Tessuto sociale e bottoni

Un paio d’anni fa mi trovai per caso davanti a un negozio di cappelli. Purtroppo insieme a cappelli, foulard e guanti c’era anche un cartello che segnalava l’imminente, definitiva chiusura del negozio. Intravidi i due proprietari, persone anziane, forse due istituzioni della via, dall’aspetto arreso che era quasi un tutt’uno con il loro negozio. Chiudere un negozio è un po’ chiudere un occhio, non sarà un caso se il termine immobiliare per vetrina è luce.

Non ero ancora capitolata al commercio on line, ero ancora disposta a camminare e camminare, a toccare e parlare e chiedere. Però mi stava prendendo una certa stanchezza: quella di dover camminare troppo e spesso a vuoto, di capire che un essere umano spesso non faceva la differenza con il computer. Avevo collezionato qualche fallimento. Dalla rottura quasi immediata di un lettore mp3, mai restituito dal centro assistenza, alla ricerca infruttuosa di un tv di dati pollici, a risposte al limite del ridicolo come «io sono addetto alle aspirapolveri e non ai phon, vedo cosa posso fare». Ma sono state due le cose che mi hanno fatto alzare le braccia, se non armare la mano, di mouse si intende: in un negozio il tv tanto cercato costava più del doppio che on line senza nemmeno il beneficio della consegna a casa, e la risposta in un’enorme e famosa catena di computer ed elettrodomestici: (la stampante) la cerchi su internet. Ma allora ve la andate a cercare, ma allora è inutile che vi lagnate prima dei negozi dei cinesi e adesso di Amazon. Non ero più disposta a scusare commessi stanchi, mal pagati, con contratti di un mese e proprietari con affitti esorbitanti. Però quando si tratta di persone, lavoro e anima di una città bisogna fare qualche passo indietro per avere una visione di insieme. Ma la prospettiva è desolante, fatta di una serie di mancanze da parte di tutti e lasciate andare così, come insistere nel mettere un paio di pantaloni con l’elastico liso e sapere che prima o poi cederanno. Questa pandemia ha fatto cedere tutti i tessuti che erano già logori. Quello del commercio uno dei tanti. Mi dispiace vedere al tg la chiusura di una drogheria che fa parte del circuito delle Botteghe storiche di Milano. Arredi vecchi, sapone al chilo, altre cose sfuse. Il negozio di quartiere, dice la signora, ha anche una valenza sociale. Poi si passa al secondo negozio in chiusura, e la metafora del tessuto diventa reale. È una merceria, anch’essa storica. Pur non avendo hobby di cucito o ricamo, le mercerie hanno sempre esercitato su di me un grande fascino. Cassetti di legno e scatole che sembrano contenere ciò che non riuscirai mai a trovare altrove. Una frase del proprietario dà la stura al pensiero: «È chiaro che se spendi 50 euro per un vestito non verrai mai da me a comprare bottoni da 50 euro». Mi parte un sorrisetto ironico: «E che sono fatti di oro, ma per piacere!». C’è un’unica cosa positiva in questa situazione, che il tempo in più non passato a vivere può essere usato a pensare. E penso. Cinquanta euro per dei bottoni sono un botto – e la gente non si fa più i vestiti da sé – e i sarti sono pochi – perché se uno ha i soldi si compra un abito firmato e se non li ha non si compra né quello firmato né quello del sarto – che però a ben guardare fatto su misura ti cade bene e ti nasconde i difetti. Però… 50 euro se i bottoni sono veramente belli non è una cifra impossibile, ma il punto è: chi al giorno d’oggi, pur avendoli, spenderebbe 50 euro per dei bottoni? Li mette vicino agli altri e si compra uno smartphone più bello, o un abbonamento a Sky o il Dolby Surround o un weekend o eccetera eccetera. Insomma, in questo caso il problema non è il commercio on line che uccide i negozi, è che sono cambiati i gusti e le esigenze, quindi il negoziante dovrebbe vendere anche on line e pensare a sostituire i bottoni con altro che possa piacere al pubblico, che notoriamente ormai cambia gusti ogni sei mesi circa. A volte ho l’impressione che siamo tutti dei criceti e che il mondo sia un’enorme ruota. Che fare? Non lo so, ma intanto penso.

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