Un sito nuovo ma con una lunga storia alle spalle

Ho chiuso il mio sito Servizi per testi alcuni anni fa. L’intento era di riaprirlo da lì a non molto, ma l’intento a volte si avvia per strade più tortuose di quelle previste.
Tempo fa mi sono decisa a riprendere in mano la questione. Fin da subito ho visto che le cose si erano complicate, sebbene non fossero passati decenni, e più andavo avanti e più mi sembrava di addentrarmi in una foresta.

Qualche ostacolo è stato a livello personale, tipo il fatto che doversi arrangiare con altri software al posto di Photoshop era come guidare un Ape dopo aver avuto tra le mani una Ferrari.
Poi la via di mezzo tra il personale e il resto del mondo. Mi sono messa a guardare, attonita, il codice degli altri siti, che deve rispondere ormai a una quantità di regole, non può più essere solo crossbrowser ma anche crossdevice e cross-tutto. Pensando alle mie miserrime conoscenze di Html+Css per un po’ sono rimasta indecisa tra il ritrarmi definitivamente e l’avvalermi di quei programmi che fan tutto loro. Ma questi artifizi alla fine fanno siti che sono tutti uguali, e poi avrebbe voluto dire accantonare per sempre le mie conoscenze, pur se miserrime. Atto di caparbietà, arroganza o ottusità, mah, preferisco inquadrarlo come un montalbanesco amminchiarsi.
Però a un artifizio ho ceduto facendomi scrivere il codice iniziale dall’IA, che ovviamente ci ha messo circa tre secondi.

Raggiunto un livello più o meno esteticamente soddisfacente, vado per ricomprarmi il dominio www.servizipertesti.it. Scopro che non è più disponibile perché è stato acquistato in Spagna. Stupore. So che esiste la compravendita di domini ma io non sono mica come quello di Giorgio Armani, che diamine, e poi, cosa se ne fanno in Spagna di un nome in italiano?
Prendo male la cosa, la ritengo un furto a ciò che ho creato io, così male che mi metto in stand-by per un po’. Ne esco dicendomi: vabbe’, comprerò il .com e dirò addio all’.it. Torno sull’host (o come si chiama) e… oh, toh, .it è tornato disponibile. Grossa ilarità verso gli spagnoli: ah, avete fatto proprio un affarone, pensavate di vendere cerveza e paella coi testi.

Terminati i luoghi comuni, penso che siano finiti anche i problemi. Eh no, perché non avevo calcolato il passaggio da http a https e la maschera della cookie privacy. Per entrambe le cose avrei dovuto pagare ancora o, sempre a pagamento, ricorrere a WordPress o all’Intelligenza artificiale. Tristemente guardo lo pseudoslogan “fallo con l’IA” e penso agli anni di studi e di esperienza dei web designer resi quasi inutili. E ogni mancanza di questa o quella cosa è seguita da minacce che neanche il peggior delinquente subirebbe.

Considero la natura del mio sito: statico, senza form, senza soldi da far girare, senza profilazione e davvero penso che non sia il caso di pagare come altri siti che contemplano queste cose. Per tacer del fatto che l’https dovrebbe ormai essere dato per scontato da chi ti vende il dominio. E così inizia la ricerca del gratis, che avrei anche trovato se non fosse che non posso installare i file.

Questi mesi tra il fare e il riflettere mi hanno portato a ripensare all’internet degli esordi, a quel senso di libertà che lo connotava. Ci sentivamo un po’ come quei viaggiatori che esploravano strade nuove, ora è come percorrere vie piene di segnalazioni imposte da altri.

Comunque, al di là di ogni considerazione pratica e non, la creatura è (ri)nata:

http://www.servizipertesti.it/

Non sarà perfetto, magari un po’ bruttino o di sghimbescio ma l’ho fatto io. La foto nel sito è la manipolazione di quella qui in apertura che ho scattato anni fa fuori da una mostra su Banksy a Milano.

 

Crociera, una vacanza che vacanza non è

«Sono sempre stata come la pubblicità: io nel villaggio turistico mai. Io in crociera mai, e invece…». Così ho detto a chi mi chiedeva dove andavo in vacanza. Perché effettivamente quei condomini galleggianti li ho sempre guardati con sospetto. Il più delle volte è meglio dar retta alle proprie impressioni, però a volte si va anche un po’ così, trascinati dalle circostanze o forse più dall’idea di percorrere migliaia di chilometri con poco sforzo e, tutto sommato, a un costo inferiore rispetto al fai da te.

Ma la sensazione al ritorno è di non essere stato in vacanza, appunto, quando per vacanza si intende fare mare o visitare luoghi, o entrambe le cose, e, soprattutto, non avere tempi contingentati a livello esercito. Per non parlare della sveglia a volte a orari che nemmeno nei giorni di lavoro. Uno dei primi problemi della nave è proprio questo, che per la quantità di cose e persone a bordo da gestire deve per forza essere una sorta di macchina da guerra, o per usare un termine meno duro, una multinazionale, in cui non mancano nemmeno meeting per spiegarti come funzionano le cose, in primis che ti devi scaricare la loro app.

Le gite a terra sono un trascinamento a velocità agonistica per cui non è che vedi molto. L’unico vero bagno al mare sono riuscita a farlo ad Ibiza, scappando dalle loro grinfie. Ed è stato anche l’unico bagno tout court visto che la grande nave è dotata di tutto tranne che di piscine che si possano chiamare tali. A meno che non si voglia contare come bagno anche il goffo tentativo di far fronte ai sassi di Civitavecchia. E ricordo come una gran sensazione di libertà lo sganciarsi dalla guida alla fine del breve tour a Palermo.

Ovviamente non è tutto da scartare, anzi. Il mio amore per la Francia che si è rinnovato anche sotto la pioggia battente della Camargue, la sensazione strana di quella notte col mare in tempesta e il letto che alternava moto oscillatorio e sussultorio, rivedere Ibiza, Barcellona sempre particolare ma tanto affollata da capire perché ce l’hanno con i turisti, scoprire il fascino di Palermo.

A bordo della nave c’erano persone che avevano già fatto una, due crociere e gli uffici in cui potevi prenotarne un’altra. Insomma, come per tutte le cose, o ti piace quello stile lì oppure no. Se torni con la sensazione di essere stata in un enorme centro commerciale, è meglio non ripetere l’esperienza.

Savona e… il mostro è arrivato

Marsiglia. Parco naturale in Camargue e Saintes-Maries-de-la-Mer

La Barcellona di Gaudí. Casa Milȧ, La Pedrera, la salamandra al Parc Güell

Palermo. Su verso il santuario di Santa Rosalia, foto compulsive dal pullman ai fichi d’India. Giro in città, streetart a Ballarò

(People from) Ibiza. Visioni dalla nave. Il ponte: la quantità di persone e che fossero mangianti o meno era il segnale dell’apertura del buffet. Civitavecchia

A Satnam Singh (per quel che può valere)

La morte di Satnam Singh mi ha colpito profondamente. Non perché ci sia una scala di dolore o di indignazione ma perché è andata oltre la bruttura del morire per lavoro arrivando a toccare la mia quotidianità.
Vivono accanto a me, sì, accanto, perché non è una regione a chilometri di distanza a fare la differenza, ma accanto perché sono della mia specie, del mio Paese, persone in grado di restare tanto lucide in mezzo a grida e sangue da sapere “cosa fare”. Maneggiare un arto staccato come nel peggior film di serial killer, caricare e scaricare un corpo con una tale freddezza che è propria solo di chi coi corpi ci lavora, a fin di bene però. Queste persone non sono altrove, può essere chiunque ci passi vicino.
E poi ci sono loro, mute ma protagoniste di questo nero profondo, le verdure. Colorate, piene di questa o quella sostanza benefica, manipolate con noia o con grande destrezza, consumate nel privato o esposte in centinaia di video, raccolte una seconda volta da chi cerca qualcosa quando il mercato chiude. Satnam mi è venuto in mente mentre guardavo i banchi di frutta e verdura al supermercato. Mi sono chiesta se la mia mano inguantata a norma di legge stesse toccando il sudore, lo sfinimento, il sangue di qualcuno.
Ho pensato a questa società malata, ho messo insieme dei pezzi, con poca lucidità probabilmente, ché io non sono avvezza a maneggiare i corpi. Ci siamo noi che, sempre più impoveriti, cerchiamo gli sconti perché ci hanno costretto a pensare che anche un centesimo risparmiato può essere utile dopo, che non si sa mai, che il welfare se n’è andato a catafascio, e poi ci sono le facce invisibili costrette a lavorare a centesimi, e a morire per centesimi. Aziende che sembrano poter stare in piedi solo ammazzando gli altri.
E il progresso intanto corre inarrestabile, con le macchine coccolate, addestrate, manutenute con grande cura. Persone molto intelligenti che quasi con affetto spostano braccini di robot. E il braccio del bracciante si è staccato, e a cosa serve in fondo un bracciante senza braccio?
Pensavo che il progresso avrebbe riempito le zucche vuote e messe all’angolo quelle marce, che le coscienze e l’etica sarebbero cresciute al suo passo.
Le zucche le abbiamo, sicuro, quelle che stanno sul retro di un furgone insieme ai pezzi di un uomo.
Satnam Singh (spero che almeno del nome non ne sia stato fatto scempio) ha molti assassini, sicuramente due Paesi: il nostro, che sta tra i 7 grandi a farsi le foto da idioti in un villaggio finto costruito apposta solo per i vip, e il suo, che per celebrare i matrimoni affitta navi da crociera o interi nostri borghi a ostentare il più bieco capitalismo.
Poteva andar meglio a Satnam, tra la nostra India di Sandokan e la loro Italia da National Geographic, invece ha incontrato Hannibal Lecter.

Il cinemino di provincia

Villetta con ospiti riassume bene gli stereotipi in cui sembra essere precipitato il 90% del cinema italiano. Solitamente ridotto a Roma e Napoli, a loro volta ulteriormente ridotte ai soliti temi, quando si sposta più su riesce comunque a ingabbiarsi nuovamente. È già il terzo film che vedo in cui: il Nord si capisce che è Nord solo perché parlano da Nord, come a dire vabbe’, lo giro qui o là, tanto quelli sono tutti uguali. Cioè ricchi, razzisti, cafoni, tutti belli azzimati fuori, un disastro di depressione dentro, finché arriva, immancabile, il momento in cui esce tutta l’immoralità di famiglia tipicamente nordica, a cui non è neanche concessa la patina del simil-eroico con cui vengono dipinte le immoralità delle famiglie mafiose.
Ma, non contento del ritratto non inedito di questo Nord-da qualche parte là, deve trascinare negli stereotipi anche i bravi Marco Giallini, che in quanto romano deve per forza essere un cialtrone, e Massimiliano Gallo, che fa il poliziotto ma essendo napoletano ovviamente non è integerrimo. E non ci facciamo mancare neanche il prete: preso dai rimorsi di coscienza, certo, ma che alla fine cede ai bravi, cioè i ricchi e potenti, mi sembra di averlo già visto da qualche parte…

Ma davvero si può trovare una motivazione da cinema a un film così?

Security, questo non ha la regia italiana ma non basta a salvarlo. A nord di Roma, a sud del Nord, pare che si possa avere una collocazione precisa: Forte dei Marmi, ma d’inverno, quando le case sono quasi tutte vuote, le notti lunghe e la luce flebile, così non si rischia l’effetto cinepanettone. Marco D’Amore, svestito da Gomorra, sfoggia un accento che pare addirittura lombardo, e questa è la cosa più “gialla” che c’è in un film che dovrebbe essere un thriller, una roba che mette ansia, insomma. Il problema è che funziona meglio del Laila, che suppongo induca progressivamente uno stato di torpore finché cedi.

Ah, aspetta, quindi il giallo deve per forza avere i tempi sincopati degli americani? No, può avere i tempi di ragionamento di quelli inglesi. Eh, ma non ti adagiare però perché quelli ti infilano dentro il decimo personaggio quando meno te lo aspetti.

Dopo queste tristi avventure da divano, ieri il riscatto: mirabile finale del finale de Il giovane ispettore Morse, quelle cose che resti con la bocca aperta da quanto tutto sia incredibilmente cinema.

Però non è cinema, è una serie. E ti verrebbe voglia di prendere quelli che fanno grande schermo e sbattergli la testa contro il piccolo (no, mica come Arancia meccanica, una cosa più breve) e dirgli: guarda e impara.

E speriamo che torni il bel tempo su questo brutto e cattivo Nord sferzato dall’ira di Dio.

“Quarto potere”. Che il potere del cinema sia con te

Con un tempismo fuori tempo che non mi è nuovo, acquisto Quarto potere su Chili, sull’onda di quel sentimento che spesso mi prende: vorrei finalmente vedere un gran bel film, giusto poco prima di questi giorni in cui esce al cinema la versione restaurata. Ma non mi pento, è un film da vedere e rivedere.

Il “grande” film è quello che ti prende tanto da restarti addosso anche il giorno dopo, o dentro, che dir si voglia, forse fin giù nell’inconscio. Per avere questo effetto la regia è fondamentale, visto che le immagini passano prima dall’occhio. E in questo senso Quarto potere inizia subito rubandoti gli occhi, quasi incarnasse quella leggenda che narra di come gli specchi ti rubino l’anima. Bianco, nero, riflessi, volti in ombra, inquadrature dal basso, soffitti claustrofobici, all’inizio un frammento di omaggio all’espressionismo tedesco. Due ore in cui regia e fotografia arrivano al virtuosismo, ma non quello pedante, quello in cui il regista deve far sentire la sua presenza per dire “quanto sono bravo”.

Le inquadrature dal basso ricordano molto Hitchcock, o magari è stato viceversa, bisognerebbe riprendere i film girati da Hitchcock prima del 1941, data di uscita di Citizen Kane, considerando che il suo periodo “americano” incomincia nel 1940.

La storia inizia dalla fine e viene raccontata tra un alternarsi di presente e passato: chi ha conosciuto Charles Foster Kane narra ora del passato che ha condiviso con lui, ricomponendo così una sorta di puzzle (c’è chi nel film è intenta a farne uno, che è stato tradotto come rompicapo), avanti e indietro nel tempo i cui pezzi sono sì la realtà dei fatti, ma forse soprattutto il racconto di come ciascuno ha “vissuto” una personalità così forte.

Profondo il concetto che emerge in un dialogo tra Citizen Kane e un amico: i lavoratori non vogliono che sia tu a concedergli i diritti, li vogliono perché è sacrosanto averli. Come a dire: i diritti spettano di diritto, non può essere il potente di turno che magnanimamente li cala dall’alto perché altrimenti troverà sempre il modo di rinfacciarti quanto ha fatto per te.

(Io) confesso di aver per un attimo temuto che l’avessero rovinato con un doppiaggio recente, finché la voce di Emilio Cigoli e, più tardi, di Gualtiero De Angelis non sono arrivate a farmi tirare un sospiro di sollievo. Eppure qualcosa si sentiva… effettivamente è stato ridoppiato negli anni ’60, l’uscita in Italia è stata intorno al 1948. Di certo deve essere arrivato con dei notevoli tagli considerando le numerose parti rimaste in inglese.

Piccola curiosità: c’è un’irriconoscibile Agnes Moorehead, la mamma della strega in Vita da strega.

E in chiusura, con la stessa potenza del rullo dei tamburi prima dell’esibizione clou: Orson Welles in questo film è regista, interprete, co-produttore, co-sceneggiatore con Herman J. Mankiewicz. I suoi anni all’epoca? Ventisei, signore e signori, 26.