Ma prima… Ravenna
Ravenna è Patrimonio dell’umanità per la sua arte del mosaico. Ed è effettivamente un tripudio di mosaici (tanto da farci anche qualcosa di simile).
Mi sembra giusto aggiungere che è anche una città intelligente: centro storico pedonalizzato, indicazione dei monumenti ovunque, piste ciclabili che conducono fuori città.
Parto dal sito un po’ più defilato rispetto alle basiliche e chiese più note, la Domus dei Tappeti di pietra, ospitata all’interno della chiesa di Santa Eufemia: quattordici ambienti mosaicati di una casa privata bizantina del V-VI secolo scoperti per caso durante alcuni lavori.
Proseguo con il sito che accoglie la Basilica di San Vitale e il Mausoleo di Galla Placidia.
La basilica è splendida ma il mausoleo è qualcosa di unico. Gode di quella particolare condizione che contraddistingue anche, ad esempio, la Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova e la Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova: con tanta bellezza racchiusa in uno spazio limitato si prova la sensazione stordente di trovarsi dentro all’opera.
Altri due capolavori sono il Battistero Neoniano
Anche il Battistero Neoniano fa parte di un sito ad “alta concentrazione d’arte”: vicinissimi la Cappella di Sant’Andrea e il Museo Arcivescovile che la ospita («non si possono fare foto», mette le mani avanti il giovane guardiano e io obbedisco) e il Duomo. Sebbene basilica metropolitana e di un certo pregio, quasi sparisce a confronto delle altre chiese.
Ma Ravenna è famosa anche per accogliere i resti mortali di Dante Alighieri. Ricorrendo poi il 750mo anniversario della sua morte, la città si prepara a vari eventi. Tra i quali quello poco culturale ma pur sempre indispensabile nel quale sono incorsa io: le grandi pulizie. La tomba è occupata all’interno da una signora col mocio che lava il pavimento e da un signore arrampicato sulla scala che si occupa dell’esterno. Decido quindi di tornare un’altra volta, anche perché, ennesimo sito, ne vale la pena: chiesa di San Francesco, tomba di Dante e chiostri francescani tutto insieme.
E a proposito… si è avverato un sogno?
Nel mio primo pomeriggio a Ravenna il vagabondare senza meta mi porta alla splendida chiesa di Santa Maria in Porto,
all’edificio del VI-VII secolo di San Salvatore Ad Calchi
a Sant’Apollinare Nuovo, dove tornerò perché, anche qui,
i mosaici valgono veramente la visita.
È tempo però di lasciare il sicuro centro storico e di volgere le scarpe verso Sant’Apollinare in Classe: Classe è una frazione e sta appunto fuori. I dintorni di Ravenna sono la pianura più sparata e tra campi e il quasi nulla sorge la basilica.
Su consiglio dell’albergatore, decido di unire la visita a Sant’Apollinare all’Antico Porto di Classe. Già, perché Ravenna in epoca romana era un importantissimo porto, i sedimenti in seguito l’hanno fatta arretrare di circa 9 chilometri dal mare. Anche l’autista un po’ distratto fa arretrare me di circa 4 chilometri, ma questa non è Storia.
Oltre alla rovine, qui mi trovo al cospetto di questo strano animaletto mai visto prima. Lancio un appello perché qualcuno mi illumini sul suo nome.
Ci sono luoghi, come questo antico porto, il cui valore storico è incalcolabile ma si potrebbe restare un po’ delusi da quello estetico. È il caso anche del Mausoleo di Teodorico.
Però le persone che magari incontri per arrivarci o i luoghi on the way ne valgono la pena.
Sicuramente è valsa la pena scambiare ogni sera quattro chiacchiere con il receptionist che mi ha invitato a tornare per il 2019, quando aprirà il Museo Byron. Avevo visto una targa che ricordava di un suo periodo trascorso a Ravenna ma non conoscevo la storia di amore e rivoluzione che mi è stata raccontata.
Il sole se n’è quasi andato, sto salutando Ravenna, domani sarà altro. Gli ultimi passi mi portano davanti a una targa. “Devastante follia”… me ne resto lì un po’ a pensare, a questi tempi bui, a queste parole che, purtroppo, sembrano drammaticamente non essersi chiuse per sempre nel 1945.
Non ho deciso io questa meta, è stata lei a chiamare me. Perché un padano prima o poi deve andare a vedere dove tutto comincia ma non vuole ritrovarsi tra corna celtiche e ampolle e allora va dove tutto si trasforma? Forse. O perché è un luogo naturalistico? Molto più probabile. Comunque fuori dalla città e dentro la natura, che è poi la cosa che mi rende più felice. Porto Garibaldi, Garibaldi, Anita e la sua triste fine tra le paludi.
E quindi via, a caccia delle motonavi. La Dalì risponde all’appello e la prima gita si fa alle Valli di Comacchio. Tra saline, barconi, capanni, reti, allevamenti di vongole e cozze, aironi cinerini, cavalieri d’Italia, garze, garzette, avvistamento di fenicotteri rosa (mica tanto rosa a dir la verità), la nave scivola via in un paesaggio insolito e affascinante. Sottofondo musicale, per fortuna molto discreto, rigorosamente romagnolo. Il capitano Nicola narra storie di uomini e acqua. Mi resta in mente Valle Fattibello, perché lì i pescatori potevano lavarsi e tagliarsi i capelli. All’ora dell’“happy hour” Calid (mica tanto romagnolo) serve un allegro fritto misto.
Il giorno dopo è Po di Goro, Po di Gnocca (sic), Sacca degli Scardovari, con tappa a terra all’Isola dell’Amore.
Qui lo sbalzo termico tra il vento marino e l’afa della zona paludosa per un attimo piega le gambe. È un paesaggio strano, quasi non sembra appartenere alla Terra se non fosse per una macchina da lavoro che in lontananza sbuffa fumo scuro. In ogni caso lì senti la trasformazione, il fiume diventa mare, il mare si insinua nel fiume.
Nessuno dei gitanti ritarda di un secondo la risalita: nel nulla monta l’ansia da abbandono.
Un moncone sorgente dall’acqua parla di qualcosa di strano.
Siamo nel ramo di Goro, l’immensa distesa di acqua non era lì, fino agli Sessanta, era dentro il suo corso finché l’alluvione non l’ha portata fuori sommergendo paesi e campagne, quel pezzo di edificio è l’unica cosa rimasta.
La Dalì si incunea poi tra le canne e si ferma, è ora di pranzo.
Calid mi assegna il posto accanto a una famiglia di romeni, la ragazza è attratta dal mio andare in solitaria e parla con me, parla di Transilvania e Dracula. Oh, Transilvania, prima o poi mi piacerebbe venirci, dico. Scrivimi, risponde, e ti do tutte le informazioni che vuoi. Tata, papà in romeno, apprendo.
Dopo pranzo l’allegria è ancora più accesa. Dalla signora milanese che una volta all’anno molla la famiglia per tagliarsi un viaggio su misura a quella di Almese, in Piemonte, il paese di Luca Mercalli. Davvero? dico, ma è uno dei miei miti! Sarà il la per trascinarmi in un discorso sulla Val di Susa, i laghi di Avigliana, il riciclo, l’orto biologico e così via. Il marito torinese intenditore dei segni esoterici sparsi per la città la richiama al dovere di mamma. Ma poi torna e con incredibile memoria riprende: dunque, stavamo dicendo. All’arrivo è tutto uno scambiarsi di saluti e sento qualcuno, lì sul molo, che dice: devono proprio essersi divertiti.
Nel mezzo delle due gite c’è Comacchio, la piccola Venezia, paese delle anguille (carissime!), di Trepponti
e anche di cose imbarazzanti come le anatre finte, che io ovviamente ho capito essere finte solo dopo essermi lasciata andare ad imbarazzanti tentativi di approccio.
Mi dirigo nel centro e decido di non seguire la rotta indicata, non subito. La strada mi porterà a curiosità…
ci saranno stati delle sedute consiliari in merito? E non vorremo mica celebrare la lana in un paese di pesca?
e come se non bastassero gli sms che irrompono da lontano nel mio cellulare mettendomi in guardia sugli uomini-pesce di Lovecraft…
e a un piccolo gioiello. La facciata diroccata, unica cosa rimasta, del monastero dei Santi Mauro e Agostino. Gli alberi l’hanno ormai dominata e il sole passa attraverso a quelle che erano le finestre.
E poi c’è il mare di Porto Garibaldi. L’Adriatico non mi ha mai emozionato. Non blu intenso, niente scogli contro cui impazzare, troppo fermo, per nulla selvaggio. Ma comunque è mare e la distesa di sabbia, ormai semivuota nel primo autunno, è bella. Me ne sto lì a guardarla con in testa tutto l’armamentario di canzoni che celebrano il mare.
It’s a long long way to Ferrara
Il mio viaggio avrebbe dovuto proseguire verso Ferrara e Bologna ma il maltempo mi ferma. Vittima dell’italica inefficienza dei mezzi di trasporto e della mia dabbenaggine, in assenza del pullman ufficiale mi ritroverò trasportata di pulmino in pulmino, sotto una pioggia scrosciante, in piena pianura, e a chi la conosce la pianura fa paura perché sa che non c’è niente di più isolato. Quando piove, poi, nemmeno un trattore su cui contare. Temo da un momento all’altro che l’autista mi lasci sul ciglio di un fosso ma la prima meta arriva. È la stazione di Codigoro. Niente orari, niente bagno, nessun personale di servizio, solo un ragazzo di incerta nazionalità che prima mi dice che non parla italiano e poi, come a cercare conforto nell’unica forma umana esistente in quel momento, mi chiede se parlo inglese. Io invece mi chiedo che cosa ci faccia uno straniero lì. Una specie di littorina arriva come un raggio di sole a darci speranza. La parola Ferrara sembra quasi agire da phon sul nostro fradiciume. In un vagone di quarta classe mi domando perché non sono più attenta e perché ogni tanto devo ritrovarmi in queste situazioni.
Perché se no quando mai avresti saputo che esiste Codigoro?, mi rispondo. Un gruppetto di galline lungo i binari accende la mia curiosità. Siamo prossimi alla stazione di Massafiscaglia. Hai mai visto delle galline da stazione? No. Hai mai sentito nominare Massafiscaglia? No. Ecco, è per questo che a volte deragli.
A Ferrara non posso farne a meno: con immensa dignità appoggio la valigia per terra, ne estraggo un paio di calze asciutte e cambio le scarpe da tennis con i sandali. Non che l’opera di disprezzo verso me stessa cessi: ti cambi in stazione come una barbona e vai in giro coi sandali con le calze come una tedesca. Va bene, ok, me ne torno a Milano. E Bologna? A Bologna c’è un po’ di sole ma si vede che non durerà. Non ci provare! Ok, dopo “solo” nove mezzi di trasporto sarà casa.
Non ci crederai, ma provo “il piacere della scoperta” più con te che con Alberto Angela (che mi sta completamente sul ca##o anche solo a vederlo in faccia).
“Via Beatrice Alighieri” è una vera chicca! — credo però che fosse la figlia, pure suora.
L’animaletto dovrebbe essere una lepisma, insetto destinato all’estinzione perché… si nutre della colla della rilegatura dei libri! a meno che non si evolva in smartpism o iLepism.
Ehi, grazie! Anch’io non lo sopporto, con quella nenia che sembra sempre parlare a bambini di sei anni.
Beatrice, mi sembra di aver visto in giro per Ravenna qualche targa, forse era una signora del luogo, ma non ricordo, per cui potresti avere ragione tu. E però come l’avrà presa sua moglie se ha chiamato la figlia Beatrice?!
L’animaletto: ho cercato in internet ma pare che quello che dici tu abbia le cornine, questo no. E poi qui niente libri. C’è dell’acqua ferma melmosa, tant’è che avevo pensato a piccole sanguisughe, ma dal colore non direi. Ho fatto anche un video, se ne corrono via come delle lippe 🙂
>Anch’io non lo sopporto
[Lo scrivo tra parentesi quadre per ragioni di privacy: secondo me, è un raccomandato… shhh…]
L’animaletto, a causa della definizione della foto non si capiva se era cornuto o no. Mi ero fatto un’idea pregiudiziale delle lepisme.
La moglie di Dante… ci sarà un motivo se NON lo ha seguito a Ravenna! (e sì che a Firenze le avevano confiscato tutti i beni o quasi)
Raccomandato?! Ma daiii….
I pregiudizi sono duri a morire…
Se ne sarà liberata, due palle, avrà detto, sempre lì a scrivere nel mezzo del cammin dove devo lavare i pavimenti. E mai una volta che mi porti fuori a cena.
Che dire? Tutti sulla Dalì… che sicuramente prima o poi di là ci passerà anche il mio grande idolo Alberto Angela!
Sì, ci devi proprio andare!
nel qual caso, Carlo, attento alla caduta degli idoli 😀