La valle dell’Eden (East of Eden). Ma che Est, questo libro è proprio una bussola

Copertina Valle Eden

Se vuoi parlare de La valle dell’Eden (East of Eden) lo devi chiamare romanzo. Ma usare questa parola è come chiedere a un elefante di fare il bagno in una piscina di plastica. L’ho comprato con l’idea che desse solo (e sarebbe già stato tanto) bellezza. Quasi un manuale di storia america, è soprattutto un generatore di pensiero. Alcuni scrittori sono dei dottor Frankenstein: le loro idee sono come scosse elettriche che rianimano.

1/ La genesi, o del “peso” della letteratura
Vado in libreria solo per ritirare un libro ma non guardarsi intorno è impossibile. Il volto bello e inquieto di James Dean è un magnete. Mi riesce sempre difficile non pensare alla carriera che avrebbe potuto avere. Titolo: La valle dell’Eden. Quello che ho visto meno volte, ricordo solo un pianto dirotto per un padre ottuso e non riesco a collocarlo, e per forza, lo voglio cacciare dentro ne Il gigante. Autore: John Steinbeck, mi viene in mente Furore, un film incredibilmente bello con un Henry Fonda incredibilmente somigliante a suo figlia. Prendo in mano il libro, calibro male la forza e quasi mi cade per terra: 762 pagine. Lo rimetto al suo posto ché un posto sui miei scaffali non riuscirei più a trovarglielo. I giorni passano ma l’Eden rode dentro. Periodicamente arriva uno di quei giorni in cui ti prende la malinconia… di qualcuno che abbia qualcosa da dire in questa trippa di ovvietà. Come disse Crozza riferendosi a un intellettuale di punta: belin, ma fin lì ci arrivavo anch’io. Lo scaffale mi guarda arcigno: non ci provare, sai, a infilare qualcos’altro qua dentro, ti sei comprata il Kindle apposta. Sì, va beh, ma non riesco ad abituarmi. Breve trattativa e poi parto. Feltrinelli di stazione Garibaldi, entro, tiro dritto senza voltarmi e lui è ancora lì, ad aspettarmi. Lo prendo tra le braccia e me lo porto a casa.

2/Saper scrivere
Quattordici pagine quattordici di descrizione del paesaggio. E chi se lo può permettere senza annoiare il lettore già alla riga 1 della pagina 2?

3/Testa di traduttore, e la Genesi, quella vera
Ma cosa aveva in testa il traduttore, e ancor più l’editore che gliel’ha passata, quando ha tradotto il titolo originale East of Eden in La valle dell’Eden? La valle c’è, quella del Salinas, che sia fondamentale per lo sviluppo della narrazione è ovvio, tanto più che è il luogo in cui è nato l’autore che con la sua famiglia compare in parte del romanzo, ma “a est dell’Eden” è l’impianto stesso del libro. «Caino si allontanò dalla presenza del Signore e si stabilì nel paese di Nod, a oriente di Eden.» «(…) e sta tutta nella realtà psicologica del non sentirsi amato dal padre. Perché la figura del padre ha, in questo romanzo, un continuo riferimento in colui – l’Eterno – che, nel Libro della Genesi (IV, 4-5), rifiuta il dono di Caino e che, nell’Esodo (XXXIII, 23), non permette che lo si veda altro che di spalle; e perché l’angoscia causata dal rifiuto è avvertita da un figlio come una condanna senza remissione, che a sua volta genera disperazione e violenza.» (Introduzione di Luigi Sampietro).
Ed è poi sull’eterna contrapposizione tra Caino e Abele che si incardinano le vicende dei protagonisti, che addirittura hanno l’iniziale del nome che corrisponde alla parte del campo in cui giocano la loro vita. Una scelta che non pare consapevole, anzi, sembra piuttosto che con il bene o il male ci siano nati o che restino irrimediabilmente segnati dal giudizio altrui. La distinzione non è così netta, come a voler dire che anche ciò che sembra buono ha il suo lato oscuro, fosse anche solo l’ignavia, quel non agire che può ferire quanto l’agire male. O che i comportamenti cattivi non siano che una reazione a chi ha dato per scontata la bontà senza andare oltre le apparenze. Si hanno così Adam e Charles e Aron e Caleb, tanto per citarne un paio. Questo splendido passo rende bene l’idea sia della contrapposizione sia dell’importanza della traduzione (per non parlare dell’ecumenismo, ma questo è un altro discorso):

« “Si ricorda quando ci lesse i sedici versetti del quarto capitolo di Genesi e ne discutemmo?”
(…) “Be’, quella storia mi aveva colpito profondamente e la ripresi, parola per parola. (…) Poi misi a confronto le traduzioni esistenti, che erano abbastanza vicine. C’era un solo punto che non mi convinceva. La versione di King James dice così… Sapete, quando Jaweh chiede a Caino perché è arrabbiato? Jaweh dice: ‘Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta, verso di te è il suo istinto, ma tu lo dominerai’. È stato l’uso del futuro a colpirmi, perché era la promessa che Caino avrebbe vinto il peccato.” (…) “Poi ho preso una copia dell’American Standard Bible. Era appena uscita, allora. E quel brano era diverso. Dice ‘E tu dominalo”. E questo è molto diverso. Non è una promessa, è un ordine. Così cominciai a tormentarmi. Mi chiedevo quale fosse la parola originale, quella dell’autore, che aveva permesso traduzioni così diverse.” (…) “Lee” disse “non dirmi che hai studiato l’ebraico!” “(…) andai a San Francisco alla sede dell’associazione della nostra famiglia (…) perché nella nostra famiglia abbiamo molti vecchi saggi che sono anche grandi studiosi. Per meglio dire sono pensatori. Un uomo può passare anni a ponderare un’affermazione di quel saggio che voi chiamate Confucio. Così ho pensato che avrei potuto trovare esperti analisti del significato, in grado di aiutarmi. (…) Pensate un po’: quattro vecchi signori, il più giovane dei quali ha ormai più di novant’anni, che cominciano a studiare l’ebraico! Chiamarono un famoso rabbino. E si misero a studiare con foga, come bambini. (…) Dovreste vedere l’ebraico scritto con l’inchiostro cinese e col pennello! Il fatto del destra-sinistra a loro non dava fastidio, abituati come sono a scrivere dall’alto in basso. (…) Le domande, l’indagine, oh, la bellezza del pensiero… la straordinaria bellezza del pensiero. (…) ‘Tu lo dominerai’ o ‘tu dominalo’. E questo è l’oro che abbiamo estratto dalla nostra ricerca: ‘Tu puoi’. ‘Tu puoi dominare il peccato.’ I vecchi saggi sorrisero e annuirono e ritennero ben spesi quegli anni. E poi, la cosa li aveva tirati fuori dal loro guscio cinese. Adesso stanno studiando il greco. (…) La traduzione dell’American Standard ordina agli uomini di trionfare sul peccato e il peccato lo si può chiamare ignoranza. Quella di King James fa una promessa, con il suo ‘lo dominerai’, nel senso che l’uomo sicuramente trionferà sul peccato. Ma la parola ebraica timshel – ‘Tu puoi’ – quella dà una possibilità. È forse la parola più importante del mondo. Quella che dice che la strada è aperta. Quella che ributta la cosa sull’uomo. Perché, se ‘tu puoi…’ è vero anche che ‘tu puoi non…’”»

4/Il film
Come ho già detto, non me lo ricordo, ma certamente è una super riduzione. Curioso che il Cal del libro sia di colori scuri, anche quelli dell’anima, mentre James Dean, nonostante i ruoli tormentati, aveva sempre un che di luminoso. Il regista è Elia Kazan, uno che ti avrebbe inchiodato anche su un mini spot delle caramelle.

5/Born in the Usa
Non so se ci siano molti europei esperti di storia americana. Con il carico che abbiamo sulle spalle, forse li guardiamo con un po’ di sufficienza, una nazione che più che farsi una storia da sé è andata a rompere quella degli altri. Un paio di episodi mi risultavano del tutto sconosciuti. Comunque, chi non sa taccia, ma certo le riflessioni sono lecite. Così, più che sorprendersi per il fatto che hanno un presidente come Trump, c’è da sorprendersi che abbiano avuto presidenti diversi da Trump. Più che stupirsi che il diritto ad essere armati sia protetto dalla Costituzione, c’è da stupirsi che non si siano ancora autoestinti. Una storia violentissima, quella americana, senza regole, differente dalla nostra, pur violentissima, in una cosa fondamentale. Non ha quella “nobiltà”, appunto tra virgolette, del combattere per la libertà del proprio paese, cioè di un’intera collettività. Almeno fino al 1915, è quasi sempre un combattere all’interno della stessa terra con l’unico scopo di conquistare terra. La legge è quella del singolo più forte. Oppure della razza contro la razza. Steinbeck non si tira indietro su niente, illuminando i lati oscuri quanto quelli chiari. I bianchi restituiscono una terra ai pellerossa ma li giudicano troppo stupidi per poterla far fruttare. All’epoca della costruzione dell’immensa ferrovia, vengono importati migliaia di cinesi, unica “pietà” per loro non ammassarli troppo nelle navi per farne arrivare vivi e in forza il più possibile.
Più che essere (parte di) un continente, gli Stati Uniti sono un contenitore, un gigantesco box in cui puoi trovare le cose più infime come le più preziose.
Così ecco Samuel, uno dei personaggi più belli, un irlandese che forse ricorda poco dell’Irlanda ma che in fondo non smette mai di essere irlandese, a tratti a se stesso, sempre agli occhi degli altri. Splendido Lee, cinese colto, stretto da profonda amicizia all’americano Adam e a Sam l’irlandese, parla benissimo l’inglese ma insiste nel mettere le L al posto delle R perché è questo che si aspettano da lui i bianchi. Nascondere la sua perfetta integrazione è come portare una maschera protettiva. Terribile l’episodio del tedesco che viene scoperto essere tale solo dopo l’entrata nella prima guerra mondiale. Prima era un signore benvoluto da tutti con un buffo accento, compreso cosa sia in realtà il buffo accento, diventa vittima di feroci attacchi, così come i polacchi scambiati per tedeschi.
Brutalità e amicizia incondizionata, infinite possibilità di arricchirsi e altrettante di cadere per sempre. Le riflessioni sembrano più un trarre le conclusioni con mentalità europea, quasi a dirsi: ma allora se ne rendono conto… o forse no? La risposta è solo verso la fine, sì, se ne rendono conto, e ancora per bocca di Lee: «(…) Forse è vero che discendiamo tutti da gente irrequieta, nervosa, criminale, litigiosa e rissosa, ma anche da gente coraggiosa, indipendente, generosa. Se i nostri padri non fossero stati così, sarebbero rimasti a casa, nei loro campi del vecchio mondo a morire di fame su una terra troppo sfruttata. (…) Tutti gli americani, di ogni colore e sfumatura, hanno un po’ le stesse inclinazioni. È un’altra razza – selezionata dal caso. Per questo siamo ipercoraggiosi e ipercodardi. Siamo buoni e crudeli, come i bambini. (…) Non abbiamo gusto né senso della misura. Scateniamo la nostra energia dappertutto e la sprechiamo. Nel vecchio mondo dicono che siamo passati dalla barbarie alla decadenza senza la fase intermedia della cultura. È possibile che chi ci critica non abbia la chiave o il linguaggio per accedere alla nostra cultura?»

6/Profezie
No, probabilmente non abbiamo la chiave di lettura per interpretare i loro picchi, o meglio, come facciano a convivere questi picchi, quelli di stupidità assoluta (sparatorie nelle scuole? Armiamo i professori!) e di altrettanta intelligenza, persino preveggenza. Ma certo ci facciamo sempre influenzare.

«Non so cosa accadrà nei prossimi anni. Nel mondo si susseguono cambiamenti mostruosi, forze che modellano un futuro di cui non conosciamo il volto. (…) Un gruppo può costruire automobili meglio e più in fretta di un solo operaio, e il pane uscito da un grosso stabilimento costa meno e la sua qualità è più costante. Quando tutti i nostri alimenti, abiti e alloggi saranno fabbricati in serie, la massificazione finirà inevitabilmente per entrare nelle nostre menti ed eliminare ogni altra forma di pensiero. Nella nostra epoca la produzione di massa o collettiva è già entrata nell’economia, nella politica e persino nella religione, tanto che alcune nazioni hanno sostituito l’idea collettivista all’idea di Dio. Questo è il pericolo del nostro tempo. (…) La nostra è l’unica specie dotata di creatività, e tale creatività ha un solo strumento: la mente e lo spirito individuale. Niente è mai stato creato da due uomini insieme. (…) Una volta avviato il miracolo della creazione, allora il gruppo può intervenire e potenziarlo; ma il gruppo non inventa niente. L’essenza più preziosa è la solitudine della mente di un uomo. (…) la mente libera ed errabonda viene perseguitata, imbrigliata, menomata, drogata. (…) E questo credo: che la mente del singolo individuo, libera di esplorare ovunque, è la cosa più preziosa del mondo. E per questo sono pronto a battermi: per la libertà dell’intelletto di imboccare qualsiasi direzione desideri, senza dettami. E contro questo devo battermi: qualsiasi idea, religione o governo che limiti o distrugga l’individuo. (…) Capisco bene perché un sistema costruito su uno schema ripetitivo tenti di annientare il libero pensiero: perché la mente indagatrice è la sola capace di distruggerlo. Lo capisco, certo, e lo odio. E intendo combatterlo per preservare l’unica cosa che ci distingue dalle bestie prive di creatività. Se si può uccidere questo stato di esaltazione, allora siamo perduti.»

Il libro è stato pubblicato nel 1952, quindi non si può parlare proprio di profezia perché l’America era già incanalata verso il consumo di massa, ma c’è dentro qualcosa che suona terribile ai nostri giorni, inondati dalla più americana delle invenzioni: i social network. Sembravano la creatività al potere, il singolo che finalmente può emergere e farsi sentire, leggere, ascoltare. I casi di successo ci sono, ma non molti se confrontati alla moltitudine. Per il resto si tratta di gruppi che fanno le stesse cose o la pensano in modo uguale. Non so se c’è un nemico peggiore per la creatività dell’uniformità. Alla fine questa iperconnessione non è che un’individualità di massa.

7/Frasi e basta
«Le amiche di Dessie erano buone e fedeli, ma erano esseri umani, e gli esseri umani vogliono stare bene e odiano stare male. Col tempo le signore Morrison trovarono ragioni ineccepibili per non andare alla casetta di fianco al forno. Non erano sleali. Non volevano essere tristi, esattamente come prima volevano essere allegre. È facile trovare una ragione logica e virtuosa per non fare quel che non si vuol fare.»

Animo umano
«E chi di noi, con il pensiero, non ha mai sondato le acque torbide?
Forse in tutti noi c’è uno stagno segreto in cui le cose più malvagie e orrende germinano e si irrobustiscono. Ma questo brodo di coltura è chiuso da uno sbarramento e quei pensieri oscuri cercano nuotando di superarlo solo per ricadere di nuovo indietro. Ma non è forse possibile che nelle nere pozze di alcuni il male diventi tanto forte da riuscire a scavalcare la diga e nuotare in acque libere? Una simile creatura potrebbe essere il nostro mostro, e noi non siamo forse suoi parenti, nelle nostre acque segrete? Sarebbe assurdo se non comprendessimo gli angeli come i demoni, visto che li abbiamo inventati noi.»

Paure e ri-paure climatiche
«L’inverno sembrava non voler mollare la presa. Freddo, pioggia e vento indugiarono anche fuori stagione. E la gente ripeteva: “Sono quei maledetti obici che sparano in Francia – stanno guastando il clima in tutto il mondo.”»

Il nuovo libro di Fabrizio Bolivar. Un romanzo di stili, persone, pensieri

Wallak la vita e altre seccature Bolivar

È un romanzo corale il nuovo libro di Fabrizio Bolivar Wallak, la vita e altre seccature. Tra reali e immaginari, i personaggi sono tanti e tutti ben delineati. Dal cialtrone alla “pantera” della Bassa, a chi è l’amico inesistente di chi (o l’alter ego) alla catechista vulcano, è tutto un intrecciarsi di personalità e caratteristiche fisiche particolari, divertenti o disperate, immutabili o in divenire. Molte le figure femminili, quasi tutte interessate, in modo più o meno equilibrato, al protagonista Daniele “Zed” Zanetti, a dispetto della sua bassa autostima, della sua incapacità di portare avanti un discorso serio per più di qualche minuto, di un aspetto fisico poco aitante messo in risalto dal vezzo di vestirsi «come un barbone di Bucarest». Sarà facile ai lettori individuare il proprio preferito, pescarlo fuori come in una scatola di cioccolatini a seconda di quanto riesce a comunicare a ciascuno. Quello che ha “parlato” con me è il vecchio contadino Amedeo.

«Avete presente uno di quei vecchietti tutto nervi, con una scoliosi da falce e con le rughe sul volto profonde quanto un solco d’aratro nella terra secca?
(…) Con il suo sorriso sbilenco, la cicatrice, la pelle bruciata dal sole. Il cappello di paglia, la camicia a maniche corte, i pantaloni blu legati alla vita da una fune.»

Mi ha riportato alle persone che hanno popolato i giorni della mia infanzia passati in campagna, quelle di cui oggi resta solo l’involucro esterno, come il vecchio cappello di paglia con la marca sbiadita del mangime di turno, e quasi nulla di ciò che stava all’interno che valeva tanto quanto la terra grassa e marrone su cui vivevano. Amedeo poi incarna la virtù che più si è persa in questi tempi: parlare solo quando è necessario e solo quando si ha qualcosa che valga la pena sentire, conscio che certe situazioni, così come un tramonto o un vecchio albero nodoso, non hanno bisogno di inutili didascalie umane.

«Soprattutto considerato che la parsimonia dell’eloquio era compensata più che degnamente dalla potenza del contenuto. Anche se in realtà lui non avrebbe avuto bisogno di parlare. Comunicava già abbastanza con gli sguardi, con i gesti, con i silenzi.»
«Vedi quell’albero laggiù? mi chiese. Certo che lo vedo, gli risposi. Era un albero isolato, rigoglioso e imponente. Sembrava fosse contento di starsene lì senza rompicoglioni attorno.»

L’io narrante vive in una città, non abbastanza grande per essersi mangiata la campagna attorno ma non abbastanza piccola da aver rigettato come virus brutti monolocali discutibilmente arredati pagati come ville e gente-ratto pronta a rosicchiarti appena possibile.
Ma è qui in aperta pianura che si generano i pensieri più profondi di Zed, che trapassano il suo solito sarcasmo e cinismo per lasciarsi andare al ricordo, alla paura che abbiamo in tanti: che le cose che più ci sono care, i nostri pochi riferimenti solidi, cambino e si liquefacciano insieme a tutto il resto in un’incerta poltiglia.

«(…) mi accorgo che tutto è sempre più perfetto. La luce, i colori, i profumi. E anche noi. Anche noi siamo perfetti. Questione di pochi secondi, perché come una ghigliottina mi piomba di nuovo in testa la solita terribile domanda. Per quanto durerà tutto questo? Per quanto?»
«Quando avverto un cambiamento che riguarda le persone con le quali sono cresciuto, oppure i luoghi, i profumi dell’infanzia e quelle cose lì, mi si forma un magone in gola. Perché è un’altra certezza che se ne va, un baluardo che si sgretola.»

Si sorride parecchio in Wallak ma la gigionaggine di Zed è spesso una maschera che nasconde sostanza. «I concetti di libertà individuale, di rifiuto del potere costituito e di disobbedienza civile come forma di protesta, mi hanno sempre affascinato. Ma l’anarchia in questa società non può funzionare, soprattutto a causa dell’elevatissima percentuale di idioti da cui è composta.»
Qualche lungaggine poteva essere evitata ma gliela si concede perché è indice di amore per la scrittura, il desiderio di lasciar straripare le parole da dentro, come fa il Po di quando in quando fregandosene di argini e barriere. Ed effettivamente in Wallak la scrittura fa parte del coro come gli altri personaggi. La scrittura che non si riesce a leggere – cultura che trabocca dagli scaffali della libreria in cui lavora, un peso che incombe perché il protagonista sa che potrà avvalersene solo in minima parte, preso come tutti a destinare la quasi intera esistenza al lavoro – e quella che si cerca di creare, tra momenti di esaltazione creativa e di totale vuoto cerebrale. L’ispirazione che viene dagli scrittori che Zed ama e il desiderio di fare il lancio al piattello di quelli che detesta, fino alla commozione nello scoprire che un suo amico ce l’ha fatta a pubblicare un libro. C’è il romanzo giallo anni ’50 che prende forma dentro il romanzo di vita che a un certo punto assumerà anch’esso tinte gialle. C’è l’editrice Emma che impone le regole di mercato e Zed che vorrebbe percorrere nuove strade narrative. Dirò, qualche idea di Zed fossi stata io l’editrice gliel’avrei pubblicata.

«Ma come faccio a fidarmi di te se fino all’altro ieri mi hai proposto delle storie assurde, tipo quella del galeone spagnolo che parte da Valencia nel millequattrocento e sbarca a Ibiza nel duemilasedici, a ferragosto, mi fa. (…) tra i protagonisti che avevo pensato di inserire c’era anche Osvaldo Piume Dispari, il pappagallo senza becco, le dico. (…) E secondo te mi dovrei fidare di uno che scrive delle puttanate del genere? mi interrompe. Guarda che Osvaldo Piume Dispari avrebbe avuto una personalità piuttosto complessa (…)»
«Raccontava di un uomo che al calare dell’oscurità si trasformava in piccione.»

E Wallak? Wallak è quello che ti inchioda al dovere proprio quando hai voglia di sbracare, sclerale, svaccare e invece latita quando ne hai bisogno. Il petulante grillo parlante che ci perseguita da sempre.

Fabrizio Bolivar è al suo XXXX libro. Non sarò io a dire qual è il numero esatto. Come il Boghel del noir stile Chandler dentro la commedia stile Bolivar ho il mio segreto da mantenere, sino a tempo debito.

Nota personale. Mi sono ritrovata un milione di volte imbacuccata o seduta arrostita sul parapetto di un binario morto ad ascoltare la voce di servizio: ferma a Cremona, Piadena, Bozzolo e… un E marcato a spezzare quella litania impersonale, tenuto in sospeso…  e? Castellucchio. Mi sono sempre chiesta dove fosse Castellucchio, che faccia avesse Castellucchio. Ringrazio quindi Fabio Bolivar, autore della foto di copertina, per aver materializzato questa stazione ormai diventata un mito.

Fabrizio Bolivar
Wallak, la vita e altre seccature
In vendita su: https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/351016/wallak-la-vita-e-altre-seccature-2

Chiedi alla polvere e ti sarà dato

La polvere è quella delle strade, dei mobili, dei bar, dell’albergo triste dalle architetture al rovescio. È quella che si deposita sui sogni disattesi di chi ha deciso di passare gli ultimi anni di vita in California, lasciando gli stati interni per godersi un eterno sole, così eterno da rimpiangere la neve e il freddo di casa propria, perché il non mutare mai delle stagioni diventa un infinito presente tutto uguale. Anche la sabbia del deserto è polvere e si incastra nei meccanismi di una macchina da scrivere, ed è questa la più tragica di tutte le polveri. Fin dove si è disposti a spingersi per realizzare il sogno di diventare scrittore? Fino a nutrirsi solo di arance, col succo che si rimescola dentro lo stomaco che non lo sopporta più. Fino a mentire alla propria madre per farsi mandare soldi. Fino a spendere tutti i soldi rimasti con una prostituta solo per farti raccontare qualche storia che possa riportarti alla macchina da scrivere. Arturo Bandini sa di poter diventare uno scrittore di successo, ha già avuto una possibilità. John Fante trascina in questo suo mondo di rincorse continue: dietro a un amore furioso, dentro a luoghi oscuri, assieme a persone sordide o disperate. Per Arturo Bandini la via di mezzo non esiste: ora odioso e violento, ora generoso salvatore di anime perse, Bandini che scende nell’abisso senza perdere l’ironia.
Storie che vivono in un’America altra. Non c’è Sunset Boulevard in questa Los Angeles, non macchine enormi e persone bellissime, c’è una ruota panoramica di un luna park in riva al mare che non si sa perché risulta famigliare, ci sono le spiagge ma anche il deserto terribile che incombe. E c’è il sogno americano, nascosto però dietro alle sofferenze di chi deve conquistarselo, perché c’è sempre qualcuno più immigrato di te, in una catena di sopravvivenza dove l’italoamericano può maltrattare la messicana e la messicana può chiamare gialli i giapponesi.

«Mi sdraiai sul letto e mi misi a pensare, fissando le chiazze prodotte dalle luci rosse del St Paul, che balzavano dentro e fuori dalla mia stanza, e sentendomi un verme perché quella sera mi ero comportato come uno di loro. Smith, Parker, Jones, gente con cui non avevo mai avuto niente a che spartire. Ah, Camilla! Quando ero ragazzo, laggiù nel Colorado, erano questi stessi Smith, Parker e Jones a ferirmi apostrofandomi con atroci nomignoli. Per loro ero Wop, Dago o Greaser e anche i loro bambini mi insultavano, come io ho insultato te, stasera. Mi hanno umiliato al punto da farmi diventare diverso e mi hanno spinto ad accostarmi ai libri, a rinchiudermi in me stesso, a scapparmene dal Colorado. E sai, Camilla, quando vedo le loro facce, riprovo a volte lo stesso dolore, la stessa umiliazione di allora e sono felice che siano qui, a morire sotto il sole, sradicati, ingannati dalla loro durezza; sono le stesse facce, le stesse bocche tirate di allora, che concludono le loro vuote esistenze sotto il sole rovente.
Li vedo negli atri degli alberghi, li vedo mentre si crogiolano al sole, nei parchi, e mentre escono vacillando da piccole chiese senza bellezza come il Tempio di Aimee o la Chiesa del Grande Io, con il volto rabbuiato dal contatto con i loro strani dèi.
Li ho visti sbucare dal cinema, vacillando e sbattendo gli occhi vuoti di fronte alla realtà, e poi tornare a dirigersi verso casa a leggere il «Times» per sapere cos’era successo nel mondo. Ho vomitato sui loro giornali. Ho letto i loro libri, studiato le loro abitudini, mangiato il loro cibo, desiderato le loro donne, ammirato la loro arte. Ma sono povero, il mio nome termina con una vocale dolce e loro odiano me, mio padre e il padre di mio padre. Avrebbero voluto succhiarmi il sangue e abbattermi come un animale, ma ora sono vecchi e stanno morendo sotto il sole e nella polvere calda delle strade, mentre io sono giovane e pieno di speranze e di amore per il mio paese e i miei tempi, e se ti chiamo «indiana» non è il mio cuore che parla, ma il ricordo di una vecchia ferita, e io mi vergogno della cosa tremenda che faccio.»

Chiedi alla polvere è uno swiffer su un mucchio di letture inutili e di scritture scialbe.
Non è uno di quei libri che finiscono con l’ultima pagina. Ti porti dentro le sue strade ignote mentre percorri le solite di ogni giorno e i suoi personaggi e le loro vicende piccole che si intrecciano con il Tempo grande. E questo è scrivere. Che invidia. Non si invidia Michelangelo, si invidia Renoir, perché il primo è irraggiungibile e il secondo invece ha qualcosa di normale, potresti riuscirci anche tu (sì, vabbe’…), e allora non si invidia Dante, si invidia John Fante.

“…che udir con gli occhi è finezza d’amore”

04-raccortiUn signore ripiega il giornale e lo appoggia sul tavolo.
– Ma che fa, lo legge e non lo paga? sussurro.
Due occhi scuri si girano a guardarmi. Credo di vedere un 10% di calma rassegnazione e un 90% di pazienza, bonaria, quasi inesauribile. Ma non do il tempo di rispondere:
– Ma almeno compra un pacchetto di sigarette, di cicche, una ricarica del telefono, che so?
Non ricordo la risposta, forse è no. Si legge il giornale e se ne esce come è venuto, come se fosse una biblioteca e non un esercizio commerciale. Non ricordo la risposta perché la mia mente aveva riportato a galla un vecchio ricordo, una candid camera di Nanni Loi. L’attore faceva lo stesso, andava ai chioschi delle edicole, prendeva un giornale e se lo leggeva. Diverse reazioni, quella che resta nella memoria è l’edicolante milanese, che allunga il braccio fuori dal suo buco e intima: Te paghet puntini di sospensione, non è una domanda e neanche una minaccia, è quasi una lezione: paghi e poi puoi leggerti il giornale. Che è poi quello che avrei fatto io. Ma lui no. Poi leggo questo racconto e credo di capire. Io non ho un particolare interesse verso gli sconosciuti, forse perché non ho un negozio e quindi gli sconosciuti sono le centinaia di persone che mi si muovono intorno senza viso, senza occhi, di solito senza voce, ché la musica la uso anche per quello, per isolarmi, nei percorsi dal punto A al punto B che mi separano dai conosciuti. Poi sì, qualche eccezione c’è sempre, però io non ho occhi. Lui sì, per indagare, per conoscere o solo per immaginare e costruire una storia, perché a lui la gente, o come direbbe Loredana la gggènte, piace.

A LOREDANA SARRICA, SPEAKER DI RADIO 1
di Sabato Cuomo

…avresti dovuto vedere com’era bella, Loredà. Aveva un copricostume-vestito, cioè uno di quegli abiti di tela che ti servono per metterli sopra il costume quando vai al mare, ma che volendo ci puoi anche uscire, anche di sera con uno scialle sopra, o con uno di quei bei foulard sulle spalle. Un copricostume lungo, nero, con le spalline sopra le spalline del costume nero anche quello. Aveva unghie curatissime con uno smalto rosso. Aveva lunghi capelli neri e occhi neri, profondi. Sembrava la figlia di Claudia Cardinale. Si muoveva tra i giornali cercando qualcosa: in vero due li aveva presi, e li teneva su un braccio come si tiene un neonato. Lei cercava ancora, io sbrigavo un cliente e la guardavo, sbrigavo un altro cliente e la guardavo facendo attenzione a che lei non mi notasse, perché se se ne fosse accorta si sarebbe offesa, avrebbe interpretato — a ragione, senza dubbio — che io avevo paura che lei si fregasse i giornali e fosse scappata, mentre invece io, a una come lei, le avrei detto vieni dietro al bancone, prendi il cassetto con tutti i soldi, prendi perfino le mie sigarette e l’accendino, che io ti accompagno pure fuori, ti accompagno alla macchina, e ti apro lo sportello con un inchino. Mi piaceva pure come si muoveva: gesti e movimenti riservati, come quelle donne che vanno a sentire la messa in Piazza San Pietro, che hanno preferenza a nascondere il proprio corpo. Comunque alla fine arriva al bancone, e vedo i giornali che ha preso, che non sono i migliori ma oggi è mercoledì e le cose buone arrivano proprio il mercoledì pomeriggio. Prende pure Vivident Xilit  tipo verde. Io scarico tutta la mia signorilità, tutto il mio aplomb:
«Mi scusi, stava cercando qualcosa in particolare?»
«Veramende io starei a scercà ntimità e confidendze».
Che delusione, già per i giornali che ha comprato ma soprattutto per quell’accento sgradevole, improponibile. Mio nipote, fulminato anche lui:
«Di dove sei?» (del basso Lazio, idiota!)
«Veramende, io starei in provinscia di Frosinone».
Mi sono alzato, avrei potuto lamentarmi ma non l’ho fatto, avrei potuto sbattere il cassetto ma non l’ho fatto, me ne sono andato in un angolo dietro al negozio, a pensare. A pensare che è stato bello sentire la tua voce.

Boom made in Italy. Dal passato a nuove prospettive

rifacciamo-boomPaola Ducato è insegnante di Storia e Filosofia e specializzata nell’insegnamento dell’italiano ai ragazzi stranieri. A Perugia, dove vive, è promotrice di diversi progetti in ambito scolastico. Nel marzo 2016 è uscito il suo volume Rifacciamo Boom.
Nei tempi di crisi che stiamo vivendo, e che si protraggono anche se continuiamo a dare loro un senso di finitezza chiamandoli periodo, un libro come questo Rifacciamo Boom può essere un saggio non solo inteso come genere letterario ma come saggia riflessione e sagge premesse da porre per ritrovare i “bei tempi andati” del miracolo economico, evitando, però, di ripeterne errori ed esasperazioni. Già a partire dal titolo: un deciso imperativo, senza l’ottimismo un poco scriteriato del punto esclamativo o l’incertezza o, anche, il nascosto invito del punto interrogativo.
Perché è vero, i tempi andati sono stati belli ma pieni di contraddizioni e cadute, e nemmeno si può negare loro parte della responsabilità di quanto è venuto dopo. Così come non si può dimenticare che proprio questi anni di grandi balzi nella luce del benessere hanno visto episodi oscuri, un paio su tutti la morte di due importanti personalità, le cui dinamiche restano tutt’oggi avvolte nel dubbio: l’incidente aereo di Enrico Mattei (1962) e l’uccisione di Piero Paolo Pasolini (1975).  Al fondatore dell’Eni e allo scrittore di Petrolio sono dedicate alcune delle narrazioni portanti del volume, che passa anche attraverso il Centenario dell’Unità d’Italia celebrato nel 1961 e arriva ai giorni nostri con Expo 2015. Un viaggio nella storia del nostro Paese, per non dimenticare, per non appiattirci su vecchie misure che non possono più essere e imparare a rifondare un’economia più rispettosa della persona e dell’ambiente.

Del libro si è già parlato nel corso di varie conferenze a Perugia a cui hanno partecipato, tra gli altri, il prof. Leonardo Tofi dell’Università di Perugia e il prof. Gianluca Prosperi.

Rifacciamo Boom
di Paola Ducato
Guardastelle Edizioni

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