Il nuovo libro di Fabrizio Bolivar. Un romanzo di stili, persone, pensieri

Wallak la vita e altre seccature Bolivar

È un romanzo corale il nuovo libro di Fabrizio Bolivar Wallak, la vita e altre seccature. Tra reali e immaginari, i personaggi sono tanti e tutti ben delineati. Dal cialtrone alla “pantera” della Bassa, a chi è l’amico inesistente di chi (o l’alter ego) alla catechista vulcano, è tutto un intrecciarsi di personalità e caratteristiche fisiche particolari, divertenti o disperate, immutabili o in divenire. Molte le figure femminili, quasi tutte interessate, in modo più o meno equilibrato, al protagonista Daniele “Zed” Zanetti, a dispetto della sua bassa autostima, della sua incapacità di portare avanti un discorso serio per più di qualche minuto, di un aspetto fisico poco aitante messo in risalto dal vezzo di vestirsi «come un barbone di Bucarest». Sarà facile ai lettori individuare il proprio preferito, pescarlo fuori come in una scatola di cioccolatini a seconda di quanto riesce a comunicare a ciascuno. Quello che ha “parlato” con me è il vecchio contadino Amedeo.

«Avete presente uno di quei vecchietti tutto nervi, con una scoliosi da falce e con le rughe sul volto profonde quanto un solco d’aratro nella terra secca?
(…) Con il suo sorriso sbilenco, la cicatrice, la pelle bruciata dal sole. Il cappello di paglia, la camicia a maniche corte, i pantaloni blu legati alla vita da una fune.»

Mi ha riportato alle persone che hanno popolato i giorni della mia infanzia passati in campagna, quelle di cui oggi resta solo l’involucro esterno, come il vecchio cappello di paglia con la marca sbiadita del mangime di turno, e quasi nulla di ciò che stava all’interno che valeva tanto quanto la terra grassa e marrone su cui vivevano. Amedeo poi incarna la virtù che più si è persa in questi tempi: parlare solo quando è necessario e solo quando si ha qualcosa che valga la pena sentire, conscio che certe situazioni, così come un tramonto o un vecchio albero nodoso, non hanno bisogno di inutili didascalie umane.

«Soprattutto considerato che la parsimonia dell’eloquio era compensata più che degnamente dalla potenza del contenuto. Anche se in realtà lui non avrebbe avuto bisogno di parlare. Comunicava già abbastanza con gli sguardi, con i gesti, con i silenzi.»
«Vedi quell’albero laggiù? mi chiese. Certo che lo vedo, gli risposi. Era un albero isolato, rigoglioso e imponente. Sembrava fosse contento di starsene lì senza rompicoglioni attorno.»

L’io narrante vive in una città, non abbastanza grande per essersi mangiata la campagna attorno ma non abbastanza piccola da aver rigettato come virus brutti monolocali discutibilmente arredati pagati come ville e gente-ratto pronta a rosicchiarti appena possibile.
Ma è qui in aperta pianura che si generano i pensieri più profondi di Zed, che trapassano il suo solito sarcasmo e cinismo per lasciarsi andare al ricordo, alla paura che abbiamo in tanti: che le cose che più ci sono care, i nostri pochi riferimenti solidi, cambino e si liquefacciano insieme a tutto il resto in un’incerta poltiglia.

«(…) mi accorgo che tutto è sempre più perfetto. La luce, i colori, i profumi. E anche noi. Anche noi siamo perfetti. Questione di pochi secondi, perché come una ghigliottina mi piomba di nuovo in testa la solita terribile domanda. Per quanto durerà tutto questo? Per quanto?»
«Quando avverto un cambiamento che riguarda le persone con le quali sono cresciuto, oppure i luoghi, i profumi dell’infanzia e quelle cose lì, mi si forma un magone in gola. Perché è un’altra certezza che se ne va, un baluardo che si sgretola.»

Si sorride parecchio in Wallak ma la gigionaggine di Zed è spesso una maschera che nasconde sostanza. «I concetti di libertà individuale, di rifiuto del potere costituito e di disobbedienza civile come forma di protesta, mi hanno sempre affascinato. Ma l’anarchia in questa società non può funzionare, soprattutto a causa dell’elevatissima percentuale di idioti da cui è composta.»
Qualche lungaggine poteva essere evitata ma gliela si concede perché è indice di amore per la scrittura, il desiderio di lasciar straripare le parole da dentro, come fa il Po di quando in quando fregandosene di argini e barriere. Ed effettivamente in Wallak la scrittura fa parte del coro come gli altri personaggi. La scrittura che non si riesce a leggere – cultura che trabocca dagli scaffali della libreria in cui lavora, un peso che incombe perché il protagonista sa che potrà avvalersene solo in minima parte, preso come tutti a destinare la quasi intera esistenza al lavoro – e quella che si cerca di creare, tra momenti di esaltazione creativa e di totale vuoto cerebrale. L’ispirazione che viene dagli scrittori che Zed ama e il desiderio di fare il lancio al piattello di quelli che detesta, fino alla commozione nello scoprire che un suo amico ce l’ha fatta a pubblicare un libro. C’è il romanzo giallo anni ’50 che prende forma dentro il romanzo di vita che a un certo punto assumerà anch’esso tinte gialle. C’è l’editrice Emma che impone le regole di mercato e Zed che vorrebbe percorrere nuove strade narrative. Dirò, qualche idea di Zed fossi stata io l’editrice gliel’avrei pubblicata.

«Ma come faccio a fidarmi di te se fino all’altro ieri mi hai proposto delle storie assurde, tipo quella del galeone spagnolo che parte da Valencia nel millequattrocento e sbarca a Ibiza nel duemilasedici, a ferragosto, mi fa. (…) tra i protagonisti che avevo pensato di inserire c’era anche Osvaldo Piume Dispari, il pappagallo senza becco, le dico. (…) E secondo te mi dovrei fidare di uno che scrive delle puttanate del genere? mi interrompe. Guarda che Osvaldo Piume Dispari avrebbe avuto una personalità piuttosto complessa (…)»
«Raccontava di un uomo che al calare dell’oscurità si trasformava in piccione.»

E Wallak? Wallak è quello che ti inchioda al dovere proprio quando hai voglia di sbracare, sclerale, svaccare e invece latita quando ne hai bisogno. Il petulante grillo parlante che ci perseguita da sempre.

Fabrizio Bolivar è al suo XXXX libro. Non sarò io a dire qual è il numero esatto. Come il Boghel del noir stile Chandler dentro la commedia stile Bolivar ho il mio segreto da mantenere, sino a tempo debito.

Nota personale. Mi sono ritrovata un milione di volte imbacuccata o seduta arrostita sul parapetto di un binario morto ad ascoltare la voce di servizio: ferma a Cremona, Piadena, Bozzolo e… un E marcato a spezzare quella litania impersonale, tenuto in sospeso…  e? Castellucchio. Mi sono sempre chiesta dove fosse Castellucchio, che faccia avesse Castellucchio. Ringrazio quindi Fabio Bolivar, autore della foto di copertina, per aver materializzato questa stazione ormai diventata un mito.

Fabrizio Bolivar
Wallak, la vita e altre seccature
In vendita su: https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/351016/wallak-la-vita-e-altre-seccature-2

Fermati, scrittore, e parlami di te

fabrizio bolivar

Ho già scritto di Fabrizio Bolivar in un mio precedente post, parlando però soprattutto del suo libro Sei a zero. Ma appartenendo egli all’eroica schiera degli scrittori part-time, volevo sapere di più. E non è una cosa facile, perché se arrivi nei loro momenti creativi sei una fonte di disturbo (e se sono part-time, mica gli puoi portare via una part del time), quando ne escono poi non si ricordano più cosa gli avevi chiesto – davvero mi hai chiesto un’intervista? – ma sembrano contenti. Non devi aspettare molto però, perché poi spariscono di nuovo, presi dalle parole, persi in una nuova avventura.  E adesso è qui, a questo tavolo da bar virtuale. Una Coca, acqua o un bicchiere di Lambrusco mantovano… mah, tanto è tutto virtuale, appunto.

E dunque, Fabrizio, chi sei e come ti sei trovato a scrivere libri?
«Lavoro in un’azienda che eroga servizi sul territorio. A Mantova. Un lavoro da impiegato spesso impegnativo, ma troppo spesso noioso e poco stimolante. Il tempo che mi rimane lo dedico al tennis, ai libri e ai film. Ho iniziato a scrivere una quindicina d’anni fa. Quasi per gioco, forse per noia. Ero a casa dal lavoro per qualche giorno, confinato nel mio appartamento dall’influenza. I programmi tv erano inguardabili e i libri a mia disposizione non un granché. Così ho iniziato a scrivere un racconto. La settimana successiva l’ho inviato ad alcuni amici, i quali l’hanno trovato divertente. Quindi ne ho scritti altri, e poi altri ancora».

Da dove trai spunto per scrivere le tue storie?
«Le mie storie prendono spunto più che altro dalla realtà. Ricordi e aneddoti che spesso non hanno nulla a che fare con la mia esperienza personale, ma che mi sono stati riferiti da amici o conoscenti. Anche i giornali sono un’ottima fonte di notizie. Quando noto qualche articolo strano cerco di archiviarlo in memoria per poi magari utilizzarlo se ne capiterà l’occasione (dice di farlo anche Andrea Camilleri, ndr). Invece il carattere e l’aspetto fisico dei personaggi arriva dall’osservazione diretta delle persone che incontro nella vita di tutti i giorni. Dell’autore alla fine rimangono solo alcune riflessioni, generalmente veicolate dal protagonista del romanzo o del racconto».

Quali emozioni ti porta la scrittura?
«La scrittura mi diverte. Molto. Forse la cosa è facilitata dal fatto che in genere tendo a descrivere situazioni comiche. Anche se spesso hanno un retrogusto amaro. È il genere di umorismo che preferisco. Spesso mentre scrivo mi ritrovo a ridere da solo. E poi mi chiedo, ma quello che fa ridere me, farà ridere anche gli altri? Certo che farà ridere anche gli altri, mi rispondo senza troppa convinzione. Se poi la pagina che sto scrivendo mi viene davvero bene, esattamente come volevo io, beh in quel caso mi sento soddisfatto. Invece quando scrivo e cancello, riscrivo e ricancello, giro e rigiro la frase, e poi alla fine mi alzo dalla scrivania e vado a vedere la tv, ecco, in questo caso l’emozione che vivo potrebbe essere sintetizzata con il termine frustrazione. Anche se incazzatura rende meglio l’idea».

Nel tuo libro Sei a zero citi John Fante e nell’intervista che ho trovato nel web nomini il suo A Ovest di Roma, un libro in cui sono incappata per caso e che anch’io ho amato moltissimo. Negli autori che ami di più, trovi una fonte di ispirazione?
«Grande John Fante, il mio scrittore preferito. Ti consiglio Full of life, grandissimo libro. Di John Fante ho letto tutto, anche le lettere. Di certo gli autori che amo sono una fonte di ispirazione. In qualche modo sono condizionato dal loro modo di scrivere, forse anche inconsciamente. Il risultato però devo ammettere che non è a livello dell’originale, altrimenti sarei un fenomeno…».

Secondo te gli e-book sono la grande possibilità per tutti di realizzare il sogno di vedersi pubblicato o proprio per questo è la fine di un’editoria di qualità?
«Tutti oggi possono autopubblicarsi e trasformare i propri testi in e-book. Oppure farsi pubblicare a pagamento. A mio avviso però la realizzazione di questo genere di sogni è di scarso valore, proprio per il fatto di essere alla portata di tutti. Fare un salto di qualità è difficile, ed è l’ambizione di molti, e ovviamente anche la mia. Mi piacerebbe ci fosse meritocrazia nel mondo dell’editoria. Mi piacerebbe che tutti partissero alla pari, che tutti i concorsi fossero imparziali e che non esistessero canali preferenziali per i soliti raccomandati. Insomma, un’utopia. Secondo me comunque la buona editoria non morirà, peccato che per alcuni talenti sarà inaccessibile. Perché tra le migliaia e migliaia di proposte qualche vero talento senz’altro c’è. Ma senza nessuno che arrivi a leggerlo e a valutarlo seriamente quel talento finirà per continuare a scrivere solo per se stesso e per pochi amici. L’unica possibilità per tutti coloro che se lo meriterebbero ma che non hanno modo di farsi notare, è la solita vecchia botta di culo. Almeno quella speriamo non abbia canali preferenziali!».

Venendo alla tua città, il terremoto del 2012 ha gravemente danneggiato i palazzi storici di Mantova e tutti abbiamo guardato inorriditi le crepe di Palazzo Tè con la sua straordinaria Sala dei giganti. Non si era però fermato uno dei suoi eventi di maggior successo, il Festivaletteratura, che esiste dal 1997, e quest’anno Mantova sarà Capitale della cultura. Come si sta preparando?
«Riguardo il terremoto, a parte qualche impalcatura ancora presente e la cupola di un campanile in via di sistemazione, la città si è ripresa. A Mantova gli eventi culturali non mancano. È una città ricca di storia e iniziative. Prima fra tutte, appunto, il Festivaletteratura. Quest’anno di certo la città sarà ancora più viva. Il Comune si sta preparando e credo proprio non deluderà le aspettative».

Non solo Mantova città, però. Il 31 gennaio si è chiusa la X edizione del NebbiaGialla Suzzara Noir Festival, un’altra manifestazione culturale dedicata alla lettura e alla scrittura.
«Suzzara in giallo è un’iniziativa dello scrittore Paolo Roversi. L’ho conosciuto anni fa, e ho letto anche un paio dei suoi libri. Ma il festival non lo conosco».

Per ringraziarti di esserti fermato qui, vorrei augurarti (si possono fare gli auguri a uno scrittore?) di ritrovarti presto con un’altra tua creatura di carta. C’è già qualcosa che bolle in pentola?
«Gli auguri ad uno scrittore sono assolutamente d’obbligo, soprattutto per coloro che come me non sono per niente superstiziosi. Quindi grazie molte. Sto scrivendo un nuovo romanzo. Sarà un romanzo un po’ strano. A mio giudizio però l’idea di base è molto interessante. Posso solo aggiungere che mi devo documentare parecchio. Quindi è un progetto che richiederà molto tempo, del resto me lo posso permettere, visto che non ho nessun editore alle calcagna… Magari ce l’avessi… il romanzo sarebbe finito, rivisto e corretto per mercoledì prossimo!».

Bibliografia di Fabrizio Bolivar
Maledetta Vita, raccolta di racconti, 2004, Fara Editore di Rimini
480 caratteri spazi inclusi, raccolta di racconti brevi, 2006, Compagnia dei Librai di Genova
Autopubblicati con ilmiolibro
Ti lascio le pentole, romanzo, 2011
Vaccaboia che idea, raccolta di racconti, 2012
Microstorie, raccolta di racconti brevi, 2012
Sei a zero, romanzo, 2015

“Sei a zero”, vita o partita?

bolivarAlzi la mano chi non è stato tentato, da che esiste Internet, di cercare qualche vecchia gloria del passato. Non parlo di mettersi alla caccia di persone tramite FB, che poi mi sono sempre detta: se uno voleva restare in contatto lo faceva, se ci siamo reciprocamente volatilizzati negli anni si vede che non eravamo reciprocamente tanto interessati, quindi che senso ha darsi da fare dopo decenni? Parlo invece di luoghi che sono stati importanti, che ci hanno visto protagonisti aggregati.
Non alzo la mano, perché io l’ho fatto. In un paese da nulla esisteva una discoteca che portava il ridondante nome di Kiss Kolossal Music Center. E ridondante lo era davvero, perché quello era il periodo d’oro per le discoteche. Io ci ho passato gli anni più felici, di quella felicità oserei dire esagerata, che non torna manco a cercarla col lanternino. Non bevevo, non mi calavo, non sniffavo, semplicemente ballavo e con le amiche giravo torno torno per vedere che si diceva sul versante maschile. Così una volta mi son messa lì e ho cercato, come quelli che lanciano messaggi via radio agli alieni per vedere se dall’universo giunge qualcosa. E bang, Google risponde: “il tuo Kiss sta qua dentro, citato in un libro”. Non mi pare possibile ma così è. Qualcun altro è stato tanto ammaliato da “immortalarlo” in libro:  Maledetta vita – Cinquanta Fabrizio Bolivar, Carmelo Calabrò (Fara Editore). Non so se si chiama Bolivar perché è di origine sudamericana o spagnola, mi sono dimenticata di chiederglielo. Però è di Mantova, o della provincia di Mantova, anche questo mi sono dimenticata di chiedere. Non ha molta importanza, se uno ha tirato notte al Kiss Kolossal Music Center fa comunque parte del tuo mondo.
Qualche mail e molti mesi dopo mi informa di aver pubblicato un libro, e simpaticamente me ne fa omaggio. Il titolo mi piace perché è un enigma, potrebbe essere il risultato di una partita così come la frase di una persona gentile che ti fa capire che sei arrivato a toccare il fondo: Sei a zero.
Sorrido già alla prima riga: «Se c’è una cosa che non sopporto, è la prefazione. (…) È come se il prefatore, mamma mia che orribile termine, volesse a tutti i costi svelarti la trama del romanzo che stai per leggere. E come se non bastasse, usa pure un tono altezzoso.» Anch’io non mi sono mai particolarmente applicata a leggere le prefazioni, un po’ perché il prefatore talvolta è abbastanza stolto da rivelarti passaggi fondamentali del romanzo, un po’ perché è vero che spesso stillano spocchia. E credo di aver smesso definitivamente di leggerle quando un cretinetto ha bistrattato l’intera opera di Oscar Wilde e descritto lui personalmente con un moralismo rivoltante. Mi ero chiesta perché mai avesse accettato di fare la prefazione del libro, visto che lo odiava così tanto. Per soldi, e che altro? Vado avanti nella lettura e scopro che il genere non è tra i miei prediletti: vita quotidiana. Ma questa è una questione personale, perché io nei libri cerco proprio ciò che porta fuori dalla vita quotidiana, e poi è davvero difficile saperne parlare a meno che non ti chiami Thomas Mann o qualcosa del genere. Ma si sorride in questo libro, con i gruppi immaginari di auto-aiuto per questa o quella cosa, le squinternate amicizie di vecchia data, l’incontenibile madre e il disperato padre. Qua e là nelle pagine trovo parecchio di me, e forse è questo il segreto del parlar di vita quotidiana.
Il Müller-Thurgau, un’incredibile coincidenza per una quasi astemia, l’insofferenza per i multisala e i «Luoghi ad alta densità umana» come i centri commerciali, l’autore John Fante («Eccezionale».). Sghignazzo all’ammissione di non avere un profilo FB: «Poi le tre ragazze si lanciano un’occhiata tra loro, questione di un frazione di secondo (…) Ma dove vive? Come si fa a non essere iscritti a Facebook nel 2013? E da quella frazione di secondo inizio finalmente a sentirmi a mio agio.» Plaudo decisamente alla descrizione politicamente scorretta degli insopportabili bambini e dei loro imbarazzanti genitori (finalmente qualcuno ha il coraggio di dire certe cose!), e rido forte, e tra l’altro a scoppio ritardato, per il Bar Zelletta («Sono il proprietario e mi chiamo Gianni Zelletta, secondo voi come dovevo chiamare il locale?») e parimenti mi indigno per chi non conosce il film: «Frankenstein Junior, ricordi? Non l’ho mai visto, risponde. Com’è possibile?»
Ma c’è spazio anche, o soprattutto, per la riflessione: il percorso lungo, stentato ma inarrestabile che porta Andrea Camatti verso la presa di coscienza dell’unica cosa che può portare alla felicità. Tant’è che nel finale, un po’ brusco in verità, lo si invidia.
Non stupitevi se leggendo Sei a zero vi sembrerà di accarezzare qualcosa di morbido o di avere l’impressione di due occhi che vi guardano per poi chiudersi non appena alzate la testa: è Zeus, il gatto nero con gli occhi gialli, manifestamente indifferente e sdegnoso come quasi tutti i gatti eppure presenza importante nel libro e nella vita del protagonista.

Una recensione al libro di Fabrizio Bolivar è sul sito Altra Mantova libera informazione.