Vicenza, diamanti e dintorni

Scelta solo per il lago di Fimon, tra i Colli Berici, Vicenza in realtà è una città molto bella e non solo per le architetture del Palladio.

Le Gallerie d’Italia non si pongono il problema della commistione: si va dalle icone

alle ceramiche greche

fino alla mostra su Christoph Niemann, per me una scoperta sorprendente.

Imperdibili i suoi appunti a schizzi di un lungo viaggio in aereo. Data la diversità delle opere, all’uscita viene da fare una classifica di preferenze: vince la sede stessa del museo, Palazzo Leoni Montanari.

La domanda che si fa spesso per gioco: ma se tu avessi i soldi, cosa faresti? Nella mia classifica i gioielli non sono pervenuti. Però al Museo del gioiello ci sono opere d’arte orafa incredibilmente belle; e davanti alle targhette che riportano il numero di pietre preziose utilizzate, si entra meglio nel senso della canzone di Marilyn Monroe: Diamonds are a Girl’s Best Friend.

Questo in basso è un bracciale di Gabriele D’Annunzio. Se è stato un regalo reso tramite lancio da qualcuna delle sue innumerevoli donne non è dato saperlo.

Accanto al museo, un’altra preziosa rarità.

Sono giorni di passione per il troppo caldo che rende impossibile godere della circumnavigazione pedonale del lago di Fimon,

che spinge alla ricerca di ombra, a scappare, inutilmente, in luoghi a maggiore altitudine. Come Schio, graziosa ed elegante, che diede i natali alla famiglia di Antonio Fogazzaro.

O a Recoaro Terme. Di quest’ultima non ho foto perché i segni dei suoi tempi illustri, ormai passati, mi hanno immalinconito. La bellezza dei palazzi e dei grandi alberghi ormai decadenti raccontano di quando era una zona termale, persa anch’essa come tante altre città di terme.

È un’estate difficile questa, rigagnoli, sassi o sabbia dove una volta correvano fiumi e torrenti lasciano una sensazione di perdita che va oltre il materiale. È come se incombesse il pensiero “non viaggio per vedere ma viaggio prima che sia troppo tardi per vedere”.

Cavallino-Treporti e i colori della Laguna veneta

Sono state le immagini delle case colorate dell’isola di Burano a chiamarmi in questi posti. E visto che da Cavallino-Treporti partono i traghetti per le isole, quale occasione migliore per unire mare e navigazione. Cavallino-Treporti è una lingua di terra nella Laguna veneta nord, un paese sparso in lunghezza tra laguna e mare. Ho guardato questi paesaggi dell’una e dell’altra parte cercando un aggettivo che potesse esprimere il loro strano fascino fatto di paludi, di intermittenza continua tra acqua e terreno, di vita visibile e invisibile, di tronconi di vecchi edifici e borghi abbandonati.

Lio Piccolo

E poi sabbia, tantissima sabbia, a dune con poca vegetazione e a spiaggia.
È un paese anche di forti, il più interessante è Forte Amalfi.

Alla fine mi è venuto desolato, sapendo che il senso negativo di questa parola non andava bene, nemmeno a scomodare T.S. Eliot e la sua Terra desolata. Desolato veniva da me non più abituata a enormi spazi vuoti e a luoghi di mare con poca vita. Ma il conflitto tra ciò che vedevo e questa malinconica parola si è spento nella vivace Jesolo, fatta con tutti i crismi delle città di mare: negozi, alberghi, file di ombrelloni. Bella, ma ho preferito la pacatezza di Cavallino-Treporti. Pacatezza, non desolazione. Non è un paese per chi ama la confusione, la comodità albergo-spiaggia, la vita notturna. È il luogo ideale per ciclisti, birdwatchers e campeggiatori. Due sono le cose che mi hanno colpito e che trovo doveroso riportare: la pulizia, rifiuti quasi zero, e il silenzio di questi 15 km di spiaggia, dove nessuno urla e soprattutto nessuno ti affligge con pessima musica a tutto volume.

Vero è che ci saranno almeno due chilometri tra l’ingresso in spiaggia e un punto nel mare in cui non si tocca e in questo percorso sotto il sole un po’ mi sono mancate le striminzite spiaggette liguri e la terra che ti manca sotto i piedi dopo mezzo metro che sei entrato in acqua, ma solo in questo.
Grande accoglienza per i cani che hanno un tratto di spiaggia e mare a loro riservato e una canna per essere risciacquati.

Da Punta Sabbioni partono i traghetti per tutte le isole e per Venezia. Per costi e comodità convengono le gite organizzate a Murano (con dimostrazione di un mastro vetraio), Burano e Torcello ma i tempi su ciascuna di esse sono troppo brevi perché le si possa visitare con calma. Murano è un tripudio di vetri, Burano di colori. Stando alla guida, Torcello non tripudia perché i residenti sono solo nove, ma vista la discreta quantità di attività i conti tornano in altro modo. Di certo è molto diversa dalle altre e la sua bellezza, oltre che in questa differenza, sta nella basilica di Santa Maria Assunta.

Burano

Il “campanile storto” per il cedimento del terreno

Murano

Torcello

Venezia è Venezia, d’accordo, la città più amata nel mondo, ma a distanza di più di trent’anni dalla prima volta, di nuovo non mi ha parlato. Certamente sarà per via della folla, delle strade intasate, dei ponti quasi impraticabili per foto e selfie. Il campanile di San Marco è comunque un colpo d’occhio pazzesco.

Un barista si lamenta della trasformazione da festa privata dei veneziani a festa ad uso turistico, con tanto di prenotazione posti e chiusura bar, della Festa del Redentore, ringraziamento per aver salvato due volte Venezia dalla peste. Ci godiamo lo spettacolo pirotecnico da Cavallino. Dieci, quindici minuti di fuochi d’artificio… «e questo deve essere il finale», frase ripetuta più volte intercalata da «però adesso può anche bastare». Amici veneziani, tre quarti d’ora di fuochi ci sono sembrati eccessivi.

Il Lido di Venezia è fastoso nei suoi palazzi, nei baldacchini sulle spiagge (mai visti prima, per stare in spiaggia proprio comodi e riparati), nei sogni del cinema.

Almeno finché non ti viene in mente Morte a Venezia, libro e film, finché non ti trovi davanti proprio all’Hotel des Bains, set del film, ormai chiuso da chissà quanto tempo.

O finché per raggiungere un faro

non ti trovi sotto un sole rovente su una stradetta senza ombra, chiusa da una parte da vegetazione più o meno selvaggia e accanto a un mare beffardo a cui non puoi accedere. Alla fine una spiaggia c’è, piena di conchiglie taglienti e di latinoamericano a volume eccessivo. Il percorso in autobus fino al faro è però servito a vedere quasi interamente il Lido.

Se in uno di questo spostamenti marittimi (invero assai costosi)

vedete qualcuno che cammina in mezzo alla laguna, non pensate a un’allucinazione dovuta al caldo: evidentemente i veneziani sanno quando e dove camminare sull’acqua.

Un’ultima mattinata di quasi alba alla ricerca dei fenicotteri schivi, che però si negano in un eccesso di asocialità, e poi si punta verso Vicenza. Ma questo nella prossima puntata.

Il ponte di Sant’Ambrogio tra scoperte e riscoperte

Parco industria Alfa Romeo Portello

Sembrerebbe che quest’anno sia stato segnato dalle panchine. Un po’ in panchina mi sono sentita a dir la verità, ma ora parlo di panchine vere. Dopo aver rincorso senza successo le Big Bench di Chris Bangle nel Monferrato, scopro per caso che a Milano c’è la panchina più lunga del mondo (stando alle fonti, 208 metri). Trovarla richiede un viaggio certamente meno avventuroso di quello delle colline, solo un minimo di orientamento e la dovuta attenzione a non farsi travolgere dalla mandria di cavalli vapore che corrono in viale Renato Serra. Ma se in piazzale Lotto, ultimo punto di quiete prima delle strade ad alto scorrimento, c’è la mia adorata Lady Oscar, posso andare tranquilla.

Entro nel parco da un accesso laterale e il groviglio di pre-tangenziali svanisce alle mie spalle davanti all’incanto di un vialetto con roseti, che termina sotto un arco di mattoni al di là del quale si gioca al più pacifico dei giochi: le bocce.
L’impressione è quella di trovarsi nell’occhio del ciclone, l’unico punto di calma al centro della furia.

Si sale a spirale in questo parco e non lascia indifferenti la vista sulle nuove architetture.

E sempre la mia totale ammirazione per gli street artists.

Vedo entrare e uscire piccioni dalle finestre, segno di assoluto abbandono. Un pensiero: va bene costruire il nuovo ma perché lasciare andare un palazzo così bello?


Lecco

Non si può stare troppo tempo senza il blu e se non è blu di mare, che di lago sia.

Il sole, il tramonto, la sera, i palazzi che si illuminano di immagini in movimento e statiche.

Vigevano

Il freddo è proprio brutto, la sera si torna pesti di gelo e stanchezza ma domani nevicherà, dicono. E infatti oggi nevica. Ma ieri c’era il sole e mai come in questo periodo si sente che “ogni lasciata è persa”. E poi c’è quella cosa lì, che in un posto ci sei già stato più volte ma poi scopri che ti era sfuggito qualcosa, come il fatto che in una casa del centro storico è nata Eleonora Duse.

Letture di accompagnamento

Come ricordano le targhe con citazioni che formano un percorso, di Vigevano era Lucio Mastronardi (Il calzolaio di Vigevano, solo per citarne uno).
La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio per ritrovare (forse) in Ermione Eleonora Duse.

Alessandro Manzoni indossa sempre la maglia numero 10, soprattutto a Lecco, quindi per una volta sta in panchina.

Di Renato Serra c’è un pezzo che mi accompagna da quasi tutta la vita, così disperatamente lucido:

Che cos’è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera, lucida, nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa? Penso a quello che va sciupato, a ogni minuto, intanto che io parlo, intanto che io penso, intanto che scrivo, sangue e dolore e travaglio di uomini presi in questo gorgo vasto della guerra. Che cosa diventano i risultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennità, i patti, e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, davanti a ciò? Non c’è bene che paghi la lacrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizie, e il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. (Esame di coscienza di un letterato)

Un’estate di acque

Acqui Terme, un mezzo buco nell’acqua

C’è una parola che potrei aggiungere a questo tempo di pestilenza. Mi viene in mente così, in mezzo a luoghi che non mi arrivano veramente: ripiego. Riempiamo i vuoti lasciati dalle cose che avremmo fatto e che non possiamo fare con dei ripieghi. È come quando entri in un negozio con la voglia di qualcosa e quello ti dice: non ce l’ho, però ho questa. E va be’, vada per quella. Ti mangi quella roba lì che è un surrogato di quella là e fai finta che vada bene così. Ma quella là non è che se ne va e ti lascia in pace col tuo surrogato, ogni tanto ritorna a importunarti con immagini.
Acqui Terme era un posto che prima o poi sarei andata a vedere, ma per un weekend, non per una vacanza. Né mare né montagna, le sue colline solo una terra di mezzo senza il fascino dei due estremi. Anche beffarde, ricoperte così di vigne, sormontate dagli arroganti palazzi delle più famose case di vini, a circondare me che non bevo vino. Acqui Terme che di giorno rivela i segni mesti di un passato illustre, alberghi, terme che erano e non sono più; una piscina bellissima ridotta ad acquitrino. Speculazioni, mosse finanziarie andate storte. Ma di sera si accende di persone e la gran quantità di giovani salta all’occhio. Salta all’occhio anche un’altra cosa a dir la verità: la stravaganza dei commercianti con i loro orari di apertura strampalati che o ne prendi nota o vai alla cieca, con una certa malagrazia nei modi che è raro trovare nei posti turistici. Non bevi vino e non fai le terme, che sei andata a fare ad Acqui Terme? È stato un ripiego.
Però non è giusto parlare male di un posto per una mia sbadataggine. Perché il bello c’è sempre ovunque.

Per chi non beve vino c’è l’acqua. Dall’Acquedotto romano

 

alla Bollente, il cuore di Acqui, da cui l’acqua esce a circa 70 gradi e che di sera si illumina di rosso,

all’Acqua marcia.

Una signora mi dice che si può bere. Solo un piccolo sorso e mi sembra di aver bevuto un bicchierone di quattro parti di sale e una di acqua a cui si aggiunge un odore di uovo andato a male. Non a tutti piace, dice la signora divertita, però tanti la usano per gli occhi, io per mettere a mollo i piedi. A me l’hai fatta usare come acqua, grazie tante.

Il Museo archeologico

Il nome romano di Acqui Terme era Aquae Statiellae. I musei archeologici di solito li visitano le persone serie. Un’altra caratteristica di quelli minori è che spesso sono semivuoti. La seconda caratteristica mi ha preservato dal diffondere a una grande quantità di gente che la prima affermazione non è sempre vera, così saranno in pochi a raccontare che c’era una deficiente che rideva davanti alle didascalie. Gli abitanti della zona erano gli statielli e io ho detto come era possibile che dei nordici avessero un nome palesamente napoletano. Eh, infatti, sembra napoletano. Non ti richiamano i friarielli, scusa? La cultura non è contagiosa quanto la risata, lo impariamo in prima elementare. Ora che però ci penso, gli acquesi (o come si chiamano gli statielli di oggi) si salutano con: com’è? che usano anche ad Avellino, o forse anche a Napoli, non so. Può essere che piemontesi e campani se la siano vista già prima dei tempi noti.

Le insegne di Nizza Monferrato, che meraviglia

Asti

Il Duomo

Canelli

Acquasanta (Genova)

Di solito le stazioni dei treni stanno giù, ad Acquasanta hanno deciso di metterla su. E quindi prendo la strada che va giù, tra tornanti e boschi. E ritrovo un po’ me stessa. Tranne che nel pensiero improvviso di quanto i cinghiali si siano moltiplicati e questo sembra proprio un posto dove i cinghiali potrebbero trovarsi bene. Me stessa non ha voglia di trovarsi a guardare in faccia un suino selvatico. C’è il santuario, ci sono le terme, c’è una meravigliosa vasca idromassaggio esterna che guardo con invidia, non c’è niente da mangiare se non un panino alle terme, che riesco a ottenere solo dopo aver circumnavigato l’edificio, provato la febbre e conquistato un braccialetto-diavoleria che segna i soldi della consumazione. Per tornare alla stazione c’è un pullmino che porta su, che Dio lo benedica.

Genova, anche come ripiego non delude mai

Chiamarla ripiego è un’eresia ma tant’è. L’esosità dei liguri quest’anno è riuscita ad arrivare a un livello ancora più alto. E quindi, cari i miei liguri di Chiavari, Sestri Levante eccetera, andatavene a quel paese, quest’anno avrete un milanese in meno da spennare, quest’anno mi impunto, quest’anno avete a che fare con una più miscia di voi.

Arenzano, Parco Villa Sauli Pallavicino

Vesima

Non tutti i treni fermano a Vesima, che fa sempre parte di Genova. Una volta arrivati si capisce perché. Un paio di bar, un edificio che non si comprende cos’è, il resto spiaggia. Il motivo per cui non mi chiedo che cosa ci faccio io qui?: ci sono venuta per quella. Ma è inevitabile chiedersi che cosa ci fanno loro qui,

mucche al pascolo in mezzo a delle macerie che sovrastano la ferrovia. Tutti gli occhi si spostano dal tabellone degli orari a loro e restano lì, magari con un po’ di ansia che ruzzolino giù. All’homo sapiens sapiens basta poco per inchiodarsi su qualcosa che ormai non capisce più.

Sampierdarena

Il ponente di Genova è la Cenerentola della città, con buona pace di chi ci abita che è palesemente la parte che tira la carretta. Ma io avevo visto che c’era del bello tra un cantiere e l’altro e comunque è irritante che il turista vada sempre verso le stesse cose. E infatti, Sampierdarena ha dei bellissimi palazzi e, quasi nascosto, il parco di Villa Scassi.

Sant’Agostino

Il logorroico portiere di notte dell’albergo mi dice che nella chiesa di Sant’Agostino (ex, in realtà) ci sono due Rubens poco pubblicizzati. E allora si va, con la metro scendo alla fermata Sant’Agostino senza neanche sapere dove sbucherò. Il davanti ok, ho capito all’incirca dove sono, ma è quando mi volto che mi sale un’imprecazione: maledette stradine in salita intervallate da scalinate di cui non si vede la fine. Meno male che domani torno a Milano, il massimo dello sforzo lo scalino del marciapiede. Mi inerpico come un caprone male in arnese. Ma ecco alla fine ergersi il colore.

Non è Sant’Agostino ma San Salvatore, ma in quello stato di fatica ogni santo è luce. E la luce dei colori dei cibi stretti nei carruggi esplodono nella mia anima di caprone. Ma dove sei stato fino adesso, quartiere Sant’Agostino o come ti chiami?

 

L’ex chiesa è chiusa da un’impalcatura, pazienza. Mi addentro, passando da un moto di indignazione,

discesa fino a Porta Soprana

e poi ancora giù finché non intuisco il retro di Palazzo Ducale. Ah, ecco, ma tu guarda che oca, sempre a voltare dalla stessa parte e non provare con l’altra.

Genova 2 – Staglieno

Il Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova è un po’ l’omologo del Cimitero Monumentale di Milano: un museo a cielo aperto. Converrebbe quindi andare preparati, oppure affidarsi direttamente a una visita guidata. O ancora, e perlomeno, studiarsi la piantina all’ingresso. Ma questo non è un blog di approfondimento culturale, lo chiamerei emozionale. Non c’è flusso di dati e date ma di pensieri. E di informazioni di servizio magari. Il cimitero si raggiunge con vari autobus, io ho preso il 34 da Brignole, che una volta lasciate le zone più note mi ha immerso in una Genova sconosciuta. Salendo, ma dolcemente, non come quando mi sono ritrovata avvinghiata al sedile di fronte perché a mia insaputa aveva attaccato ad arrampicarsi per strade impervie e strette su fino a Sant’Ilario, sferzando bouganville che altere resistevano però agli attacchi e affiancandosi con precisione da geometra a macchine in sosta e viaggianti. Non sempre la precisione è proprio al millimetro, e infatti frequentando Genova ho esercitato l’occhio del turista-non turista: 1) non ricordo di aver mai visto un carrozziere: rimettere a nuovo la vernice di un’auto qui sarebbe del tutto inutile. 2) Se gli autobus sono quelli piccoli, sicuro che vi portano in qualche stradina da far drizzare i capelli. Comunque, il 34 è uno di quelli piccoli ma i miei capelli restano al loro posto sotto il cappello. Staglieno è sulle alture interne, al centro della città un po’ verso Levante. Il mare non si vede, sostituito da montagne non tante alte che hanno ancora spazi liberi. Scendo dal lato opposto al cimitero, la strada fiancheggia un grande letto di fiume. Resto a guardarlo, chiedendomi se quell’innocuo e grazioso rivoletto è uno di quelli che ormai ogni anno si gonfia all’inverosimile e furiosamente si trascina dietro ogni cosa. È lui, il Bisagno. Come a dire: da qui, potrei scaraventarti direttamente in quello che c’è dietro alle tue spalle.

Staglieno è enorme, fatto di lunghi porticati da cui talvolta partono scale in discesa, distribuiti sui piani di altura. Al centro altre tombe, senza monumenti o con quelli meno preziosi. Non ho ancora capito se la scultura è una delle espressioni che amo di più, ho l’impressione che sia così. Ne sono affascinata come di fronte a un mistero, come se della pittura fosse più facile capire che è stato possibile farla, con un talento fuori dal comune, certo, ma è qualcosa che nasce su materiali lisci, piatti, cancellabili, dove nessun errore è irrimediabile. Ma da una pietra che non si spezza o si sbriciola proprio quando non deve, come fa una scalpellata a toglierne occhi, mani, corpi? Me lo stava spiegando una volta uno che se ne intendeva, ma volutamente non l’ho ascoltato più di tanto. Non voglio più riprovare quel dolore di perdita incolmabile che ho sentito quando ho scoperto che il Gesù Bambino dei doni non esisteva.

I soggetti dolenti, senza consolazione, le Maddalene, la bimba mi commuove,

il dolore di un gesto ancora di protezione per un corpo che non ne ha più bisogno,

la Madonna che regge il corpo di un soldato appare speranza per una morte senza senso,

i drappeggi in scultura potrebbero inchiodarmi per ore,

la signora che non ha nulla né di dolente né di senza vita, direi piuttosto alquanto conturbante, mi fa sorridere.

Il soggetto delle porte che ricorre, le porte del Paradiso?

Non solo immagini sacre, molti hanno quella di loro stessi a far da guardia su se stessi. Che siano stati loro a volerlo? Che sia stato chi è rimasto a volere che le sembianze restassero per sempre?

O la ragione della loro vita.

Sembra un crescendo,

ed ecco che lo faccio, prima le sfioro e basta e poi le tocco, quasi le abbraccio, tanto non è un museo e nessuno mi abbaierà di tenere giù le mani. Fare le foto è difficilissimo: il sole filtra tra le colonne creando lampi di luce e ombre fitte.
Avevo visto un piccolo cartello indicatore: Tomba di Mazzini. Torno a cercarlo ma il cartello non è seguito da altri. Provo a chiedere alle poche persone che ci sono, qualcuno mi dice “su dove ci sono i protestanti”. Da che cosa li distinguo i protestanti, di grazia? vorrei domandare. In sostanza, pare che della tomba di Mazzini ai locali non importi molto. Ma mi sento in colpa, questo non è un museo, loro vengono per i loro cari, perché dovrebbero sapere dov’è Mazzini?
Nella ricerca del Mazzini, non posso evitare di fare ciò da cui mi ero trattenuta fino a quel momento: “rubare” una foto della foto. Io amo le vecchie foto, mi piace guardare i vestiti, le pettinature. Fare una foto era un avvenimento raro e da onorare con tutti i crismi. Sempre ben pettinati e coi vestiti della festa. E nemmeno ridevano. Oddio, c’è da dire che se avessero sorriso per tutto il tempo che ci voleva a fare una foto all’epoca gli sarebbe venuto un crampo. Però la fotografia doveva dare di te un’immagine di eleganza e compostezza perché era una delle tre o quattro che facevi in tutta la tua vita.

Ora ne abbiamo tre o quattro per ogni cinque minuti della nostra vita. Probabilmente delle migliaia fatte ne resteranno qualche decina, tanto si cancellano, si perdono nei meandri dei dispositivi. La compostezza se ne è andata a grandi passi, va alla grande quella con la lingua fuori, un esercito di foto tutte uguali di disgustose lingue. Mi fanno schifo le lingue e detesto l’omologazione delle immagini. In qualunque città vadano, quella resta sul fondo, davanti ci sono sempre e solo loro, in un gesto di vittoria o di sbracamento, anche se dietro hanno dei capolavori. Ma non sto giudicando, perché il digitale ha dato la stura alla mia compulsività fotografica. Eccomi lì, a meditare sulla rarità di queste foto con la macchina fotografica che mi penzola dal polso e il cellulare in mano. E non solo perché negli ultimi viaggi mi ha abbandonato ora una ora l’altro gettandomi nell’horror vacui. Ho bisogno di immagini, ho bisogno che i colori siano proprio quelli lì e scelgo il dispositivo che di volta in volta li cattura meglio, ho bisogno che le cose più belle siano salvate in due luoghi separati. Ho paura di non ricordarmi e con le foto a costo zero, il cervello può permettersi di andare in vacanza.
Genova esige sempre un tributo di fatica, glielo pago ancora una volta inerpicandomi su un sentiero che si fa via via più stretto fino a inoltrarsi tra le rocce. Sopra le rocce, lapidi. La bislacca che c’è in me non può fare a meno di farsi sentire: ma mica avranno tolto le rocce, sepolto e poi rimesse al loro posto? Ma saranno solo lapidi commemorative, no? Né la bislacca né l’altra giungono a risposte certe e questo signore sembra unirsi alla meditazione.

Finalmente, annunciata e circondata da targhe,

arriva la tomba di Giuseppe Mazzini, inaccessibile all’interno.

Tutto intorno altre targhe.

Sempre ridondante, eh? avevo prima apostrofato D’Annunzio. In realtà le ridondanze commemorative, questo linguaggio “da targa” mi sono sempre piaciuti. Ovvio, usarlo ora sarebbe fuori luogo, ma questo continuo scarnificare il linguaggio per renderlo più immediato non ci ha portato poi molto.
Ridiscendo. Il cimitero prosegue alla mia sinistra

ma un gruppo di persone mi dice che lì non si tratta più di pietre ma di un dolore qui e ora che pietrifica. Così vado dalla parte opposta.
Gli evangelisti c’erano tutte e quattro ma gli altri tre erano imprendibili.

Mi avvio alla seconda meta, una chiesa con presepe. La strada mi serve per provare a capire questo pezzo di Genova. Dovrebbe essere periferia ma a Genova questa parola non ha lo stesso significato delle altre città. Allora anche Boccadasse è periferia, se intendiamo una zona lontana dal centro. No, le visioni qui vengono ribaltate. Parti dal centro storico, che è l’apoteosi dell’iper: iperfrequentato, iperattivo, ipermultietnico, iperturistico, sali verso piazza De Ferrari, imbocchi via XX Settembre (che i genovesi chiamano via Venti o addirittura «sono in Venti», punto), la via più “in” perché i vari e variopinti negozi del centro qui lasciano il posto a quelli di medio e alto lusso. E infatti è la via che mi è sempre interessata meno, marcata dal franchising pertanto uguale in tutte le città. Arrivi a Brignole, fai senza immergerti nella fauna della stazione, anche quella è uguale dappertutto, e prendi la via del Levante. I bei palazzi tipici precedono la sontuosità di quelli di Albaro, e poi corso Italia e Boccadasse e l’antifona l’hai già capita: la Genova ricca sta a Levante. Che ogni città sia divisa a zone è assodato ma qui la distinzione assume un aspetto più crudele. Perché a Genova c’è il mare. E il mare bello, trasparente e pulito è a Levante. Il mare oleoso di petrolio sta a Ponente, dove ci sono i cantieri, dove la Superba se n’è andata. Resiste fino a Sampierdarena e poi li molla, i meno abbienti, togliendogli anche il mare. Riprende la sua allure solo a Pegli, il mare pulito no, solo l’allure, ormai lanciata verso il resto della Liguria.
E allora, che Genova è questa che non è né Levante né Ponente e nemmeno centro? Le case dal bel rosso ci sono, un po’ sbiadito, ma segnala che il quartiere è vecchio. Dopo poco non mi interessa più il giochino della collocazione in classi: mi piace anche questa Genova qua e comunque devo correre dietro al cartello della chiesa, che sparisce, le strade si biforcano, salgono, scendono ma il cartello resta in esemplare unico. Altro tributo di fatica in altura. Guardo in su le case più nuove. Hanno i balconi che danno nel vuoto, e non ci sarebbe niente di strano, è la struttura portante che non riesco a vedere dove poggia. Ho lasciato da pochi metri un segno di frana, sotto ho sentito gorgogliare acqua, e se quel gorgoglio si trasformasse improvvisamente in rombo, dove sta la struttura portante di questa casa? Capite adesso perché mi sono presa la briga di dividere Genova in classi sociali? Perché essere ricco a Genova potrebbe anche fare la differenza tra la vita e la morte, tra il mantenere la casa integra e vedersela spazzare via da un’ondata di fango. Alla sera ne parlerò con l’autoctona Giovanna, che aggiungerà un ulteriore elemento d’angoscia, perché quello non l’avevo considerato: «Io penso anche se dovesse venire un terremoto». Ce ne resteremo in silenzio qualche secondo.