I fiori vittime di Blanco o Blanco vittima dei tempi?

Blanco ha fatto un danno economico rilevante al palco di Sanremo, forse ha fatto anche un danno a se stesso. Ha fatto la figura del ragazzetto isterico, del mancato rocker, non essendo evidentemente né un rocker né all’altezza di coloro che hanno spaccato strumenti e quant’altro prima di lui. Ragazzetto carino e forse migliore di altri nel panorama della musica odierna ma privo delle capacità e del fascino che facevano parte dello spettacolo dello sfasciare.

Eppure non riesco a calare la mannaia del dissenso su di lui. Più che un bello e dannato ho visto un bimbetto perso nel panico, anzi, nell’horror vacui dovuto all’assenza di tecnologia. Vecchi e rodati cantanti come Morandi o Ranieri sarebbero andati avanti lo stesso, magari solo un breve cenno al tecnico dell’audio, perché nati come cantanti in un’epoca in cui potevi contare solo sulle tue capacità. Nessun computer ad agevolarti o correggerti le stonature, a distorcere la voce così che pure le stecche passano per arte.

Ma questo horror vacui non l’abbiamo già provato tutti quando il computer non funziona, la linea è assente, hai dimenticato lo smartphone a casa, oddio adesso come faccio a fare 200 metri senza, e se mi capita qualcosa e se qualcuno mi cerca? Immagino poi chi ha quella roba che accende e spegne le luci vagare per casa in cerca dell’interruttore quando quella si rompe perché non si ricordano neanche più come è fatta casa loro.

Insomma, per un attimo io ho visto in Blanco il nostro futuro di amebe incapaci di sopravvivere all’assenza di tecnologia e incapaci di gestirne l’assenza senza dare di matto. Altro che non saper accendere un fuoco (lo canta anche “il Boss”: you can’t start a fire without a spark), non riusciremo neanche a farci un panino.

Il piagnucolio dei falsi divi

Ho rivisto The Great Pretender, il documentario sulla vita di Freddie Mercury. Capire perché certe persone sembrano esseri superiori è impossibile. Non basta esseri bravi. Certe persone vanno oltre la bravura intesa come capacità artistica. Non mi produrrò in ciò che non conosco: non so cantare, non so suonare, non so ballare. Però sono cresciuta quando la musica ha iniziato a essere legata all’immagine. Non c’era più solo la canzone ma c’era anche il video. Quindi qualche diritto di conoscenza in questo senso me lo arrogo, non fosse altro perché il mio all’epoca giovane cervello si è sviluppato sul binomio musica-video.

Freddie Mercury era ridondante, esagerato, se lo poteva permettere. Ma in quegli anni tutto era esagerato e noi non avevamo nulla da obiettare: che tutti gli occhi fossero bistrati, che un uomo si vestisse da donna o viceversa, che ci fossero colori, lustrini, tutine accanto a vestimenti più sobri per noi era la norma. Pare strano, ma io ho la sensazione che fossimo più liberi noi da sovrastrutture mentali di quanto lo siano adesso nel mondo del politically correct. Le critiche dei critici c’erano, spesso feroci e fuori luogo, ma a noi non ce ne fregava niente. E neanche a Freddie Mercury a quanto pare visto i suoi tanti me ne frego, non si può piacere a tutti, io faccio quello che voglio. Perché era un divo. Il divo galleggia sulla folla, vicino ma senza mischiarsi, il divo fa quello che vuole e in questo modo apre la strada agli altri.

In questo mondo di oggi gli artisti piagnucolano ad ogni critica, pontificano, cercano consensi postando foto compulsivamente, se qualcuno non acconsente attacca la tiritera del body shaming o simili. Aizzano la cretineria delle persone e poi vanno avanti mesi ad ammorbare su quanto si siano offesi. Non galleggiano sulla folla, essa e loro si alimentano a vicenda delle medesime idiozie. In sintesi, non sono divi. Rimpiango i tempi del “me ne frego, io faccio quello che voglio”, che si riferisse a una scelta artistica, di immagine o di vita. Era la massima espressione di libertà: non pretendo di cambiare te, il tuo pensiero, sono io che me ne frego. I divi non si lagnano. Ma certo, neanche farfugliano lagne nel microfono.

Ballo di fine anno in Slovenia con quadriglia

La traduttrice slovena a cui correggo le bozze mi dice che è andata con sua figlia a scegliere il vestito per il ballo scolastico di chiusura delle superiori. Mi parte un entusiasmo quasi eccessivo, un buon segnale, restrizioni e scenari di guerra non mi hanno ancora spento del tutto. Ma davvero, rispondo, come si vede nei film americani?! Tralascio il fatto che tra le tante immagini di balli di fine anno americani prevale quella del film Carrie. Lo sguardo di Satana. Ma non è colpa mia, è colpa di Stephen King, accidenti a lui e alle sue idee perforanti. Mi racconta la storia della serata che si intreccia con quella dei cambiamenti scolastici degli ultimi quarant’anni, «poi c’è il ballo ufficiale, con tutti i maturandi che si esibiscono nella quadriglia (danza tipica di questa occasione), tango, foxtrot, blues ecc.».
«La Slovenia è entrata nei Guinness dei primati con la quadriglia ballata dal più grande numero dei partecipanti (i maturandi, appunto), all’aperto in diverse città della Slovenia contemporaneamente. Un anno gli si sono aggiunti anche partecipanti di altri stati». E mi manda il link del primato: Largest quadrille dance – multiple locations | Guinness World Records.

Storia di Melo, il “custode” del Dipartimento di Scienze umanistiche di Catania

Qualche giorno fa ricevo tramite Change.org l’invito a firmare la petizione “Un angolo per Melo”, promossa dal prof. Rosario Castelli del Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania. Il docente vorrebbe realizzare un ricordo “tangibile” del cane Melo, fedele frequentatore del Monastero dei Benedettini, sede del Dipartimento e patrimonio Unesco.
La storia di Melo è bella ma non unica, un cane che diventa la mascotte di un gruppo di umani, ma c’è una frase che mi colpisce: «…ma davvero aveva poco di animalesco quella creatura, o forse era un animale nel senso più nobile…».

Amando profondamente il lato più misterioso dei cani, le loro azioni spesso per noi inspiegabili, non ho potuto limitarmi a firmare la petizione. Ho voluto saperne di più. Sono riuscita a rintracciare Rosario Castelli, professore associato di Letteratura italiana al Dipartimento, che con grande cortesia e trasporto mi ha raccontato la storia di questo cane che, come mi ha informata e con sua stessa sorpresa, sta diventando famoso ben oltre i confini di Catania.

Melo arriva dal nulla quindici anni fa, un cucciolo che elegge come casa il cantiere per la ristrutturazione dell’edificio monastico, se ne prendono cura gli operai finché, una volta terminati i lavori, passa sotto la protezione di due sorelle che vivono nel quartiere Antico Corso, la zona centrale di Catania dove sorge il Monastero. Lo chiamano Carmelo, da cui Melo. Ma come succede spesso ai cani che non sono cresciuti in una casa vera, con un proprietario unico, Melo non riesce ad abbandonare il suo stato di randagio per diventare a tutti gli effetti un cane da appartamento. Le sorelle non cercano di reprimere il suo spirito libero a tutti i costi e così gli fanno una cuccia dentro una macchina dismessa: al riparo, al caldo, ma pur sempre vita di strada com’è nel carattere di Melo.

Che però non si dimentica del luogo da cui viene, e così eccolo partire alle 8 del mattino per andare all’ateneo e restarci fino all’orario di chiusura. Una specie di studente fuori corso perché ama troppo l’università per lasciarla. In questi anni Melo diventa il compagno di tutti, studenti, docenti, impiegati. Affettuoso e vanitoso («tutti gli facevano le foto e lui stava in posa»), portafortuna prima degli esami, presenza obbligatoria nelle foto del giorno di laurea. Insomma, Melo apparteneva all’intera università quanto essa apparteneva a lui.

Ed è qui, quando vite canine e umane si intrecciano indissolubilmente che entra il mistero. Non è quello di un semplice aneddoto, «un giorno si è messo in fila davanti a un ufficio insieme agli studenti», questo è qualcosa di spiegabile con il fatto che i cani amano talmente tanto gli uomini da condividere il loro quotidiano anche quando non ne avrebbero bisogno. Il mistero è quel qualcosa che ci comunicano e che per noi resta insondabile, per quanto i loro occhi cerchino di farci comprendere. Anche dopo millenni di convivenza loro ci sfuggono. E quindi non c’è niente di strano a immaginare un oltre dietro il muso. L’ha fatto l’ex preside prof. Giuseppe Giarrizzo quando ha ipotizzato che Melo, per la sua presenza e dedizione, fosse la reincarnazione di Santo Mazzarino, docente di Storia romana a cui è dedicata l’aula magna, l’avrà detto sorridendo ma l’ha detto. E lo stupore è tuttora vivo negli studenti che un giorno hanno visto un Melo diverso, che gli si è parato davanti abbaiando e bloccandoli all’uscita: Melo non li stava aggredendo, li ha salvati da un furgoncino che stava entrando a una velocità troppo elevata.
Melo se ne è andato qualche settimana fa. I suoi amici gli hanno pagato le cure ma purtroppo non si è potuto salvare.
Questo dolce “custode” dei benedettini riceverà una menzione speciale dal Premio internazionale fedeltà del cane di San Rocco di Camogli.

Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo avrà mille racconti da fare e mille immagini da mostrare. Melo è entrato nelle loro vite ed è per questo che in tanti stanno aderendo all’iniziativa del prof. Castelli di creare per lui un angolo all’interno del Dipartimento di Scienze umanistiche, «in cui la storia di quell’essere così amorevole possa ancora intrecciarsi con quella di chi transiterà». Per ora non si sa ancora se sarà una targa o una statua, come ce ne sono già tante nel mondo dedicate ai cani che hanno arricchito la vita di noi uomini, ma certamente la storia di Melo verrà narrata ancora per molto, molto tempo.