Tecniche del cinema à rebours

Dietro al cinema c’è il doppiaggio, prima del doppiaggio c’è la traduzione, e fra traduzione e doppiaggio cosa c’è? Come in un gioco di scatole cinesi troviamo un altro lavoro, altre persone, che in una stanza illuminata solo dalla luce fioca di uno schermo lavorano tra carta e pixel, ancora più nell’ombra dei doppiatori. Tagliano, allungano, cuciono, finché il nostro italiano non si adatta perfettamente ai ritmi dettati dalla lingua e dal genere del film. Si chiamano adattatori di copioni o dialoghisti, e uno di questi “uomini nell’ombra” si è fatto strada fino a qui. Marchitiello, il suo nome è Marco Marchitiello.

In cosa consiste il tuo lavoro?
«Nell’adattare il testo, il copione dei dialoghi di un film, telefilm, cartone animato precedentemente tradotti in italiano».

Perché è necessario l’adattamento?
«Perché ci sono delle differenze strutturali da lingua a lingua, quindi la sola traduzione del dialogo originale degli attori non è sufficiente. Ad esempio, l’inglese è spesso più conciso, con i suoi phrasal verbs crea molti problemi, così come, invece, ci sono lingue più prolisse della nostra nell’espressione di uno stesso concetto. C’è quindi la necessità di allungare o accorciare le frasi o le singole parole. Ma non è soltanto questo».

Come si interviene, in concreto, per risolvere questi problemi?
«Fondamentalmente bisogna trovare la piena coincidenza tra il copione originale, la traduzione e ciò che scorre sullo schermo: i tempi di entrata in campo di chi parla, le scene che iniziano fuori campo o di spalle, il movimento della bocca dell’attore. Ad esempio, una semplice congiunzione può talvolta far quadrare la lunghezza della frase. Poi c’è il complesso lavoro che riguarda le vocali e le sillabe: a seconda di come si pronunciano, aperte o chiuse, devono necessariamente corrispondere al movimento della bocca dell’attore in coincidenza di quel suono. C’è inoltre un discorso di ricerca che si basa sul tipo di linguaggio, se è, solo per fare alcuni esempi tra i tanti, gergale, teatrale, o attuale e su come rendere nel migliore dei modi frasi idiomatiche di altre lingue, sempre tenendo conto che si tratta di un prodotto cinematografico, per cui vengono usate espressioni che nella vita non useremmo mai (il classico: “ehi, amico” o “senti, dolcezza”, parlando con uno sconosciuto o con una donna e, perché no, con un amico che riteniamo “inferiore” o poco “maschio”). E, ulteriore lavoro, sempre nel rispetto dell’originale, per le scene di cui non è arrivato il dialogo e per cui, a volte, l’adattatore deve “inventare” senza stravolgere il senso originale».

Perché, può capitare che i dialoghi arrivino incompleti?
«Sì, alcuni copioni arrivano incompleti, spesso sono quelli di prodotti meno importanti, nel senso che l’immagine mostra l’attore che parla ma sul copione hanno omesso di scrivere la battuta, mancante anche nel copione originale. A volte sono semplici movimenti della bocca dell’attore che non sono liquidabili con un “verso” o “fiato”, perché muove proprio la bocca come se stesse dicendo qualcosa, tipo un “d’accordo”, un “infatti”. E lì, devi inventare, e i problemi arrivano quando queste “frasi sul muto” sono lunghe. Normalmente si ovvia con qualcosa di generico e che va bene per ogni occasione. Una sorta di vostro lorem ipsum».

Una volta svolto il lavoro di adattamento, qual è il passo successivo?
«I destinatari del mio lavoro sono i doppiatori, e dunque non ci si limita a lavorare sul testo ma si prende in considerazione ogni singola situazione che compare nel video: l’accavallamento di voci di più persone (o della stessa persona che ricorda qualcosa del passato e intanto commenta al presente) che parlano, tutto ciò che è espresso senza dialogo, le risate, il pianto, i sospiri. Così come indicazioni su quando inizia o termina la battuta, se fuori campo, di spalle, se c’è un “in campo” intervallato da un “fuori campo”, ciò che aiuta il doppiatore a considerare la possibilità di stare più tranquillo sul recitare la sua battuta. Per esempio, se sa che finisce fuori campo è libero di dire la battuta tenendo conto solo dell’aspetto emotivo della frase, perché per la lunghezza interviene il fonico che fa quadrare l’inizio della battuta, unica cosa importante in quanto la fine è, appunto, fuori campo. Questa serie di cose va indicata sul testo finale, destinato ai doppiatori, i quali, in sede di doppiaggio, hanno la possibilità di intervenire in maniera non radicale sul lavoro dell’adattatore; primo, perché a volte una frase “parlata” risulta meno fluida che scritta, secondo perché loro conoscono bene – meglio dell’adattatore, a volte anche per quello che il direttore di doppiaggio richiede – intenzioni e ruolo del personaggio e situazione in cui la battuta è detta, quindi sanno come meglio renderla».

Qual è la parte più difficile di questo mestiere?
«Trovare la parola “perfetta”. Spesso una parola mancante o ideale per quella frase e situazione non vuole venirti in mente, ti lambicchi il cervello… In questi casi è meglio lasciar perdere per un po’, andare avanti sul testo o addirittura uscire. Ma il lavoro a volte ti segue anche fuori casa, magari sei lì che cerchi di berti una birra in santa pace… la ricerca ti perseguita. C’è da dare di matto, perché a volte vivi la tua vita, una cena, un incontro, con una parte della testa fra le nuvole, appesa alla ricerca di quella parola! E poi arriva, all’improvviso, così corri a casa, anche di notte, con quella parola in mente, accendi il pc e le trovi il suo giusto posto, come in un puzzle dialettico, e te ne vai a letto contento».

Quali sono le qualità di un dialoghista?
«La buona conoscenza dell’italiano e un vasto bagaglio di termini sono fondamentali. Una cultura fatta di tanti libri e film può aiutare nell’uso appropriato di parole o intere frasi per ciascun tipo di genere cinematografico. E poi una vista acuta e reattività mentale».

E stando così, in mezzo agli attori, ti viene mai l’irrefrenabile impulso di recitare?
«Beh,  in realtà noi non vediamo nessun attore, non dal vivo almeno. Capita che quando dici che adatti i copioni di film ti rispondano “fico”, perché pensano che magari conosci la Bellucci o Robert De Niro. Poi quando gli spieghi di che si tratta, molti pensano che sei matto a fare una cosa come quella!  È un modo per rivalutare il proprio lavoro, qualunque esso sia (ride).
Detto questo, c’è, in quello che facciamo, una sorta di lavoro attoriale, perché devi imparare la frase da adattare, anche quando è già perfetta cosi com’è, e iniziare a recitarla nel momento in cui parte l’attore e seguirlo qualsiasi cosa accada, se scompare e riappare, se si intromette un altro a parlare… nel film, ma a volte capita anche nella stanza in cui stai lavorando. Ah, dimenticavo, tra le qualità di un dialoghista, c’è la memoria, cosa che aiuta nel risparmiare tempo e nella fedeltà alla lunghezza del testo, soprattutto quando la frase da recitare è di qualche riga. Questo ruolo, o pseudoruolo, di attore ti serve, per esempio, per evitare di mangiarti le parole e rischiare di trovare una frase corta e allungarla, senza renderti conto che sei tu che la stai accorciando declamandola a duemila».

Puoi dirci qualcuno dei copioni a cui hai lavorato?
«Il mio lavoro si è svolto in prevalenza su film o serie francesi e spagnole e ho avuto molte esperienze con manga e anime giapponesi».

Grazie, Marco, per averci portato dietro le quinte e averci svelato un altro pezzo del magico mondo del cinema.

4 thoughts on “Tecniche del cinema à rebours

  1. Una chicca! Un lato nascosto che trovo affascinante, ma ero convinto che fossero i doppiatori stessi ad adattare il testo scritto al labiale. Grazie per averci fatto conoscere questa categoria professionale invisibile ma preziosissima.

  2. Intervista unica e preziosissima da condividere a più non posso… e per quanto personalmente mi riguarda, visto che ogni tanto mi piace guardare i film doppiati in italiano lasciando nel contempo scorrere i sottotitoli in lingua originale in modo da poterli velocemente confrontare, giuro che non oserò mai più lamentarmi di quella che, prima di aver letto questo interessantissimo post, mi sembrava soltanto superficiale e scarsa aderenza al copione di partenza!

    • Uno dei casi che noto di più e quando dicono incavolati “Why”… che restano là appesi al nostro perché. E nei film vecchi invece ogni tanto c’è qualche scivolone, tipo dire “addio” ogni volta che si salutano, parola che probabilmente noi pronunciano 2 o tre volte in tutta la nostra vita 🙂

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