I luoghi, le persone

Alla mattina il buongiorno su una chat. Via via ci sentiamo quasi tutti fino a sera inoltrata. “Facciamo l’appello”, a volte penso. Qualcuno guarda vecchie foto. Le materializza sul mio telefono perché mi riguardano. Qualcuno pulisce i meandri materiali dei mobili o virtuali del pc. Escono cose e ricordi. Facciamo l’appello di noi stessi. I luoghi mai visti non sono più un sogno da realizzare, non sono neanche più la scelta o la forzata rinuncia a realizzare il sogno perché non dipende più da noi. I luoghi visti assumono diverse valenze, ma sono i luoghi più cari che irrompono quando meno te lo aspetti, con la luce che hanno sempre avuto ma con sopra la brutta ombra di quando potrai tornare a vederli. I luoghi più cari non sono i luoghi più belli. Il sacchetto ritrovato del Royal Mile di Edimburgo, la preoccupazione di Robbie delle Shetland, il tempo così meravigliosamente fermo di Procida riportano alla mente sensazioni visive ed emotive. Però ora sono ricollocati in un’altra dimensione. Posso anche accettare di tenerli al chiuso. Altri no. Perché sono loro che parlano. Posso anche riconoscere che sia una follia dovuta a questo altro mondo in cui siamo precipitati. O può essere che sia questo altro mondo che fa fare dei viaggi che neanche una pasticca di Lsd. Però quei posti lì parlano, perché si connettono con delle persone e quelle persone lì sono il mio branco. Abbiamo questa vita qui che ci costringe a volte a sopportare chi detestiamo cordialmente. Hanno un qualche difetto ma non è tanto questo, è la consapevolezza che quel difetto lì è quello che dice che non hai niente a che spartire con loro. Li detesto cordialmente come il leone detesta la iena che gli mangia la sua fatica. Specie diverse e inconciliabili. Altre invece sono il branco.

Trip

Quando sono stata a Ellis Island ho scoperto che sul sito puoi inserire il nome di qualche tuo parente e vedere se è mai arrivato. La cosa aveva intrigato me e mio cugino, che avevamo solo i pochi ricordi delle nostre madri. A distanza di quasi vent’anni mio cugino deve essersi fatto un viaggio nei meandri e mi manda questo.

I primi pensieri sono realisti: 19 anni, che coraggio. Partire da un luogo nel nulla, che d’inverno scompare nella nebbia e d’estate in un’umidità che ti spezza le gambe, doveva già essere un viaggio solo arrivare a Genova (come sarebbe adesso del resto, faresti prima ad arrivare a New York), chissà se è riuscito a sopravvivere, chissà se abbiamo dei parenti. Poi arriva il trip. Riprovo esattamente come fosse allora i primi momenti vissuti a Genova. Sulla terrazza dell’albergo, tetti, un pezzetto di mare dietro, la confusione sotto, odore di pesce, il cielo con delle nuvole che mi sembrava di non avere mai visto fino a quel momento. Genova ce l’avevo già dentro. Presi via Balbi e più camminavo e più mi sentivo felice. Non erano solo le cose che vedevo, era come se quel posto mi appartenesse, come se ci fossi già stata, ma in un altro modo perché niente mi ricordava qualcosa di già visto. Ora me ne sto lì con una gamba piegata sulla sedia della cucina, ad aspettare che l’acqua bolla e guardo questa foto. Del tutto immobile e privata anche di un viaggio di venti minuti, sto viaggiando in altro modo. Questo mio prozio, e non so nemmeno se sia il giusto nome per il legame di parentela, deve essere partito più o meno da dove ora c’è il Porto Antico. Avrà avuto paura? Sarà stato felice di andarsene dalla fame? Avrà sperato? Avrà provato un dolore immenso per la sua gente che non avrebbe più rivisto? Quale di questi sentimenti avrà prevalso? Avrà stretto le mani intorno a quella ringhiera sul mare provando questi sentimenti con un’intensità feroce e io, un pezzo del suo branco, dopo più di cent’anni ho stretto le mani intorno alla ringhiera raccogliendo quell’intensità. Sempre immobile nella mia cucina, la gamba piegata sulla sedia e gli occhi fissi sull’immagine dello smartphone, sono in un punto preciso del Porto Antico, con le mani strette intorno a un punto preciso della ringhiera, vedo tutti i particolari intorno. La ringhiera non è quella ringhiera, se mai all’epoca c’era, e quello che vedo intorno non è quello che ha visto lui. Non tutte le cose attraversano i secoli ma l’intensità di ciò che proviamo forse sì, forse resta sospesa e ricade un giorno su qualcuno del nostro branco. Mi sembra di aver trovato una spiegazione per quell’amore viscerale che provo per Genova, non è il posto migliore del mondo e non è quello da cui provengo e quindi una spiegazione deve esserci. Risalgo la realtà, “torno” in cucina e archivio la cosa. Fino a qualche giorno dopo, quando mi decido ad affrontare l’immensa fatica di pulire la libreria. Trovo un libro di poesie del 1950 di un tal Giovanni Bertacchi. Appartiene al mio altro 50 per cento di Dna, il libro, e un po’ anche l’oscuro poeta perché comasco. Lo apro a caso e si apre su Al sopito di Staglieno.

«Se vuoi capire l’anima che hai»

«È la mia gente» dico al telefono. Mi stupisco di avere usato queste parole. I miei parenti, i miei amici, ma la mia gente non l’ho mai detto. Loro stanno in mezzo all’angoscia e al dolore più di quanto senta di starci io o chiunque altro di Milano.
La mia gente, il mio branco, i miei luoghi.

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