I limiti della scrittura

Mentre inizio a scrivere questo post mi viene in mente quella bellissima frase che usa spesso Federica Sciarelli in Chi l’ha visto? «Non ha accortezza di sé». Che è un eufemismo per dire che il poveretto o la poveretta si sono persi perché non riescono a trovarsi nemmeno più le stringhe delle scarpe. O anche: «Probabilmente vaga in stato confusionale». Con tutto il rispetto dovuto a queste tragedie, ecco, anch’io in quanto scrivana di post in questi mesi ho spesso avvertito di vagare in senso confusionale, condizione che però mi ha portato a una solida accortezza di me: e mo’, che scrivo? La consapevolezza che se non vado in giro e non vengo in contatto con la variopinta fauna umana non mi vengono idee. Cioè, non è che sto passando questi mesi nel nulla dell’azione e del pensiero, è che sono azioni e pensieri che non generano scrittura. Però non ho gettato la spugna, perché qui la situazione «è pesa e nera». Non contenta di essere italiana, ho voluto strafare: sono lombarda. Di più: ho radici solo lombarde. E la seconda casa che hanno tutti i bauscia milanes, mica ce l’ho in Liguria, ma sempre in Lombardia e nemmeno sul lago di Garda o di Como. E parliamoci chiaro, chi ha il coraggio di affrontare gli sguardi terrorizzati del resto d’Italia? Ci parlerebbe solo un manzoniano fra Cristoforo, negli alberghi probabilmente ci hanno già riservato il piano solaio o cantina con la scritta: Attenzione, rischio contagio. Sulle spiagge i bagnini diranno: i marcioni mettili lì insieme dietro al plexiglas e in montagna devono aver già istruito anche le mucche al pascolo, se arriva uno che parla come Pozzetto non farti accarezzare. Insomma, qui di viaggi non se ne parla. Mi sono anche comprata la mascherina a becco stile «medico della peste del ’500» (grazie a Dario per aver dato la definizione giusta all’idea che non riuscivo a focalizzare) per affrontare il periglioso trasporto pubblico locale ma per ora l’Atm non l’ho ancora usata.
Allora sempre in questo percorso di accortezza di sé, mi sono detta: se non riesco a scrivere, proviamo a spiegare perché NON riesco a scrivere. Ovvero, perché avrei potuto scrivere ma non sono riuscita a scrivere o, per meglio dire, non l’ho fatto… sono tornata a vagare in stato confusionale, niente, come è ormai vezzo dei blogger quelli veri, procediamo con ordine, cioè a puntate.

1 – Perché NON ho scritto della candeggina
«La candeggina ammazza anche l’Aids» mi disse una volta una dottoressa in tempi non sospetti (la stessa che trovate qui in tandem). Il fatto è che io la candeggina non l’ho mai sopportata. Ho in piedi da anni un contenzioso personale con i portinai di Milano che la usano in quantità industriali per pulire due pisciatine di cani o di gatti che, al contrario della candeggina, non inquinano, perché in un giorno di pioggia mi sono ritrovata i pantaloni scoloriti a puntini e io sono sicura che è colpa loro, che la pioggia ha fatto schizzare sui miei pantaloni la loro candeggina. Solo a Milano può succedere di dover buttare un paio di pantaloni per un gatto che l’ faa el so mestee: marcare il territorio. A parte questo, la candeggina mi risale su per il naso e scende in gola e io mi sento bruciare tutto. Così in questi interminabili mesi, a giorni regolari, il naso iniziava a gocciolarmi all’improvviso e quando il panico era già montato capivo. Come nei film dell’orrore le presenze maligne si insinuano sotto le porte in forma di fumo, a una data ora di un certo giorno la candeggina usata dal signore delle pulizie sul corridoio si insinua sotto la mia porta in forma invisibile, attaccandomi con i suoi tentacoli in pieno viso. Costringendomi ad aprire tutte le finestre anche quando il clima non è favorevole. Ora, potevo scrivere pubblicamente che per alcune ore giravo per casa con un senso di oppressione, di rabbia repressa, di occhi rossi come l’Alien che mi aveva invaso e consumando pacchetti di fazzoletti di carta?

Ode al complottista

Beato il complottista che ha profonde conoscenze di medicina, scienza, farmacologia, esoterismo, magia bianca, nera, simboli, informatica, massoneria, coltivazione e consumo di erbe, religione, storia, storia delle epidemie, politica e se ho dimenticato qualcosa chiedo scusa.

Beato il complottista che non si contraddice mai, che non sbaglia mai, che ha la soluzione più semplice ad ogni evenienza mentre gli altri non sanno cosa fare.

Beato il complottista che è anche un esperto di diritto costituzionale.

Beato il complottista che riesce sempre a esporre le proprie idee con chiarezza e soprattutto in tono pacato, rispettoso e con linguaggio appropriato e scevro di ogni volgarità.

Beato il complottista che ha un profondo senso civico e si impegna con instancabile passione per il prossimo e il mondo che lo circonda.

Beato il complottista che nel sostenere e diffondere le proprie idee non ha mai smesso di mostrare empatia e rispetto verso i sofferenti.

Sono certa che il complottista è sempre in prima linea per supportare chi ha più bisogno, che è andato personalmente negli ospedali e sulle ambulanze, o per aiutare o per documentare in incognito, con reportage da Pulitzer, la gigantesca bufala della pandemia, che si è intrufolato nei palazzi del potere alla ricerca della sua gola profonda per offrire a tutti la possibilità di sapere la verità. Il complottista è più a rischio di un reporter di guerra not embedded.

Sono certa che il complottista, mettendo sì tanto ardore nell’informare sui diritti che ci sono stati negati durante il lockdown, soffre amaramente per ogni diritto negato: sul lavoro, nella vita, in tutti i paesi del mondo e per ogni genere di lavoro e si impegna con tutti i mezzi che ha a disposizione perché le cose cambino.

Per le sue sconfinate conoscenze, l’equilibrio, la capacità di discernimento, la proprietà di linguaggio, la tolleranza e per l’impegno che profonde in ogni sua azione, propongo il complottista Persona dell’anno. Di questo e di molti altri a venire.

I luoghi, le persone

Alla mattina il buongiorno su una chat. Via via ci sentiamo quasi tutti fino a sera inoltrata. “Facciamo l’appello”, a volte penso. Qualcuno guarda vecchie foto. Le materializza sul mio telefono perché mi riguardano. Qualcuno pulisce i meandri materiali dei mobili o virtuali del pc. Escono cose e ricordi. Facciamo l’appello di noi stessi. I luoghi mai visti non sono più un sogno da realizzare, non sono neanche più la scelta o la forzata rinuncia a realizzare il sogno perché non dipende più da noi. I luoghi visti assumono diverse valenze, ma sono i luoghi più cari che irrompono quando meno te lo aspetti, con la luce che hanno sempre avuto ma con sopra la brutta ombra di quando potrai tornare a vederli. I luoghi più cari non sono i luoghi più belli. Il sacchetto ritrovato del Royal Mile di Edimburgo, la preoccupazione di Robbie delle Shetland, il tempo così meravigliosamente fermo di Procida riportano alla mente sensazioni visive ed emotive. Però ora sono ricollocati in un’altra dimensione. Posso anche accettare di tenerli al chiuso. Altri no. Perché sono loro che parlano. Posso anche riconoscere che sia una follia dovuta a questo altro mondo in cui siamo precipitati. O può essere che sia questo altro mondo che fa fare dei viaggi che neanche una pasticca di Lsd. Però quei posti lì parlano, perché si connettono con delle persone e quelle persone lì sono il mio branco. Abbiamo questa vita qui che ci costringe a volte a sopportare chi detestiamo cordialmente. Hanno un qualche difetto ma non è tanto questo, è la consapevolezza che quel difetto lì è quello che dice che non hai niente a che spartire con loro. Li detesto cordialmente come il leone detesta la iena che gli mangia la sua fatica. Specie diverse e inconciliabili. Altre invece sono il branco.

Trip

Quando sono stata a Ellis Island ho scoperto che sul sito puoi inserire il nome di qualche tuo parente e vedere se è mai arrivato. La cosa aveva intrigato me e mio cugino, che avevamo solo i pochi ricordi delle nostre madri. A distanza di quasi vent’anni mio cugino deve essersi fatto un viaggio nei meandri e mi manda questo.

I primi pensieri sono realisti: 19 anni, che coraggio. Partire da un luogo nel nulla, che d’inverno scompare nella nebbia e d’estate in un’umidità che ti spezza le gambe, doveva già essere un viaggio solo arrivare a Genova (come sarebbe adesso del resto, faresti prima ad arrivare a New York), chissà se è riuscito a sopravvivere, chissà se abbiamo dei parenti. Poi arriva il trip. Riprovo esattamente come fosse allora i primi momenti vissuti a Genova. Sulla terrazza dell’albergo, tetti, un pezzetto di mare dietro, la confusione sotto, odore di pesce, il cielo con delle nuvole che mi sembrava di non avere mai visto fino a quel momento. Genova ce l’avevo già dentro. Presi via Balbi e più camminavo e più mi sentivo felice. Non erano solo le cose che vedevo, era come se quel posto mi appartenesse, come se ci fossi già stata, ma in un altro modo perché niente mi ricordava qualcosa di già visto. Ora me ne sto lì con una gamba piegata sulla sedia della cucina, ad aspettare che l’acqua bolla e guardo questa foto. Del tutto immobile e privata anche di un viaggio di venti minuti, sto viaggiando in altro modo. Questo mio prozio, e non so nemmeno se sia il giusto nome per il legame di parentela, deve essere partito più o meno da dove ora c’è il Porto Antico. Avrà avuto paura? Sarà stato felice di andarsene dalla fame? Avrà sperato? Avrà provato un dolore immenso per la sua gente che non avrebbe più rivisto? Quale di questi sentimenti avrà prevalso? Avrà stretto le mani intorno a quella ringhiera sul mare provando questi sentimenti con un’intensità feroce e io, un pezzo del suo branco, dopo più di cent’anni ho stretto le mani intorno alla ringhiera raccogliendo quell’intensità. Sempre immobile nella mia cucina, la gamba piegata sulla sedia e gli occhi fissi sull’immagine dello smartphone, sono in un punto preciso del Porto Antico, con le mani strette intorno a un punto preciso della ringhiera, vedo tutti i particolari intorno. La ringhiera non è quella ringhiera, se mai all’epoca c’era, e quello che vedo intorno non è quello che ha visto lui. Non tutte le cose attraversano i secoli ma l’intensità di ciò che proviamo forse sì, forse resta sospesa e ricade un giorno su qualcuno del nostro branco. Mi sembra di aver trovato una spiegazione per quell’amore viscerale che provo per Genova, non è il posto migliore del mondo e non è quello da cui provengo e quindi una spiegazione deve esserci. Risalgo la realtà, “torno” in cucina e archivio la cosa. Fino a qualche giorno dopo, quando mi decido ad affrontare l’immensa fatica di pulire la libreria. Trovo un libro di poesie del 1950 di un tal Giovanni Bertacchi. Appartiene al mio altro 50 per cento di Dna, il libro, e un po’ anche l’oscuro poeta perché comasco. Lo apro a caso e si apre su Al sopito di Staglieno.

«Se vuoi capire l’anima che hai»

«È la mia gente» dico al telefono. Mi stupisco di avere usato queste parole. I miei parenti, i miei amici, ma la mia gente non l’ho mai detto. Loro stanno in mezzo all’angoscia e al dolore più di quanto senta di starci io o chiunque altro di Milano.
La mia gente, il mio branco, i miei luoghi.

Un altro buon motivo

Un altro buon motivo per tornare alla normalità, il più insignificante di tutti ma significativo per la psiche già provata: la fine improvvisa, così come improvvisa è stata la comparsa, di quell’insopportabile melassa delle pubblicità “adeguate”. Retorica da quattro soldi sciorinata con voci teneramente incitanti, possibilmente trascinate sulle “e” aperte che fanno più effetto. Il Paese del melodramma e di Maria Strapatenduni.

Ah l’uomo che se ne andava sicuro…

Non ricordo niente che più di questa malattia abbia messo l’uomo di fronte alla sua fallibilità. Che ne abbia decretato la pochezza, le contraddizioni. Che ne abbia spento la boria di superiorità e di progresso fin qui accumulata. Non le guerre, che sono fatte dall’uomo, non le crisi economiche, sempre fatte dall’uomo. Ha fallito anche la scienza, l’élite umana, persino con punte di idiozia: è solo un’influenza, le mascherine non servono, anzi sì, teme il caldo, come mai allora è arrivato in Africa? Le punte di idiozia non sono date dal non sapere, ma dal pretendere di sapere anche quando non si sa. Ce ne stavamo coi nostri pc, tablet, smartphone, smart tv, streaming, partecipavamo alle conquiste spaziali, ai giretti nello spazio, per una volta non era fantascienza, a mettere in atto tutti i mezzi possibili per prolungare la giovinezza e la vita, convinti che stavamo vivendo nell’era del progresso. Per qualcuno il progresso era lo smartphone, per qualcun altro un pozzo per l’acqua. Per qualcuno sfoggiare un viso levigato, per altre l’illusione di mostrare di averlo un viso, togliendosi il burqa, anzi no, rimettetelo, logiche umane sentenziano (a proposito, non è che potreste toglierlo a loro e darlo a noi? Mi sembra strutturato come una buona difesa antivirus). Il progresso era arrivare a sfiorare i 100 anni, la scienza sbandiera i tuoi 100 anni come una conquista, un’altra parte dell’umanità li sbandiera come un peso insostenibile. Il vero progresso sarebbe stato la cancellazione dei mali che ci affliggono da sempre: le guerre, le disparità, il dolore fisico. Se la Terra non riesce più a reggere il nostro peso, il progresso sarebbe stato conciliare tutti i pesi. Noi stiamo vivendo lo sviluppo, non il progresso. Che differenza c’è tra un americano lasciato morire perché senza assicurazione medica e un indiano isolato su un albero? E qualcuno potrebbe dire: gli indiani sono poveri in canna e se ne stanno ancora lì con le vacche sacre e gli dei con tante braccia. Invece gli americani sono un popolo evoluto… giurano sulla Bibbia, mettono le bandierone nelle chiese, In God we trust nei tribunali e si scoprono difensori della vita quando fa comodo a loro, ah sì, proprio evoluti. In mezzo ci siamo noi, un letto di ospedale gratis per tutti. No, per tutti no, non ne abbiamo abbastanza. Ma quelli che ci sono sono gratis, è comunque una conquista da tenersi stretta.
Siamo stati colti impreparati e il nostro know-how ha ricevuto il peggior knock out: amico, ricordati che sei solo un escremento di mosca sul vetro dell’universo.
È ormai scientificamente provato: abbiamo tirato troppo la corda e quella si è rotta. Il resto del mondo che non siamo noi ci ha presentato il conto con gli interessi. E intanto continuiamo a parlare di altri interessi.
Allora adesso voglio dire una cosa veramente stupida, da una proprio ignorante che non conosce economia e finanza. I soldi sono pezzi di carta inventati dagli uomini. Non sono oro, diamanti e perle creati dalla natura, che per ottenerli all’uomo costano tanta fatica e morte. Sono pezzi di carta, stampati come si può stampare un libro o una rivista. Guarda, dopo decenni di editoria potrei spiegartelo anch’io come si fa. Allora lasciamo perdere i meccanismi umani che ci stanno dietro e stampiamo questi pezzi di carta. Usiamoli per far fronte alla catastrofe economica che seguirà, almeno per ora. Usiamoli non per restare umani ma per diventare umani.