I fiori vittime di Blanco o Blanco vittima dei tempi?

Blanco ha fatto un danno economico rilevante al palco di Sanremo, forse ha fatto anche un danno a se stesso. Ha fatto la figura del ragazzetto isterico, del mancato rocker, non essendo evidentemente né un rocker né all’altezza di coloro che hanno spaccato strumenti e quant’altro prima di lui. Ragazzetto carino e forse migliore di altri nel panorama della musica odierna ma privo delle capacità e del fascino che facevano parte dello spettacolo dello sfasciare.

Eppure non riesco a calare la mannaia del dissenso su di lui. Più che un bello e dannato ho visto un bimbetto perso nel panico, anzi, nell’horror vacui dovuto all’assenza di tecnologia. Vecchi e rodati cantanti come Morandi o Ranieri sarebbero andati avanti lo stesso, magari solo un breve cenno al tecnico dell’audio, perché nati come cantanti in un’epoca in cui potevi contare solo sulle tue capacità. Nessun computer ad agevolarti o correggerti le stonature, a distorcere la voce così che pure le stecche passano per arte.

Ma questo horror vacui non l’abbiamo già provato tutti quando il computer non funziona, la linea è assente, hai dimenticato lo smartphone a casa, oddio adesso come faccio a fare 200 metri senza, e se mi capita qualcosa e se qualcuno mi cerca? Immagino poi chi ha quella roba che accende e spegne le luci vagare per casa in cerca dell’interruttore quando quella si rompe perché non si ricordano neanche più come è fatta casa loro.

Insomma, per un attimo io ho visto in Blanco il nostro futuro di amebe incapaci di sopravvivere all’assenza di tecnologia e incapaci di gestirne l’assenza senza dare di matto. Altro che non saper accendere un fuoco (lo canta anche “il Boss”: you can’t start a fire without a spark), non riusciremo neanche a farci un panino.

Una band italiana tra le misteriose nebbie di Dublino

Jimmy Page ha una chitarra doppia. Sbruffone. Eric Clapton infila la sigaretta tra le corde della chitarra, disgraziato!, io la mia chitarra che imbraccio e abbraccio, che mi porto sempre in giro come una parte di me, non rischierei di farla finire in cenere. Jeff Beck è Jeff Beck. Anche Joe Cocker è Joe Cocker: braccia in avanti, mani verso il basso, dondolio scimmiesco. E la voce che ti entra dentro non in uno squarcio ma come un’entità invisibile, voce da possessione.
– Lo sto leggendo.
– Ah, ok. Come ti sembra?
– Bello, ma continui a mettere le virgole a c#@#
Ride.

Un attacco un po’ delirante questo post, che mischia mie visioni e riflessioni con conversazioni reali. C’è anche l’entità. È in fondo quello che accade tutti i giorni: i voli della nostra mente che entrano nel concreto, o viceversa. Musica mentre di Carlo Crescitelli è un po’ questo amalgama di strade vere battute con scarpe vere ma dove i passi che risuonano non sono i tuoi, ed è inutile che ti giri a guardare, tanto non vedrai nessuno; di note udibili che escono da strumenti musicali amati e strapazzati e conversazioni udibili solo telepaticamente. E l’entità è il Caos, quello che spariglia le carte a cui inutilmente cerchiamo di dare un ordine, che però ha il nome di una persona vera che col caos della sua mente ha segnato un pezzo della storia della musica rock.

Tra fumo che sa di erba e fumi di nebbia emerge Dublino, che possiamo vedere anche se non la conosciamo, guidati tra ponti sul fiume Liffey ed edifici fatiscenti venduti al prezzo di regge, tra il cibo che abbiamo conosciuto in qualche altra parte del Regno Unito ma che muove gli stessi sentimenti: o te ne ritrai o è talmente buonissimamente malsano da farci un’abbuffata come moto di ribellione.

In questa «Dublino segreta» arrivano quattro musicisti che si tengono insieme come i passati che hanno vissuto, cioè non si tengono insieme, stanno insieme e basta perché sono una band. È il futuro che li aspetta dietro l’angolo che li tiene insieme, e devono per forza sorreggersi l’un l’altro perché la missione è ardua: esibirsi al posto dei Genesis.

Quattro scappati di casa (tre uomini e una donna) diversi in tutto, che neanche si ricordano i loro nomi, che devono arrivare alla sera del loro destino. E noi con loro, tra monologhi, riflessioni («…noi, noi non eravamo né abbastanza grandi da essere hippies come loro, né abbastanza piccoli da essere loro figli.»), conversazioni mute, racconti che emergono dal passato, sbronze, fumate, suoni, in un alternarsi di umorismo («… si era messo in fila in piazza per leccare il dorso di un rospo allucinogeno. Ma quando finalmente arrivò il suo turno, i rospi erano finiti, e così se n’era andato in giro a leccarsi, con poca soddisfazione, il primo rospo comune che era riuscito a recuperare in giro. E naturalmente si era sentito di merda…») e tristezza, di scrittura alta e di concessioni al volgare. Con la magia che incombe, quella a cui riusciamo a dare un nome e quindi fa un po’ meno paura, come un bastone da anziano trasformato in uno scettro da stregone o una cartomante di strada, e quella che invece ci spaventa perché invisibile, incontrollabile.

Il “mentre” del titolo è ciò che accadeva mentre la pandemia imperversava e poi dopo, i tentativi di riprendere quanto era stato interrotto.
Mesi in cui siamo dapprima rimasti immobili, atterriti, e poi immobilizzati dallo stato di paura prolungata, la porta era aperta, il sole filtrava ma non osavamo ancora. E poi siamo usciti, ciechi come delle talpe, a esplorare a tentoni il nuovo mondo. Mentre tutti facevamo del nostro meglio per riequilibrarci, Carlo Crescitelli scriveva questo libro che riannoda i progetti spezzati con vecchie passioni.
È un testo molto teatrale in cui le virgole sopra citate sono solo frutto della mia pedanteria. E probabilmente non è solo un’opinione personale visto che alla fine del libro possiamo dilettarci con la lista dei luoghi e degli oufit e con le citazioni musicali che compongono una colonna sonora di tutto rispetto.

Carlo Crescitelli,
Musica mentre. Favola rock a Dublino
pp. 270, in vendita su Amazon

Torino regale e illuminata

Torino, come Milano, per troppi anni è stata vista come una città solo di industria e affari. Ma, considerando soprattutto la gran quantità di persone che l’affollavano tra dicembre e gennaio, sembra stia recuperando il tempo perso per rivelarsi al viaggiatore in tutto il suo splendore.

Quando si passeggia quasi senza meta (o con la meta fissa in testa di dolci e cioccolato), la bellezza dell’antico erompe dai negozi e dai locali rimasti intatti con i loro stucchi, lampadari di cristallo e vecchie insegne ridondanti e dalle eleganti gallerie. La storia la fanno i regal nomi delle vie, principesse, madame e re, e i monumenti.

Ma le mete ci sono, sono tante, abbastanza da dover fare delle scelte. I musei ti trattengono nelle loro meraviglie e all’uscita, all’imbrunire, le luci della città si accendono.

I Musei Reali Torino sono tra i complessi più grandi che abbia mai visitato. Comprende Palazzo reale, Armeria reale, Galleria sabauda, Cappella della Sindone, Museo di antichità, Biblioteca reale, Giardini reali (ad accesso libero).

Una visita di almeno tre ore, pur tralasciando alcune parti solo per stanchezza fisica, o forse più, perché il senso dello scorrere del tempo si perde tra stucchi, ori, mobili, affreschi, quadri. Imperdibile l’Armeria reale, già dalla soglia un colpo d’occhio impressionante.

Ricchissima la collezione di armature e armi.

Tre riflessioni:
1) Gli uomini che indossavano quelle armature avevano il corpo come quello dei bambini dei nostri giorni.

2) Riesco a innamorarmi anche di un cavallo finto.


3) Questa armatura apparteneva a un antenato con lo stesso nome di quello che oggi va in tv a ballare sotto le stelle… ma pur sempre meglio ballare che fare la guerra.La grande sorpresa di questo museo è stata scoprire l’esistenza di un’altra Venere di Botticelli, che fa parte della Collezione Gualino, davvero notevole per numero e valore delle opere.

Ecce homo, Guercino; Casolari, Gaspard de Witte; Gesù benedicente, Bartolomeo Cincani detto Montagna.

In questo museo si può andare senza prenotazione (contrariamente al Museo Egizio) e senza dover fare un’estenuante coda se non si è prenotato (contrariamente al Museo del cinema), e questo è un punto a suo favore.

Essendo un’amante di storia del cinema, avevo riposto molte aspettative sul Museo nazionale del cinema. Come tutti i musei, ha i suoi picchi di bellezza, in primis la vista della Mole Antonelliana dall’interno, in alcuni oggetti come le lanterne magiche o la sceneggiatura di Psycho, ma nell’insieme è abbastanza deludente. Sicuramente da bocciare l’ora di coda che avrei dovuto replicare all’uscita per prendere l’ascensore per salire sulla cima della Mole, che comunque non aveva più posti liberi.

Il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso è un luogo di riflessione. Tra teschi, strumenti di misurazione, armi del delitto, scheletri di detenuti e scheletro del Lombroso, donato per sua stessa volontà, si legge il cammino della scienza fatto di scoperte, fallimenti e teorie strampalate se non addirittura pericolose. Ad esempio, Lombroso non si è fatto scrupolo di condurre esperimenti per dimostrare a tutti i costi che la pellagra fosse dovuta alla muffa del grano, ma quella che davvero mi è sembrata strampalata è la teoria dell’atavismo. Cesare Lombroso era però un uomo attento al prossimo e, da rimarcare vista l’epoca, alle donne. Gli studi aprono comunque strade nuove e sono fatti da esseri umani, con tutto ciò che questo comporta. Singolare il fatto che a un certo punto della sua vita fatta di scienza, evidenze e ragionamenti ceda allo spiritismo dopo l’incontro con la medium Eusapia Palladino (o anche Paladino).

Il piagnucolio dei falsi divi

Ho rivisto The Great Pretender, il documentario sulla vita di Freddie Mercury. Capire perché certe persone sembrano esseri superiori è impossibile. Non basta esseri bravi. Certe persone vanno oltre la bravura intesa come capacità artistica. Non mi produrrò in ciò che non conosco: non so cantare, non so suonare, non so ballare. Però sono cresciuta quando la musica ha iniziato a essere legata all’immagine. Non c’era più solo la canzone ma c’era anche il video. Quindi qualche diritto di conoscenza in questo senso me lo arrogo, non fosse altro perché il mio all’epoca giovane cervello si è sviluppato sul binomio musica-video.

Freddie Mercury era ridondante, esagerato, se lo poteva permettere. Ma in quegli anni tutto era esagerato e noi non avevamo nulla da obiettare: che tutti gli occhi fossero bistrati, che un uomo si vestisse da donna o viceversa, che ci fossero colori, lustrini, tutine accanto a vestimenti più sobri per noi era la norma. Pare strano, ma io ho la sensazione che fossimo più liberi noi da sovrastrutture mentali di quanto lo siano adesso nel mondo del politically correct. Le critiche dei critici c’erano, spesso feroci e fuori luogo, ma a noi non ce ne fregava niente. E neanche a Freddie Mercury a quanto pare visto i suoi tanti me ne frego, non si può piacere a tutti, io faccio quello che voglio. Perché era un divo. Il divo galleggia sulla folla, vicino ma senza mischiarsi, il divo fa quello che vuole e in questo modo apre la strada agli altri.

In questo mondo di oggi gli artisti piagnucolano ad ogni critica, pontificano, cercano consensi postando foto compulsivamente, se qualcuno non acconsente attacca la tiritera del body shaming o simili. Aizzano la cretineria delle persone e poi vanno avanti mesi ad ammorbare su quanto si siano offesi. Non galleggiano sulla folla, essa e loro si alimentano a vicenda delle medesime idiozie. In sintesi, non sono divi. Rimpiango i tempi del “me ne frego, io faccio quello che voglio”, che si riferisse a una scelta artistica, di immagine o di vita. Era la massima espressione di libertà: non pretendo di cambiare te, il tuo pensiero, sono io che me ne frego. I divi non si lagnano. Ma certo, neanche farfugliano lagne nel microfono.

Seguire un blocco di marmo e scoprire un pezzo di Milano

Milano è la città di mode e moda, spesso dell’esibizionismo di dubbio gusto, della movida che si spegne solo ad alba fatta. Eppure non ha mai smesso di offrire a chi lo sa cogliere il suo volto fatto di arte e spiritualità. Una delle zone che forse più incarna il contrasto tra la sua immagine rutilante e questo suo volto composto di pietre e storia sono i Navigli. Percorrerli in lentezza, prestando attenzione anche ai dettagli più piccoli, come un muretto che reca ancora i segni di sfregamento delle “alzaie”, è un viaggio dentro i secoli. O magari anche dentro di noi, silenzioso come l’acqua di quella parte di Navigli che scorre ormai nel sottosuolo. Silenzioso finché i pensieri non arrivano in superficie e prendono la forma di un racconto di fantasia, dove però il contesto è quello reale.

Viaggio curioso di San Francesco sui navigli di Milano di Francesco Mezzotera è una guida turistica in curiosa forma di romanzo per chi vuole approfondire i luoghi e la storia del tragitto acqueo che univa gli estremi della città al centro di Milano. È il viaggio immaginario di un blocco di marmo, una materia grezza che però è già stata battezzata col nome di ciò che sarà: San Francesco, perché il masso diventerà la statua del santo di Assisi che svetta sulle guglie del Duomo.

Francesco Mezzotera, appassionato studioso di storia dell’arte, in particolar modo quella milanese, coinvolgente relatore di conferenze e incontri, creatore del blog Milanocuriosa, dice in copertina: «Navigheremo sui navigli […]. Visiteremo monumenti famosi in tutto il mondo, ma anche luoghi curiosi e sconosciuti ai più. Incontreremo persone e personaggi, impareremo tradizioni e storie di una città ricca di meraviglie […]».

E a proposito delle alzaie a cui ho accennato: «Non tutte le strade di Milano riportano il nome “via“. Se ci rechiamo sui Navigli ad esempio la sponda di sinistra (guardando la Darsena) prende il nome di Alzaia, mentre quella destra di Ripa. Ma da dove deriva il nome Alzaia? Anticamente le imbarcazioni che tornavano al proprio punto di partenza dovevano percorrere il Naviglio Grande lungo la sponda di sinistra. Tuttavia questo significava andare contro corrente, e per poterlo fare, c’era bisogno di legare i barconi a cavalli o somari con delle grosse corde chiamate appunto “alzaia”. Lo sfregamento di queste gomene contro i muretti di contenimento hanno lasciato segni indelebili che tutt’oggi si possono vedere a due passi dalla Darsena.»

Il volume è impreziosito da una serie di fotografie, molte delle quali dell’autore stesso.

Il libro è in vendita su Amazon, Feltrinelli, Mondadori, Hoepli, Ibs. A Milano potete trovarlo presso la Libreria Bocca in Galleria Vittorio Emanuele e la Libreria Verso, Ripa di Porta Ticinese 40.

Viaggio curioso di San Francesco sui navigli di Milano
di Francesco Mezzotera
Editore Il Rio (Mantova)
pp. 224, illustrato