutato a mettere i tranci di liofilizzato nell’azoto, era in vena di grande cucina, ho visto che ha le unghie lunghe. Mi sembra che adesso esageri un po’. Angus non si è sentito bene, forse non ha digerito, gli ho detto di restare a dormire da me.

22 maggio 2110

Giornata di escremento. Al lavoro siamo sempre meno, Angus è ancora sul mio divano, non ha mangiato niente, non si è alzato, è molto pallido. Volevo portarlo all’Azienda di sanità ma non ha voluto. Sento dei tonfi da sopra, non so che diavolo è preso a Oirad.

24 maggio 2110

Abbiamo deciso di vederci chiaro. Si stanno ammalando in tanti, non può essere un errore della sezione Chimica, ormai sono passati 50 anni dall’ultima diffusione di sostanze letali, sono state prese tutte le precauzioni ma c’è qualcosa che non va. Abbiamo fatto teleconferenza per chiedere notizie alla direzione, dicono che anche loro non ne sanno niente ma si stanno muovendo. Siamo rimasti in pochi, il Dipartimento sta collassando. Sono tornata a vedere le pitture sul muro di Michelangelo, ho chiesto a Karmus di accompagnarmi ma non ha voluto, dice che sta lavorando su un progetto grafico molto difficile, non vuole distrazioni alla componente cerebrale matematica. Sono andata da sola, mi è venuto il mal di testa, al lavoro non sono riuscita a tenere la media dei 250 logaritmi al giorno.

25 maggio 2110

Anche Lexa si è ammalato l’altro giorno così oggi l’ho chiamato… pronto… posso parlare con Lexa? Ho detto così perché pensavo di aver sbagliato connessione, la videocamera era spenta e non avevo riconosciuto la voce. Mi ha detto che sta male, non riesce ad alzarsi dal letto e gli dà fastidio la luce. C’è qualcosa che posso fare per te? No, niente. Ha riattaccato. C’è qualcosa che non va, ma non riesco a capire. Tonfi da sopra. Ho bussato tanto alla sua porta ma non rispondeva. Non l’ho mai fatto, non l’avrei mai voluto fare ma ho abbassato la maniglia e la porta si è aperta. Aveva convertito tutti i pannelli a notte, la casa era buia, volevo chiamarlo, avvertirlo di quell’intrusione, ma non sono riuscita a parlare. Stava davanti allo schermo, aveva una coperta addosso, non mi ero mai accorta che fosse così alto. Perché era tanto curvo? Stai su diritto, sembra che hai una gobba enorme, non l’ho detto, avevo paura. Credevo guardasse qualcosa di blu sullo schermo, credevo che lo schermo riflettesse blu su di lui. Lo schermo è chiaro. Oirad non ha smesso di mangiarsi le unghie: ha smesso di mangiarsi le unghie della mano sinistra. Ha…hai comprato un cane, Oirad? Non so perché ho così paura, non riesco a mettere a posto i pensieri. Il mio cervello convertito riesce a vedere le dimensioni di tutto ma i numeri non collimano.  Oirad si gira a guardarmi. Mi sembra di vedere tutto l’amore e tutto l’odio del mondo. Di lui è rimasto poco, in fondo a uno degli occhi vedo un’espressione che mi porta indietro a non più di qualche giorno fa, quando aprivo la porta e me lo trovavo davanti con le braccia cariche di barattoli: stasera cena cchez ttoi, ho già chiamato gli altri. Avevano commesso un lieve errore durante la sua riconversione linguistica e strascicava le parole in francese. A volte avrei voluto mandarlo al diavolo, lui e i suoi stupidi semi nucleari ma eravamo amici da anni. Davvero stavo pensando a quello, mentre si alzava e veniva verso di me? La coperta gli è scivolata dalle spalle e un’ombra si allarga nella stanza, mi sembra di sentire un lieve sibilo, come quelli che si sentono quando si entra nell’Osservatorio di ornitologia, l’unica fonte di luce è lo schermo, quasi bianco, la sua pelle è bluastra e la zampa che avevo visto sotto la sedia non è di un cane, è uno dei suoi piedi. Allunga verso di me la mano senza unghie, una mano stranamente bella, e afferra le mie. Ho così paura che non riesco a muovermi, tiene l’altra mano con gli artigli a penzoloni, come se volesse evitare di usarla per non ferirmi. Guarda le mie mani e, come da lontano, lo sento urlare: perché tu no, perché tu no? Mi trascina davanti allo schermo: ci sono una decina di immagini, persone, no, forse una volta lo erano, cose come lui. Una parte del loro corpo è di una bellezza straordinaria (sul supporto archiviato alla voce Leonardo c’è una figura con le ali che si china verso una donna, io e Karmus ci guardiamo e abbiamo gli occhi lucidi: che cosa ci siamo persi? Il professore del Centro arriva e dice che il tempo è scaduto), l’altra ha tanto orrore dentro da andare oltre la ragione (ecco il loco dove ti convien che di fortezza t’armi… che cosa vuol dire, Karmus? Non lo so. Sta finendo il tempo, memorizziamo le parole, poi torneremo a cercare altro). Credo che i ricordi mi vengano per tenermi legata alla realtà. Oirad cerca di spiegarmi. Sono esseri mutati, sono venti in tutto il mondo, hanno il suo aspetto e sopravviveranno. Gli altri moriranno tutti. Io sono gli altri. Non siamo riusciti ad arrivare in tempo, dobbiamo ricominciare da capo, mi dice. Non so cosa voglia dire, non mi interessa più. Penso alle figure dipinte.

31 maggio 2110

Sono Oirad. Voglio finire questo scritto prima di partire. Allal è morta, non l’ho uccisa, ho solo accelerato la sua fine, eravamo amici, mi ha sopportato tante volte, glielo dovevo. Le altre persone sono ancora in agonia. Sono entrato dalla finestra che ha lasciato aperta per non farmi vedere da qualcuno non ancora morto. Le ho dato un sonnifero. Ho volato sopra una scogliera e l’ho lasciata cadere dove le rocce erano più appuntite. Solo uno dei miei occhi ha potuto guardare la sua testa che si fracassava sui sassi, l’altro ha visto levarsi un’onda bianca, poi più niente.

 

Il libro degli animali

Scritto per Concorso Lessona, Sezione Racconti, 2012

Vento di scirocco. Senza accorgersene strinse il timone più forte e continuò ad ascoltare i propri pensieri. Colonne d’Ercole. Nella sua testa giravano un miliardo di informazioni. Diede un’occhiata alla strumentazione di bordo e aggiustò di pochi gradi la rotta. Non ci aveva messo molto a capire come funzionava un’imbarcazione. A Gabriele riusciva facile capire qualunque cosa rappresentasse una via di fuga.
Se gli antichi umani pensavano che le Colonne d’Ercole fossero un limite invalicabile, allora era là che doveva andare. Non aveva avuto molto tempo per pensare, abbastanza per decidere che quello era il mezzo che li avrebbe portati il più lontano possibile. Ora non era più solo, ora c’era Kyra e doveva rimediare a tutto il dolore che le aveva causato.

Scese a vedere come stava. Sottili vene azzurrine percorrevano le palpebre chiuse, le lunghe ciglia sembravano ancora umide di lacrime e ogni tanto il petto le si sollevava in un respiro più profondo, come un singulto. Si chinò per spostarle i capelli dal viso e sentì dentro qualcosa che fino a quel momento non aveva mai provato. Gli venne in mente la prima volta che vide la madre di Kyra. Dalla finestra aveva scorto la donna ferma dietro il cancello di casa e si era messo ad osservarla. Uno scuolabus spuntò in lontananza e il viso serio della donna, quasi ansioso, si aprì in un sorriso. Una bambina scese gli scalini trotterellando e saltò tra le braccia della madre (Gabriele diede per scontato che fossero madre e figlia), si strinsero come se non si vedessero da anni. Le prime volte aveva provato quasi disgusto per una scenetta così stucchevole che si ripeteva uguale ogni giorno ma poi, incomprensibilmente, diventò una specie di abitudine. Quasi come alla ricerca di un punto fermo di normalità in un’esistenza che di normale non aveva mai avuto niente, si era ritrovato a guardare l’orologio, come se aspettare la bambina fosse una cosa di sua competenza.
Alzandosi dal lettino urtò qualcosa per terra: era la cartella gialla e rossa di Kyra, l’aveva vagamente fotografata con la mente mentre scappavano. Ora si chiese come mai avesse quella cartella di forma tanto antiquata e non il suo solito vezzoso zainetto rosa alla moda. L’aprì e ci trovò dentro un libro: Il mare e i suoi animali. Si graffiò leggermente con quel che restava della rilegatura, pezzetti di colla dura in mezzo a fili superstiti che tenevano ancora eroicamente insieme le vecchie pagine.
Si portò il libro nella sala comandi: il mare piatto e liscio non era un buon motivo per abbassare la guardia e se Nettuno l’avesse visto con quel titolo tra le mani, forse avrebbe continuato ad essere conciliante. Era un libro a disegni con brevi racconti che narravano degli animali che abitavano dentro i mari e sulle coste di paesi caldi e freddi, fin giù giù ai mostri degli abissi. C’erano dei fogli con i disegni ricalcati e pensò sorridendo che non dovevano essere i pesci i preferiti di Kyra: i pony delle isole Shetland, un coniglietto, un’orsa polare con il suo cucciolo, un Pulcinella di mare. Accostò uno dei disegni alla luce per vederlo meglio e si accorse che qualcosa non tornava. I tratti erano troppo precisi per essere quelli di una bambina così piccola, i fogli erano di un giallognolo che sapeva di carta vecchia. In fondo a uno di quei fogli una scritta:
E il buon vento del sud spirava ancora,
ma più non ci seguiva il dolce uccello,
né per cibo o per gioco più veniva
dei marinai all’appello.
Su un altro un nome: Marcella. La mamma di Kyra le aveva passato, no, le aveva “trasmesso” quel libro, forse già consunto dalle tante letture e Kyra aveva contribuito a renderlo ancor più vissuto. «Vai a prendere qualcuna delle tue cose, ma poche», le aveva detto di corsa, non era nemmeno stato a guardare cosa avesse portato con sé, aveva registrato che la cartella aveva dimensioni accettabili, questo bastava, e Kyra aveva preso quel libro. Forse l’amore di Marcella per la natura era nato da quel libro, cresciuto con altri libri, passeggiate, viaggi. Dio, se solo l’avesse conosciuta meglio, se solo avesse avuto la possibilità di ascoltarla, forse avrebbe potuto trasmettere alla bambina molto di più di quel libro. Ma così, sarebbe rimasta l’unica cosa che la legava alla madre.
«Lì il dodo non c’è.»
Gabriele sobbalzò sulla sedia, si voltò. Kyra stava in piedi sulla porta, i capelli arruffati, gli occhi assonnati, un’espressione quasi adulta. «Che cosa non c’è, cara?» «Il dodo. La mamma mi ha portato al museo di scienze maturali una volta, stava dentro a una vetrina. Era bello, sembrava una papera, ma più grosso, con un becco grande così.» Sorrise mimando la descrizione con gesti buffi. «Ma non c’è più, gli uomini l’hanno ucciso.» Guardò per terra e Gabriele vide che la tristezza la stava prendendo nuovamente. «Ma no, Kyra, che dici, non possono avere ucciso tutti i dodi del mondo, ne troveremo qualcuno.» «No!» Gabriele indietreggiò sorpreso, Kyra non aveva mai urlato, i piccoli pugni chiusi, gli occhi che lo guardavano diritto in faccia, sembrava avesse dentro tutta la rabbia del mondo. «Me l’ha detto la mamma, gli uomini l’hanno cacciato e cacciato finché li hanno uccisi tutti, non esistono più. Si dice… estinto. Quando un animale non c’è più si dice estinto. Anche l’aquila delle scimmie e l’uccello del paradiso, non ce ne sono quasi più. Se vuoi vederli devi andare al museo.» Si guardarono, Kyra aveva incrociato risoluta le braccia sul petto, sembrava volerlo sfidare a dire il contrario. Gabriele immaginò i pomeriggi della bambina e i giorni di vacanza, Marcella che le leggeva il libro del mare, che le insegnava a disegnare; Marcella che la portava nei musei di scienze maturali, a spasso in bicicletta in mezzo ai campi, su una spiaggia a raccogliere conchiglie, in montagna a spiegarle che, no, i funghi non si toccano e sì, quelle con le corna sono mucche, come quelle legate negli allevamenti e qui invece libere di camminare e tenersi le loro corna. Marcella che le insegnava ad amare ogni cosa vivente, che le sorrideva, forse anche in quei suoi ultimi giorni di preoccupazione. Conversazioni che poteva solo immaginare perché la sua vita era stata un mucchio di soldi guadagnati facendo lavori scomodi conto terzi e nessuna bellezza. Pensò ai pomeriggi di quando era bambino lui, a calciare ossessivamente un pallone contro il muro scrostato per tenersi lontano il più possibile da suo padre violento, da sua madre, una donna da niente.

Rivide Marcella su quel palchetto improvvisato ad arringare la piccola folla raccontando di rifiuti tossici nascosti sotto le strade, interrati nei campi, di bidoni carichi di veleni affondati in mare. Fumi di scarico e polmoni rinsecchiti, fiumi neri di percolato e acini d’uva avvizziti, cittadelle commerciali a riprodurre in plastica ciò che non c’era più nel vero. «È quella», tanto bastava a far capire, tanto era bastato a lui per capire. «Questo è un paese piccolo, c’è sempre qualcuno che guarda, potrebbe essere pericoloso», aveva cercato di trovare una scusa, non credendoci lui per primo. Era sempre stato bravo nel suo lavoro, mai un dubbio ma l’incarico di quella volta era stato diverso. L’avevano mandato lì senza dirgli di chi si trattava e lui aveva seguito le indicazioni, era pagato per questo e non aveva mai badato molto alla differenza tra quelli che gli camminavano accanto con la giacchetta e quelli che gli camminavano accanto con un bersaglio disegnato sulla schiena, o sul davanti, dipende dai casi, non ha molta importanza. Ma la permanenza forzata vicino a Marcella e Kyra aveva dato luogo a una “brutta amicizia”, di quelle che guastano, al contrario però. «Dovresti piantare delle viole qui. Gino diceva che per loro andava bene perché è all’ombra e la terra è umida.» Non aveva neanche capito di cosa stesse parlando, se ne stava chinato vicino al recinto a mappare mentalmente l’ambiente, conoscere i dintorni faceva parte del suo mestiere. La bambina lo fissò per qualche istante, poi corse via. Meglio, pensò, l’ultima cosa che mi serve è una stupida che mi gira intorno asfissiandomi di chiacchiere infantili. Ma poco dopo la vide puntare nuovamente verso di lui, spingendo a fatica una carriola in miniatura con sopra un vaso. Nonostante l’irritazione che già sentiva montare dentro, non poté fare a meno di assistere divertito alle grandi manovre. Parcheggiò con un tonfo la carriola vicino alla staccionata e ne tirò fuori il vaso che per lei era di proporzioni gigantesche. «Ecco, queste sono per te. Devi fare un buco lì, proprio dove hai i piedi e piantarle. Poi le annaffi, un giorno sì e uno no. Sono facili da tenere e profumano. Io sono Kyra e adesso devo andare.» Scappò via ridendo lasciando Gabriele quasi interdetto. Non era riuscito a dire nemmeno una parola, neanche la soddisfazione di mettere in pratica i suoi metodi per scollarsi qualcuno di torno. Abbassò gli occhi sul vaso e vide dei mazzetti di fiori viola e gialli. Gli ricordarono un giorno passato in montagna con una donna che era stata un po’ meno occasionale delle altre. Pensò anche di piantare i fiori e quando si accorse di aver perso del tempo in pensieri che non c’entravano con il lavoro, si rialzò seccato. Doveva riportare indietro il vaso prima di ritrovarsi alle prese con una iena indispettita per sottrazione di fiori o, peggio ancora, che coglieva l’occasione per impicciarsi dei fatti suoi. «Se Kyra le ha regalato le viole, va bene così, si vede che lei le piace» era stata la risposta sin troppo normale della madre. Non era arrabbiata, non l’aveva guardato né con sospetto né con curiosità. Sorrideva e basta. Era piaciuto a una bambina abbastanza da farsi regalare dei fiori, la madre ne aveva preso atto, fine della storia. E forse era stato questo il suo errore più grande, sottovalutare l’assoluta normalità. Poteva lasciarle entrare un po’ nella sua vita, non potevano costituire un pericolo, anzi, poteva anche tornargli utile recitare la parte del buon vicino.
Ma quando gli avevano sussurrato «è quella», l’errore che aveva commesso si era rivelato in tutta la sua spaventosa portata. Aveva dato per scontato tutto, che non c’era niente di male a guardare lo scuolabus dietro ai vetri, che una bambina poteva anche venire ad aiutarlo a fare buchi in giardino e a raccontargli storie di scuola e parco giochi, che non c’era niente di strano se passava a comprare il pane anche per la sua vicina o l’aiutava a falciare il prato. Erano tutte cose talmente banali, tranne che quella semplicità gli era entrata dentro e se l’era preso abbastanza da non fargli più capire che non comprava solo il pane per le vicine ma stava ad ascoltare Kyra e, soprattutto, stava ad ascoltare Marcella. Marcella sempre pronta a scrivere, a parlare, a denunciare. Marcella impegnata in difesa della natura. E lui che nemmeno aveva capito quanto questo potesse essere pericoloso.
«Non deve essere un omicidio, deve essere un incidente.» «Ma sì, uno di quelli che poi nei trafiletti vengono titolati “Tragico incidente”, “L’ennesima vittima della strada”.» Era seguita una risata sgangherata a cui non si era unito solo perché non era più abituato a ridere. O forse perché non si era mai accorto prima di quanto fossero brutte quelle persone. Non era il brutto fisico, era il brutto che veniva da dentro. Visi deformati dal brutto interiore, che nasce dall’ignoranza, dalla cecità, dall’assoluta incapacità di vedere il bello. Bellezza fine a se stessa, pura estetica, senza guadagno.
Aveva cercato di dissuaderli, di dire che non c’erano le condizioni di sicurezza per venirne fuori, e perché poi rischiare la galera per una donnetta esaltata che non faceva paura a nessuno. Ma quelle non erano persone a cui potevi darla a bere, avevano capito che lui si stava rifiutando e questo non andava bene, ma proprio per niente.
Cosa avrebbero dovuto fare per salvarsi tutti e tre? Tutti e tre. Come si era ritrovato a pensare a qualcuno oltre se stesso? Quanto tempo gli restava? Sentì il rumore dell’automobile di Marcella e il presentimento che il tempo era già scaduto fu forte come una certezza. Si mise a urlare, ma la macchinetta piena di adesivi uscì sulla strada con la sua solita andatura: un gran clangore di vecchie parti meccaniche che producevano solo una modesta velocità. Tanto lo sapeva, sarebbe aumentata poco dopo, appena voltata la curva.

Kyra doveva avergli detto qualcosa. «Posso riprendermi il mio libro?», tornò a guardare i suoi occhi intelligenti (signore, come intitolerebbe questo film? La bambina che sapeva troppo. Lucidi bianco/neri, brillanti colori, primi piani, carrellate indietro, file di cavalli all’orizzonte. Il vecchio cinema fumoso, le poltrone col velluto rosso strappato, l’unica cosa oltre il muro scrostato. Se solo avessi continuato a guardare. Piantala di pensare cazzate, piantala piantala piantala).
«Se lo vuoi tenere, ma poi me lo rendi?»
(Te lo butto a mare questo maledetto libro, tua madre ci è morta per ‘ste stronzate… salvare tutti i dodi del mondo, ma per carità).
«Perché ti piace tanto questo libro?»
«Perché è bello»
(signore, come intitolerebbe questo film? Io ti salverò).

 

“Saluti”

in La provincia di Pavia. Gli stemmi civici del Pavese, della Lomellina e dell’Oltrepò, di Carletto Genovese, 2012

Fino a qualche mese fa gli stemmi per me erano semplicemente “disegni” su un antico muro comunale, su qualche comunicazione ufficiale. I gonfaloni quegli stendardi agitati, a volte sì, con mirabile destrezza, durante le sagre e le rappresentazioni storiche, che sbrigativamente ho sempre bollato come anacronistiche. [Devo altresì confessare di avere irriso a un mondo antico che attraversava il tempo per approdare nella mia posta elettronica sotto forma di mail in cui mi si proponeva la ricerca araldica del mio cognome. Chiamandomi con il nome che veniva dato ai bambini abbandonati nelle ruote dei monasteri, cestinavo le mail con un sarcastico “provaci tu a risalire alla mia origine”.] Ma forse questo è il rovescio della medaglia di vivere in un Paese così ricco di storia e di arte come l’Italia: a volte abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e che con l’amore e la pazienza della sua passione ci conduca a guardare oltre. Leggere questo libro è stato quindi un viaggio in una realtà che è sempre stata lì, ma sulla quale non mi ero mai soffermata a riflettere. È stata la scoperta dell’araldica, della sua storia, delle sue istituzioni. Una tradizione antica e regole ferree che nemmeno immaginavo. Ed è in quest’ottica che ogni simbolo, ogni raffigurazione acquisisce un significato preciso, dove nulla è lasciato al caso. Racchiuse in questi scudi ci sono la storia, la geografia, l’economia di tanti comuni che, pur se a volte molto piccoli, hanno contribuito in maniera fondamentale all’identità del territorio pavese. È dunque una lettura che arricchisce culturalmente sotto molteplici punti di vista. Se le descrizioni tecniche potranno forse inizialmente spiazzare il lettore profano, la curiosità che nasce dall’approccio alle regole araldiche sarà certamente la molla per proseguire nella comprensione dei termini propri di questa scienza. Il piacere del viaggio nella storia si intreccerà a quello puramente estetico che scaturisce dai disegni e dall’accostamento dei colori, fino a spingersi ad eleggere il proprio preferito.

Questo volume ha anche il pregio di aprire ulteriori spazi di riflessione. In un pianeta quasi omologato e nel momento particolarmente difficile che stiamo vivendo, leggere i simboli delle nostre città e paesi può diventare occasione per ripensare la nostra identità, non attraverso l’inutile lente della chiusura in se stessi, ma ritrovando il vanto di un ricchissimo percorso di cultura e arte.

E tutti noi che viviamo ormai tra le “finestre” di Windows e le applicazioni della Apple, lavorando e divertendoci in una dimensione fatta di icone, forse dovremmo pensare che questi americani saranno anche bravi con l’informatica ma che le icone sono immagini che parlano da sé, comunicazione immediata di concetti ben più complessi, esattamente ciò che sono gli stemmi, inventati secoli fa dai nostri avi.

All’inizio di questo scritto ho accennato alla passione; vorrei quindi concludere dicendo è proprio la passione che ha costruito questo libro. Il dottor Carletto Genovese si è impegnato nella ricerca e nello studio del materiale ma, soprattutto, ha voluto condividere questo suo interesse aprendo a molti un universo così poco conosciuto.

 

“Introduzione”

in Sono tutto ciò che vedi attraverso i tuoi occhi, ARPANet, Milano 2012

Propulsori di moti di rivolta, aggregatori di movimenti collettivi, straordinari mezzi di comunicazione immediata, sfasciafamiglie, luoghi di incontri potenzialmente pericolosi, lesivi della privacy. Nessuna di queste definizioni ha in sé qualcosa di originale, perché ormai, nel bene e nel male, il fenomeno dei social network è stato studiato e raccontato in centinaia di modi.

Non più nuovi nemmeno alla letteratura, si potrebbe pensare che a questo punto i social network possono solo continuare ad esistere, con le loro tante espressioni, e far parte della nostra vita come un qualunque altro oggetto di uso quotidiano che, come tale, non ha più nulla da offrire alla fantasia. Ed ecco che invece questo libro, nato da un gruppo di persone che si sono incontrate in Rete, porta in sé nuove idee.

Di pagina in pagina, si prova ammirazione per questi autori che, sebbene “ingabbiati” in un tema fisso, riescono a far scaturire dalla loro fantasia dei piacevoli racconti. Avventura, suspense, commozione, ironia sostengono le trame degli scritti. Alcuni giocati sulla dimensione fantastica, quasi fantascientifica, altri più aderenti alla realtà – dove è comunque difficile distinguere l’esperienza vissuta da quella immaginaria –  rispecchiano quella è che sempre la sensazione che si prova quando si entra in un luogo virtuale, che vive mosso da una serie di macchine dietro cui però ci sono persone in carne e ossa: il camminare su un crinale, a metà strada tra reale e virtuale.

A scorrere le loro brevi biografie, si scopre che solo per alcuni la scrittura è mestiere, ma certamente tutti vivono la parola scritta con profonda passione, riuscendo a trasmetterla al lettore, che si trova così coinvolto fino all’ultimo racconto. «Un’opera d’arte deve afferrare chi la guarda, avvolgerglisi intorno, portarselo via», è ciò che scrisse Pierre-Auguste Renoir riferendosi alla pittura. Io credo che anche un libro quando è bello ha questa capacità di prendere il lettore e portarselo via, e non pochi di questi racconti ci riescono.

Per non correre il rischio di apparire esageratamente di parte, va chiarito che non è alta letteratura ma, a costo di sembrare retorica, una riflessione la voglio condividere. Mi dà lo spunto il periodo “storico” che stiamo attraversando. Tra teutoniche imposizioni e vuoto di idee carico di insulti, sembra che dall’Europa fino agli italici politici sia una gara a chi cerca di svilirci, offendendo la nostra intelligenza, mascherando, con un’aggressione a priori, l’incapacità – o la consapevole non volontà – di indicare le vie veramente alternative e il coraggio di percorrerle.

A furia di battere il chiodo potremmo anche correre il rischio di crederci: di non essere poi un granché, di aver bisogno di una sapienza che non abbiamo. Ma poi ecco che ci imbattiamo in tante espressioni di pensiero e immaginazione, e allora ci ripigliamo ciò che ci appartiene da sempre: intelligenza e passione. Le stesse che gli autori  nutrono per la letteratura, il cinema, il teatro, la musica, la pittura e la danza. Hanno voluto trasmetterle in Rete e il lungo viaggio si è concretizzato in questo progetto.

Io sono libero

Il racconto nasce da frammenti di conversazioni umane che si sono succedute in poche ore con il medesimo concetto: tu chiamale se vuoi non-emozioni; ogni riferimento a cani esistenti non è puramente casuale. 2017

Ad alcune persone piace la quotidianità. Avere gli stessi orari, fare le stesse cose. Qualcuno ha addirittura bisogno della quotidianità, cenare cinque minuti dopo della stessa ora li mette in ansia, li fa arrabbiare. Si attaccano alla quotidianità come un naufrago a un relitto. Io invece vorrei una vita come le onde. Le onde non sono mai uguali. Più alta o più bassa, più bianca o più scura, un ricciolo qui, una cresta complicata là. Ma io sono uno scoglio, sono fermo ma vorrei vederle, così belle, così diverse. Ma le onde non arrivano o arrivano raramente. Sono uno scoglio asciutto e a volte vorrei piangere. Perché odio la quotidianità, non riesco a trovare un senso.

A volte i muri sembrano chiudermisi intorno, c’è soffocamento, e ti viene voglia di buttare anche le cose che hai sempre amato per far spazio all’aria. A volte anche le persone che hai sempre amato. La noia è qualcosa che uccide l’anima, i muscoli e i nervi. Invidio la gente che ama la sua quotidianità, che ama la sua città e il suo mondo l’ha già trovato lì, io non ho mai trovato niente lì, niente mi è mai stato sufficiente.

Quando la noia mi ha quasi preso tutto, progetto di andarmene. Però è difficile, nessun treno ti porta abbastanza lontano e comunque devi tornare. E comunque anche viaggiare comporta un dispendio di energia nei preparativi. Ci vorrebbe il teletrasporto. O dovresti essere un animale, niente passaporto, valigia, albergo. Ho sempre pensato che vorrei rinascere gabbiano. I gabbiani stanno al mare, non sono buoni da mangiare e quindi nessuno li caccia, anzi, mi paiono amati da molti, forse perché nessuno è tanto libero quanto loro. E poi hanno quello sguardo strano: i gabbiani se ne fottono di tutto.

Sento un macigno. Non è quell’apparato di buchi e circuiti che ci riempie, sono due mani piatte contro il mio petto, dentro. Premono senza sosta, senza strappi, in una spinta uguale e continua. Il mio respiro non riesce più ad allargarsi abbastanza. Devo andare. Prendo quel poco che mi basta per poco meno di una giornata. Non posso scegliere il mare, dio solo sa quanto lo vorrei, ma è troppo lontano. Basta un po’ di quel che si vede in lontananza, basta avvicinarsi, un’ora, due, ed è un po’ montagna. Vado dove il prato finisce e guardo lontano. Sento il vento, non è tanto forte ma chiudo gli occhi, apro le braccia come ad aprire una via perché quelle mani smettano di farmi pressione. Ho bisogno di respirare. Le mie vere mani hanno appena raggiunto il massimo, sfiato. Come se avessi espulso qualcosa, mi preparo a respirare tutta l’aria che ho perso in quelle ore, in quei giorni di noia. Dietro gli occhi chiusi ho ancora l’immagine delle montagne bianche davanti e di qualcosa sotto, doveva esserci molto di umano lì sotto, ma io sto scappando dalle cose dell’uomo. Capisco in un istante che non ho espulso fiato rappreso, ho espulso la mia anima. Un decimo di istante dopo sento un piede scivolare. Ho ancora le braccia aperte e gli occhi chiusi, so solo questo e poi più niente.

Riapro gli occhi. Mi sento strano. Mi sento nudo eppure caldo. Ho un corpo ricoperto. Sorrido, forse ce l’ho fatta, forse sono piume, forse sono un gabbiano. Guardo in alto e vedo una montagna. Ero in montagna, sono ancora qua? No, è diversa. Provo a sollevare un braccio, no, è un arto ma non è un braccio, è un’ala, la agito, non è un’ala. Stupida anima mia, mi hai tradito ancora una volta. Un’ombra offusca il sole sopra di me, un’ombra piccola. È un piccolo uomo. Qualcosa nella mia mente: bambino, si dice bambino. Quanto tempo è passato da quando non ho fermato il piede? Non lo so, forse abbastanza per dimenticare qualche parola umana. Il bambino mi prende con delicatezza un arto, apro qualcosa di morbido sulla sua manina, è una zampa.

– Che cosa hai fatto, idiota?

– Mi stai insultando ancora una volta.

– Non ti ho mai insultato.

– Ok, ma nemmeno mi hai mai accettato.

– Non sapevo neanche che tu esistessi.

– Quando mi facevo sentire tu non capivi e non facevi altro che scappare. Scappavi anche quando non te ne andavi, giravi intorno di stanza in stanza, scappavi nel pc, nel tv, facevi cose stupide.

– Ero solo un uomo.

– E anche questo è vero.

– Volevo solo essere libero.

– Ma eri un uomo, non potevi essere libero.

– E tu, imbecille, mi hai messo dentro un cane.

– Tu hai sempre amato i cani. E comunque mi hai insultato di nuovo.

– Sì, li ho amati tanto. Ma i cani sono come gli uomini, non sono liberi.

– Non ti ho portato via la mente, puoi ancora scegliere.

– Mente e anima non sono la stessa cosa?

– Hai intenzione di complicarti ancora la vita con queste minchiate da uomo?

– Dio ce ne scampi.

Mi sento sollevare, il bambino ha deciso che mi porterà via con sé. Ohibò, altro giro altro regalo, penso in quella testa pelosa che l’idiota mi ha confezionato su misura. Però il sole che se ne è andato ha lasciato un’aria troppo fresca e il corpo del bambino è caldo. Adesso mi mette giù, devo essere troppo pesante per lui. Non sdraiato, non in braccio, per la prima volta mi rendo conto del nuovo me stesso. Su misura, l’idiota non ha confezionato niente su misura, ho il corpo di un quasi pastore tedesco su delle zampe da bassotto, e pure storte. Penso di insultarla ancora una volta, ma quella mi precede (e che scoperta, si riesce mai a nascondere qualcosa all’anima?):

– Cosa pensi di Brad Pitt?

– E che devo pensare? Prima ci ha sfracellato i maroni con Angelina Jolie e poi si sono mollati.

– Intendo dire, cosa pensi di lui come uomo. Lo trovi bello?

– Un bello senz’anima, e comunque io ero un uomo, non mi interessava un granché.

– Giusto, quasi lo dimenticavo. Allora, che ne pensavi di Jennifer Aniston?

– Che era più bella e più simpatica di Angelina Jolie.

– Ok, e ti faceva tenerezza?

– Be’, quando lui l’ha mollata sì.

– E dopo?

– E perché avrebbe dovuto farmi tenerezza?

– Ti faceva altro, giusto?

Sorrido con la mia bocca da cane: Sì, direi che mi faceva altro.

– Ed ecco quindi perché ti ho fatto deforme. I cani deformi fanno tenerezza.

– Ma vaff…

Il bambino ha una casa, dei genitori, dei nonni, degli zii, degli amichetti e tutti mi fanno festa. Da qualche giorno ripetono la parola biscotto. Pensavo fosse il loro cibo preferito o che fossi destinato per il resto della vita a mangiare macinatura di ossa di mucca a forma di biscotto, invece ho capito che mi vogliono chiamare così, Biscotto con la B maiuscola. Dio, c’è da dire che se mi avessero chiamato Axel o Zagor avrei avuto un’altra dignità, ma non ho più il problema del codice fiscale. Ho iniziato ad amare il bambino e tutto il suo giro di gente. Sono felice, ma non troppo. So come finiscono queste cose. La stessa casa, la stessa gente, le stesse passeggiate alle stesse ore. Forse non sentirò più due mani premermi dentro ma ci sarà qualcos’altro. Forse sbadigli di cane annoiato, di quelli che ti squarciano il muso quasi di un giro intero, tiri indietro le orecchie e butti fuori aria di carne in scatola per cani, poi appoggi il muso sulle zampe davanti e gli occhi diventano tristi e languidi. Agli umani piace, gli scatta quell’impulso di venire lì a stringerti tra le braccia, baciarti, quasi consolarti e così ti distolgono dalle tue meditazioni, o dal tuo pisolo. Ti verrebbe voglia di dargli un morso se non fosse che in questi casi può scapparci anche un pezzo di pollo o una bella fetta di crudo di Parma.

Ho visto una strada, va in discesa. La prendo, vado. In lontananza blu. Resto fermo a guardare, quando ero un uomo sapevo che i cani vedono i colori in maniera diversa e io non voglio restare deluso. L’uomo deve avere sempre tutto sotto controllo, così quando non sa le cose se le inventa. Io vedo blu. Il mare finalmente. Quella si fa risentire: Se quel giorno avessi deciso di andare al mare, forse ti avrei portato dentro un gabbiano.

Resto in silenzio un po’, poi le parlo, questa volta in tono affettuoso: Non importa. Eri con me su quella strada?

– Certo.

– Quella strada scende dalle montagne al mare e poi ritorna su, dal mare alle montagne, e in alcuni tratti sembra che l’uno si fonda con le altre. Nessun rombo assordante, nessuna puzza di auto, solo gente felice di essere in un mondo altro che cammina con me e mi sorride e mi accarezza. Non può esserci mai, mai noia in tutto questo, ché ogni giorno è diverso dall’altro.

Ho fatto il bagno, mi sono rotolato nella sabbia e poi sono tornato su. Ma non voglio tornare dal bambino, lo amo e non voglio odiarlo quando la consuetudine sembrerà volermi uccidere, ancora una volta, e so che succederà. Ho visto una porta in quel paese, è diversa dalle altre. Si apre e si chiude in continuazione, la gente va e viene e io ne posso approfittare. Entro. C’è un ragazzo che mi sorride, in un angolo un uomo che mi guarda strano. Il posto è pieno di odori: tabacco, profumi e carta, forse anche un po’ di caffè. Io faccio che mi piazzo, vediamo cosa dicono. Arrivano altre persone, ma da un’altra porta. Mi guardano con simpatia, anche l’uomo adesso mi sorride. Mi fermerò un po’, li amerò quanto amavo il bambino, quanto forse amerò altri. Li amerò tutti, sempre, ma li difenderò dalla mia anima, così inquieta, così temeraria, così piena di vita.