L’immunità (mentale) di gregge

«It is not a real place, just my imagination. It does look a little bit like the San Bernardino mountains near Big Bear». Tessa B. Dick

Il 21 marzo 2020 ho scritto questo messaggio: «Tra le varie conseguenze ce n’è una che mi è venuta in mente oggi. Questa roba piega la volontà come una dittatura, non so quando riusciremo a tornare a dire dei no». Le conversazioni serali e quasi notturne, a volte quando WhatsApp ti segna che la cosa appena scritta già risale a ieri, fanno parte dei generi di conforto. Serate che chiudono giornate cariche di pensieri e di dolore altrui che riporta alla memoria il dolore personale. Serate di scarsa concentrazione: è come cercare di chiudere un armadio troppo pieno, le ante si riaprono in continuazione. I messaggi sono brevi, difficilmente dicono tutto ciò che si voleva dire.
La paura immobilizza, porta l’essere umano a fare gregge, per creare un muro di difesa, in apparenza, in realtà crea una dimensione compatta che si sposta simultaneamente per sfuggire al pericolo. Il movimento di ciascuno è identico a quello di tutti gli altri e il terrore cancella la possibilità di pensare a una direzione diversa e la volontà di opporsi. Forse ero lì che guardavo un film ma l’armadio si è riaperto. Quando usciremo da tutto questo (se usciremo da tutto questo), chi mai di noi avrà il coraggio di dire no anche quando verrà a mancare il terrore esterno, il dover agire secondo dettami per la propria e altrui sicurezza? Potranno dirci che è necessario lavorare dieci ore al giorno, pagare il doppio delle tasse, adeguarci senza se e senza ma a qualunque cosa per rimediare ai danni fatti da questo mortifero essere invisibile. Saremo reduci da lunghi giorni di pensiero rattrappito quanto le nostre gambe senza più spostamento e il solo uscire a riveder le stelle – e ancora di più il sole – ci sembrerà una fortuna talmente grande da valere qualsiasi sì.
Potevano essere le inutili elucubrazioni da divano, il misero corrispettivo delle notti insonni e sudate delle descrizioni degli incubi letterari, ma non è proprio così. Ora si parla di droni, di tracciamento, si apre (o riapre) il dibattito solito su quale sia il confine tra l’inviolabilità della libertà individuale e la ragion di Stato.

Ora però io voglio perdermi in quelle che ho chiamato finestre sul mondo, le immagini degli altri reclusi. Anche questi sono per me generi di conforto. Mi fanno ricordare che c’è ancora un mondo là fuori. Di finestra in finestra, dall’America a Perugia a Milano, Tessa B. Dick.
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Quando il sole brillava invano*

La mia pianta che sembra grassa ma che forse non è tanto grassa perché resiste anche d’inverno ha messo i fiori gialli. È un poco sofferente perché cresciuta a dismisura. Dovrei togliere delle rose, se trovassi qualcuno a cui darle. Che si fa, si butta nell’umido chi ti è stato fedele per tanti anni? Penso che la primavera continua imperterrita.
Guardo Un posto al sole e a un tratto mi rendo conto che è come se il tempo si fosse spaccato in due, non un’epoca di decenni o un’era di mille anni, nemmeno un mese ed è cambiata la percezione di tutta una vita. Gli attori si abbracciano e si baciano in un saluto di gruppo e a me sale l’angoscia: ma cosa fanno? Dall’angoscia al pensiero razionale: ah, già, lo registrano in largo anticipo. Dal pensiero razionale a una specie di malinconia: com’era bello abbracciare le persone.
I telegiornali parlano solo del virus. È come se gli omicidi, le violenze, i furti, tutto l’apparato solito di reati non esistesse più. Continueranno ad esistere, è impossibile il contrario, ma non in questo mondo. Avverto un senso di perdita anche in questo, non nei delitti, per carità, ma in un’informazione che è ormai a telecamera fissa. Deve esserci una parte del cervello deputata alla gigioneria terapeutica che corre in aiuto del resto, essa mi fa presente: però non ci sono più neanche quelli del Folletto porta-a-porta che da anni insistono nel volerti vendere un gigantesco aspirapolvere e se per caso ce l’hai già ti vogliono vendere il modello più evoluto.
Esco a fare un giretto, le piante sono tutte in fiore, compresi i fiori di Giuda, quelli propri del periodo di Pasqua. Non penso più al fine termine “imperterrita”, mi viene proprio: se ne fotte. La natura continua il suo corso mentre noi siamo immobilizzati dalla malattia e dal terrore, fermi anche nelle cose a latere: a cascata tutto è stato preso dentro nel mulinello. Ma lei sembra addirittura più rigogliosa del solito. Non è che se ne fotte solo, forse si sta proprio scrollando di dosso un po’ di fuffa. Infatti il punto non è salvare l’ambiente ma noi stessi, perché quello va avanti lo stesso.
L’unico mondo rimasto intatto è questo degli spazi aperti. Non la nostra casa che da rifugio è diventata prigione, non le persone che da simili sono diventate il nemico, non i luoghi o le abitudini quotidiane che da soliti sono diventati un potenziale pericolo. Nemmeno un mese e i nostri occhi non vedono più come prima e le nostre mani sono solo pezzi di carne da lavare in continuazione.
Quel che resta fisso è il piacere di leggere sempre e ancora ciòche gli amici hanno da dirti.

Da Dario

«Allego quindi foto scaramantica di un quadro alla pinacoteca di Capodimonte, la fine della peste del 1656. Pare che tutta la colpa fosse di un angelo, toccherà di nuovo convincerlo a rinfoderare la spada. (La scena deriva dall’angelo di Castel Sant’Angelo, che a sua volta deriva da un episodio del re Davide).

Proprio stamattina, proseguendo nella lettura delle Metamorfosi di Ovidio, ho trovato una descrizione del personaggio Filottète che sembra un ritratto dell’italiano contemporaneo: “reso furioso dall’ira e dalla malattia”».

*Edward Thomas, The New House

Dietro la cortina

Questa mattina tiro su la tapparella e resto lì a guardare, è l’immagine di questi giorni, penso, due persone che si parlano così lontane. L’unico animo tranquillo, c’è da scommetterci, è quello del cane. Faccio la foto, la guardo e mi accorgo di non aver tirato su la zanzariera. Non rifaccio la foto, faccio parte dello scatto, io qui dietro una cortina faccio parte dell’immagine.
Il giorno passa via. Non capisco più se è rassegnazione o la sensazione che, dopo tutto, si sta bene al sicuro, e la casa è un posto sicuro. Il giorno passa via, tra video e immagini, il mio telefono non ha mai bippato tanto come in questo periodo, cantate dai balconi, polvere da togliere dai mobili, esperimenti di pane fatto in casa. Riesco anche ad arrabbiarmi per il video di un demente che racconta che X gli ha detto che Y eccetera e quindi cosa c’è dietro tutto questo, perché si chiudono le attività? I giornalisti raccontano quello che vogliono. Certo caro, dietro ci sono gli alieni, Cia, Fbi, Kgb, Mossad, ora torna pure nel tuo letto in psichiatria. Il giorno passa via, e tanto il tempo è brutto. Poi capita di non dormire, mi alzo e sento un’ambulanza che fende la notte. E allora non passa via niente.

Sabi mi manda le poesie.
E almeno per una volta inciampare in una pietra, bagnarsi in qualche pioggia, perdere le chiavi tra l’erba; e seguire con gli occhi una scintilla nel vento; e persistere nel non sapere qualcosa d’importante. (W. Szymborska)

I limiti della satira? Quelli geografici

Eravamo tutti Charlie. Poi Charlie Hebdo ha fatto una vignetta su Amatrice. E siamo diventati un po’ meno Charlie. Quello che è successo alla redazione è stato terribile, la vignetta su Amatrice di cattivo gusto, sebbene avesse in sé una parte di vero. Gli aggettivi si potrebbero sprecare, ma non è questo il punto.

Ricevo ora da Change.org una petizione: Si chiede con questa petizione, le dimissioni dei vertici della emittente francese, nonché un risarcimento legale commisurato al danno d’immagine subito dalla nazione italiana e dalla categoria dei pizzaioli, la cui arte protetta dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità nel dicembre 2017 e stata meschinamente e scorrettamente rappresentata.

L’emittente è Canal+. Ora, che potessero evitare un video così stupido e disgustoso è fuori discussione. Ma, ancora una volta, non è questo il punto. Il punto è: la satira deve avere dei limiti? E quali sono questi limiti? In questo caso, sembrerebbero solo geografici. Finché te la prendi con gli altri va bene, ma non toccare il mio Stato, il mio Paese, la mia nazione.

Pur pensando che siano un branco di idioti e neanche capaci a far ridere, se era questo il loro intento, non firmerò questa petizione. Se la satira deve avere dei limiti, allora sediamoci intorno a un tavolo mondiale e decidiamo insieme quali devono essere.

Personalmente, l’unico limite che porrei è quello di non fomentare odio. Soprattutto nei momenti peggiori. Ma alla fine, la maggior parte delle persone sono sempre più intelligenti di quattro scalcagnati dalle idee confuse: i francesi non odiano gli italiani, gli italiani non odiano i francesi e la pizza continuerà a restare una delle migliori invenzioni dell’uomo.

Breve report dal fronte

Mi trovo a vagare in una Milano di febbraio dall’aspetto agostano. Quasi in un batter di ciglia sembriamo passati dalle ridondanze di Fabrizio Corona alla sobrietà del Coronavirus. Raccolgo testimonianze di scaffali vuoti nei paesi limitrofi a Milano. Bollettini continui dello sviluppo della situazione. Le conversazioni ormai sono queste. Mi sento allora di dover dare il mio modesto contributo. Ieri entro in un Conad, più che altro per vedere come stanno le cose. Il comparto della carne piange miseria. Pochi e sparsi vassoi lasciati in disordine. Una signora si lamenta dell’assenza totale di candeggina e simili. Un poco preoccupata che il panico si diffonda ulteriormente, oggi faccio tappa alla Coop. Trovo una vicina e mi fermo a parlare, inevitabilmente «di questo coso cinese», ella definisce. Mi avvicino un po’, giusto per non sbraitare, ma noto che lei si allontana, Mantiene le manovre di allontanamento finché non ha capito che ho capito l’antifona. Ritta sulla mia porzione di terreno a circa un metro di distanza, non oso più muovermi. Non starnutisco e non tossisco, ma la prudenza non è mai troppa. Mi elenca tutti i supermercati e le farmacie in cui ha cercato l’Amuchina senza trovarla, neanche quella grossa che si usa in casa.
Al supermercato. Frutta e verdura sembrano essere sotto controllo. Tutti gli occhi vagano su ogni singolo scaffale, meditando cosa può essere conveniente avere in casa in questi tempi duri. La carne di manzo è finita, il pollo rimasto in pochi esemplari, perlopiù quelli più costosi. Uova esaurite. Vedo la situazione latte: esaurito il parzialmente scremato, in pochi pezzi quello scremato e intero. Come a dire: quello scremato non sa proprio di niente e anche se dobbiamo morire lo faremo da magri e con un livello di colesterolo accettabile. Ne compro un litro anche se non ne ho bisogno. Di quello intero, perché quello scremato non sa proprio di niente e se dovrò morire morirò grassa. Il resto dei prodotti alimentari non sono stati saccheggiati, dai biscotti ai formaggi ai salumi ogni cosa è al suo posto e in numero soddisfacente.
Alla cassa dietro di me due signori si lamentano di non trovare l’Amuchina. Nella tasca ne ho mezzo flaconcino riesumato dal cassetto, probabilmente nemmeno più tanto efficace, con italica furbizia penso di poterlo vendere al mercato nero. A casa ne ho un altro mezzo. Potrei pagarmi la spesa.

In questa mestizia, raggi di sole sono i miei amici lontani, campani e genovesi, e queste ironiche “vignette” che iniziano a girare.

Dall’untore lombardo per ora è tutto.