Libri cash & carry

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Vi è questo tendone di libri, in corso Italia a Genova. Il proprietario è un signore barbuto, dall’aria estremamente tranquilla, di uno che non si sbatte più di tanto, si potrebbe dire un poco burinamente. Arrivano, lui e il suo cane, nel tardo pomeriggio. Quanto tardo non saprei: ci sono momenti in cui l’orologio non esiste. Lui apre il tendone, il cane passeggia, come se dovesse espletare i bisogni primari prima di attaccare il turno. E poi stanno lì, a tirare notte. L’umano a leggere e a dar retta a qualcuno, il cane a far compagnia: al padrone, ai visitatori, a tutti i passanti che si fanno prendere dall’impulso di omaggiarlo. Anche il cane è estremamente pacifico, a dispetto della stazza. E anche lui si prende le sue pause.

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Io la prima sera l’ho ignorato, questo spazio pieno di libri. Io so. Se si tratta di libri scatta lo shopping compulsivo. Ma poi vedo il carrello del supermercato, e un’offerta da supermercato: 4 libri + maglietta 5 euro.

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Libri gialli. Libri datati, il prezzo di copertina riporta L. 1.500. Caccio dentro una mano, non tanto convinta a dir la verità. Certo che però una t-shirt di cotone fa sempre comodo. Vero cotone 100%. Le dimensioni ridotte dei libretti sono ideali per chi ha in programma di farsi un mese di treno avanti e indietro, il genere va bene per chi non ha troppa voglia di immergersi in letture complesse. E poi, se proprio faranno schifo li butterò nel bidone bianco, la maglietta invece la uso per andare a letto, ché questo luglio balzano non promette niente di buono. Ne scelgo 4 in base alla “ponderata” decisione del titolo che mi attrae di più. D’altra parte, non c’è un altro criterio di scelta: la casa editrice è sconosciuta, il Torchio Edizioni, gli autori sono sconosciuti e sapere dalla quarta di copertina che una sta a Como e l’altro a Milano non influisce sulla mia attività di discernimento. Apro il primo e dopo due pagine sto già imprecando con le case editrici di braccino corto: niente correttori di bozze e il testo sarebbe una battaglia navale di segni rossi. Sono di parte, ma solo in parte. Anche in quanto lettrice la battaglia navale mi infastidisce. La storia è un po’ tirata per le orecchie ma abbastanza intrigante e scivola via, supera il sasso aguzzo della pseudospiaggia piantato nel fianco e anche gli urlanti paranoici da cellulare (io esisto finché parlo al telefono, se cesso di rompere le scatole agli altri c’è il rischio che il vortice nero della quarta dimensione mi risucchi, e nessuno che senta la mia mancanza). Il sole ritorna e dalle 13 alle 16 è quel fenomeno funesto presagio di bolle e di altre varianti dermatologiche. Così si sta in terrazza riparati da un ombrellone della svedese Ikea ma “made in China” (be’, di ombrelloni se ne intendono più i cinesi degli svedesi) che ripara anche dall’imbarazzante vista della russa che prende il sole en plein peau (calcolo che almeno la dirimpettaia “Casa protetta Ave Maria” non sembra essere sulla traiettoria di visuale dell’ex iu-es-es-ar discinta) e attacco il secondo libretto. Se ne va via anche meglio del primo e decido che la mia prossima puntata al cash & carry avrà almeno tre titoli di questo autore: adesso ho un criterio di scelta. Torno al tendone e ricaccio la mano dentro il carrello, questa volta un po’ più in fondo perché l’offerta combinata sembra aver fatto presa. Tre li scelgo, il quarto lo estraggo a caso dal basso, come faceva una volta il bambino bendato del Lotto. Ma caso vuole che anche il quarto sia dello stesso autore.

Mi viene in mente uno scambio di opinioni che ebbi qualche tempo fa con l’amico Sabato. Non abbiamo sempre le stesse idee in fatto di scrittura; dato il contesto, poteva essere un bagno di sangue e invece nemmeno una goccia passò tra i nostri computer. Estraggo dal carteggio parte di quanto gli scrissi:

La Letteratura (L) sta fuori da questi discorsi. Per leggere Letteratura ci sono 100 e un motivi: sognare, imparare, formarsi, provare emozioni, scoprire i pensieri per cui uno non trova le parole, e tutto il mondo che vuoi metterci dentro, insomma. Ma questa è la Letteratura.

Poi ci sono le persone come noi, che fanno esercizi di scrittura più o meno riusciti. Quindi bisogna trovare dei motivi per cui uno dovrebbe leggere queste cose. Fargli passare il tempo di un viaggio, accompagnarlo a dormire, farlo un po’ sorridere o un po’ piangere. Bisogna restituirgli qualcosa per i soldi che ha speso. La Letteratura non si misura a soldi, gli esercizi di scrittura sì (…) per far passare il tempo a queste persone, dovremmo dargli una storia.

È così. Insomma, a volte ti capitano questi libri sconosciuti. Non hanno preteso di passare sotto la voce Letteratura coloro che li hanno scritti né lo pretendi tu che te li ritrovi sulla strada ma è bello che ci siano.

L’autore che ho eletto a mio preferito è Fabrizio Canciani. Avrei voluto agganciarlo, portarlo in questo blog… non mi risponderà neanche… o forse sì. Purtroppo, mentre do gli ultimi colpi di tastiera a questo post scopro che Fabrizio Canciani non c’è più. Scriveva libri, canzoni, testi teatrali.
Potrebbe diventare retorico aggiungere altro, ma è motivo in più per quanto avevo già pensato: dedicare questo pezzo al work alcoholic che mi sono ritrovata a fianco in treno. Lampadato, manager, iperconnesso, parlante per sigle. Pensavo che la categoria si fosse un poco ridimensionata dopo la triste vista degli scatoloni Lehman Brothers ma mi sbagliavo. Ti ringrazio per il tono sommesso delle tue lunghe telefonate, un po’ meno per avermi fatto alzare tre volte per permetterti di andare avanti e indietro col coso appiccicato all’orecchio senza aver mai fatto uso delle sigle “scusi”, “grazie” (anche un “togliti dai…” sarebbe stato preferibile all’assoluta indifferenza per il mondo reale circostante). Conto i suoi aggeggi tecnologici: un cellulare, uno smartphone, un invidiabile Apple ultrasottile bianco. Finisce la telefonata e si immerge negli ultimi due che usa in contemporanea. Mi chiedo quanto tempo è passato dall’ultima volta che ha guardato fuori dal finestrino, letto un libro, mangiato uno di quei panini stile Montedison delle stazioni. Torno al mio aggeggio ipotecnologico: un libretto giallo di circa 80 pagine pescato in un carrello riadattato per l’uopo da un omone barbuto e dal suo cane che sembrava quello di Heidi e Peter. Viaggiamo affiancati sullo stesso treno ma su due binari diversi. Ma è giusto così, ognuno fa del proprio tempo ciò che preferisce e fa girare l’economia come può o vuole.

Genova, una città che non ti basta mai

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Io amo Genova. Perché i luoghi del mondo non sono solo posti geografici, non sono solo qualcosa di esteriore. Arrivi in un posto e capisci già che c’è qualcosa che va oltre quello che vedi, ma quell’oltre lì potrebbe essere solo tuo, non è detto che gli altri lo percepiscano. E quindi non mi stupisco della gente che mi guarda “con quella faccia un po’ così” mentre racconto che Genova ha qualcosa di speciale. Genova non è il mare delle ore al sole sulla spiaggia, non è la Milano da shopping, non è la Firenze dell’arte, non è la passeggiata in collina. Genova se l’hai vista solo in foto è quell’accatastamento di case che invade lo spazio dall’alto in basso, è quel porto da dove partono i traghetti per altri luoghi o da dove salpano quei palazzoni orizzontali chiamate navi da crociera. O è il porto commerciale pieno di container China Shipping Line, che uno si chiede se contengano i pomodori che poi ti spacceranno per pachino (pachino, pechino, questione di una lettera) oppure quei giocattoli con le pile liquefatte in un’inquietante sostanza chimica, o magari entrambe le cose, con le pile che sgocciolano sopra i pomodorini a ciliegina. E altre navi e altri container, e ti viene in mente di aver letto di Stella Maris, l’associazione che assiste chi non può scendere dalle navi ma neanche se ne può andare. Perché c’è anche questo nei porti: fantasmi vivi che nessuno vede. E costruzioni, credo ex magazzini. Ho cacciato il naso dentro a una cancellata che chiudeva vecchi spazi pieni di legno vecchio, ferraglie, pezzi che una volta componevano cose. Mi è arrivata una zaffata da svenire, ma questo non lo racconto perché so che la faccia passerebbe da un po’ così a un po’ cosà, come se gli si formasse in testa la nuvoletta con scritto: e tu spendi anche soldi per partire da una città che puzza di smog per andare in un’altra che puzza di mare marcio? Se dici che è un puzzo che sa di storia e storie che non conosci non ti capiscono lo stesso. A Genova puoi trovarti sopra il battello, avere le navi davanti e un aereo che ti passa sulla testa a volo radente. Praticamente in un colpo solo le cose che amo di più: aerei e navi, mezzi che portano lontano. Ma uno non va al mare per vedere dal basso fiancate di navi e aerei che cercano la pista. Be’, però Genova è una città, ma continuano a guardarti un po’ così. Genova è una città piena d’arte, palazzi bellissimi, ville, musei, chiese. Perché tutti vanno in gita scolastica solo a Firenze e a Roma? Ti guardano come se stessi dicendo un’eresia. Allora fai la vocetta un po’ giuliva: i caruggi sono veramente troppo carini, pieni di negozi, stretti stretti, intricati… e ti interrompono: sei andata in via del Campo? Sì, ci sono arrivata per caso, ma non gli dici che certe canzoni di De André hanno delle argomentazioni che proprio non ti piacciono perché se no si innesca la polemica.

A Genova c’è un atmosfera così particolare, cerchi di spiegarlo con qualche pensiero banale ma tanto la faccia un po’ così non cambia espressione. Al massimo qualcuno si illumina per l’acquario. Ma a me l’acquario è l’unica cosa che ha fatto schifo: non è vero che gli animali lì ci stanno bene, perché mai un delfino dovrebbe stare bene dentro a una vasca? Perché una murena dovrebbe essere felice dentro a un cilindro di vetro? Ed è anche un posto claustrofobico. E io neanche ci volevo andare all’acquario.

E allora parli di mare, di quel giorno che a Nervi infuriava e sembrava di camminare sotto un vaporizzatore perché goccioline leggere ti arrivavano in faccia. Una moltitudine di persone riprendeva lo spettacolo, e c’ero anch’io: volevo portarmi a casa quelle onde che sbattevano contro gli scogli, minuti e minuti di riprese, angolazioni diverse, perché ogni onda faceva i suoi personali disegni di schiuma e ognuna aveva la sua altezza e la sua potenza. Bisognava fissarne il più possibile perché la natura non fa le cose in serie come noi. Sì, va be’, scogli e onde, e uno il bagno dove lo fa? Si riparte con la vocetta giuliva: Boccadasse è bellissima, deve essere lì dove Gino Paoli ha scritto La gatta. E basta, tanto chi ha visto Genova solo in foto non è che può entusiasmarsi al resto che hai in mente. Io andavo a sbattermi lì al pomeriggio, stremata dai chilometri macinati di mattina nell’ansia di ingurgitarmi tutto: pezzi di passato ma anche viste dell’alto, ma anche strane ascensori verticali che sono mezzi di trasporto. Però a Boccadasse non ci si sbatte giù a peso morto, si sceglie con cura un posto dove i sassi sembrano più piccoli. Non che metterci cura serva a molto, troverai sempre l’infida pietra appuntita che ti si pianta dove c’è meno carne. Ma i sassi caldi sulle dita artritiche di umidità padana ripagano dei bozzi ghiaiosi che ti restano tatuati ovunque. Il mare è un insieme di sassi piatti scivolosi intervallati da schegge di scogli appuntiti che intercettano immancabilmente ginocchia e stinchi e che si interrompono improvvisamente per farti cadere in una specie di baratro d’acqua. Ti chiedi se il tuo fisico da cittadino bolso ce la farà a superare l’emozione di sentirsi sfuggire la terra sotto i piedi o se farai la figura dei soliti scemi che passano dalla scrivania al restare abbarbicati a qualche roccia, di mare o montagna non ha importanza. Il colore blu non si può spiegare. Il mare forse sì, ma l’effetto che fa il suo blu no. È una cosa che quando torni ti rende insopportabile il grigio e il marrone, un’insofferenza che perfino il verde non riesce a mitigare. Io me ne stavo lì a guardare il blu finché il grosso della gente non se ne andava e arrivavano i gabbiani. Alla sera c’era il Porto Antico e la Festa democratica: band, balli, bancarelle. Come passare una serata low cost o addirittura gratis. Mentre scendo soddisfatta come Montalbano per il carico di vongole che Walter, nonostante abbia torto il naso al mio assoluto divieto di aglio, mi ha servito, vedo campeggiare in piazza l’enorme scritta “Cucina romagnola”. Sì, va be’, dovunque ci si trovi la cucina della festa dell’Unità, poi dei Ds, poi quel che è, è appannaggio degli emiliani-romagnoli. Che a Milano ci andrebbe di lusso, ché a noi ci tocca la cucina etnica, pure originale ma vuoi mettere un piatto di lasagne? Ma lì, mah… lì suona strano. Mi fermo davanti a un piccolo gazebo. Niente sedie, nessuno dei signori che mi propone di prendere una delle poche vacanti all’interno, se non altro visto che ero l’unica a manifestare l’intenzione di restare fino alla fine. Bianco e nero, voce narrante dei cinegiornali (Guido Notari, forse sì forse no), acciaio, colate incandescenti, uomini che lavorano, esaltazione di macchine, primi piani su pistoni e lastrone che arrivano dall’alto. La regia, la fotografia, tutto ha la cura di un film. Ma è un documentario girato nei cantieri Ansaldo. Sembra incredibile che un’azienda decida di realizzare un vero e proprio film. Non uno spot più o meno azzeccato, non una presentazione in PowerPoint, ma un film. Le mie gambe triturate di chilometri si fanno sentire ma quello è il genere di pellicola che mi inchioda. Mentre sono lì, so già che li cercherò su YouTube. Credo che siano dei documenti di importanza storica e cinematografica e mi piace quindi ora segnalarne almeno uno, prodotto dalla Ferroni Cortometraggi con la regia di Aldo de Sanctis e Giampiero Pucci: Ansaldo. I parte di De Sanctis – Pucci (1949).I filmati appartengono alla Fondazione Ansaldo e si trovano sul canale GenoaMunicipality.

Il mio chilo interiore al netto dei gusci inizia a lasciare degli spazi a metà serata. Lasagne no, ma i bomboloni romagnoli spandono nell’aria il loro richiamo di frittone dolce e crema gialla. Resto basita di delusione: l’apoteosi di grassa bontà è immangiabile. Non può esserci un’altra spiegazione: la maledizione di un indignato dio ligure si è abbattuta su quell’ostentazione di Romagna nel cuore del  Porto Antico.
Mentre torno penso a quello che ho fatto e a quello che voglio fare ma cammino anche piano perché voglio guardare il mare. Corri per vedere più cose possibili e ti fermi per guardare il più a lungo possibile. Genova è questo: l’affanno di riempirsi di tutte le cose che offre, un’ingordigia che ti piglia quasi volessi portargliele via, di fare come i criceti che si infilano di tutto nelle tasche delle guance e se ne vanno via con una faccia grossa da far paura.

E porti a casa oggetti da Genova: vestiti, funghi secchi, collane. Perché se gliele fai vedere la gente smette di guardarti un po’ così, mentre tu hai capito cos’era il timore che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più.